giovedì 18 settembre 2014

Picasso visto da Antonina Vallentin (1939-1944)






Antonina Vallentin. Storia di Picasso. Giulio Einaudi editore 1961, pp. 350-377.
Titolo originale: Pablo Picasso. Editions Albin Michel, Paris, 1957.
Traduzione di Renzo Federici

XIV.    La deriva dell’umano. 1939-1944

Per il 1939 è prevista una di quelle mostre retrospettive che si risolvono in un’apoteosi per un artista. Il 15 novembre dovrebbe aprirsi al Museo d’Arte Moderna di New York la mostra intitolata «Quarant’anni della sua arte», destinata a consacrare definitivamente la fama di Picasso negli Stati Uniti. L’Art Institute di Chicago collabora con New York; tutti i musei americani, tutte le gallerie, tutti i collezionisti hanno inviato opere; molti quadri di collezionisti europei sono già arrivati, altri, nell’autunno, sono in viaggio per gli Stati Uniti. La mostra è stata preparata da tempo. Picasso ha trovato nel direttore del Museo d’Arte Moderna, Alfred H. Barr jr, che prepara il catalogo, il suo interprete più scrupoloso e penetrante, e il lavoro di Barr servirà di guida a tutti i lavori del genere che verranno in seguito. Picasso stesso ha spedito molti quadri di sua proprietà, anche certi dai quali si separa solo a malincuore. Certe sculture sono state fuse in bronzo apposta per la circostanza. Ma al momento dell’inaugurazione certi quadri non sono ancora arrivati: l’Europa è precipitata nella guerra.
Sempre in questo anno muore sua madre. Muore a ottantatre anni, lontano da lui, a Barcellona, dove Picasso, per la posizione politica da lui assunta, non può andare a trovarla. Sono passati più di quindici anni da quando ha dipinto il suo ultimo ritratto, raffigurandola ormai con l’aria di vecchia signora, maestosa e tuttavia con lo sguardo pieno di vivacità e penetrazione. Picasso era rimasto in corrispondenza con lei. Le scriveva meno spesso di quanto lei avrebbe voluto, ma la sua fede nel figlio non era diminuita e considerava il suo clamoroso successo come qualcosa di debito. Un legame profondo, fatto di risonanze lontane, di tratti comuni del carattere, esisteva tra la vecchia signora e Picasso e alla sua fedeltà di figlio spagnolo andava congiunta la gratitudine per averlo sempre sostenuto. Il suo dolore, come tutti i suoi sentimenti profondi, è muto e anche coloro che gli sono vicini non sanno se gioca d’astuzia con la pena o se in lui, abitudinario com’è, la lontananza ha attenuato la sofferenza.
Nell’estate del 1939 il Sud l’attira, come sempre. Ormai ha tutte le comodità per muoversi. Dispone di una macchina e di un autista, Marcelle, che d’altronde diventa un personaggio importante nella sua vita. Il personale che lo serve, come le cose di cui si serve, giungono ad essergli indispensabili per via di durata. Una volta entrati nella sua vita quotidiana sembrano prendervi un posto immutabile, di cui lui stesso si irrita a volte, senza tuttavia riuscire a rompere un legame che spesso è nato solo dal caso. Anche la sua sistemazione di quest’anno ad Antibes, sistemazione che avrà più tardi tanta importanza nella sua vita, si deve al caso: è Man Ray che gli consegna la chiave di un piccolo appartamento nel palazzo Alberto I.
Picasso sgombra i mobili dalla stanza più grande per trasformarla in studio. È preso allora da una sorta di impazienza, dal desiderio di cominciare un’opera di grande mole. Forse, grazie alla costante sensibilità che ha per il suo tempo, avverte che la quiete necessaria al lavoro ormai gli è misurata, che le ore di sollievo saranno ancora poche. Scosso dal suo recente lutto, è ancora più sensibile a quello che accade intorno a lui. Per spiegare il suo accanimento nel lavoro bada a ripetere a Sabartés: «È per non buttarmi dalla finestra».
Si avverte, nel suo fare, anche quel senso di fretta precipitosa che c’è nell’uomo inseguito. Se questa effettiva disperazione non diventa totale, al punto da paralizzare le sue facoltà creative, è per un sentimento assai simile a quello di chi sta annegando ma sa di poter contare su un colpo di reni così forte da poter risalire alla superficie.
Non ha ancora deciso il soggetto quando tende su tre pareti dello studio una grande tela che può essere tagliata successivamente. «Picasso vuole dipingere quello che gli passa per la testa senza doversi tenere alle dimensioni di un telaio», spiega Sabartés.
Ha assorbito profondamente l’atmosfera del luogo prima di mettersi al lavoro. A Sabartés fa vedere tutti i punti della costa che lo incantano, le mura che piombano bruscamente in mare, come il bastingaggio di una gigantesca nave di pietra, dominata dalla massa imponente del Castello Grimaldi, di cui il sole tinge di biondo i muri austeri. Per quanto sia fanatico del gran sole, questa volta non è il fulgore del giorno ad attirarlo, ma una scena notturna: come se queste notti d’estate, con la loro ricchezza di colore, gli apparissero più preziose delle rivelazioni della luce piena. Una scena di genere gli serve da punto di partenza. Nel porto di Antibes la notte si pesca a fiocina alla luce di fanali. Sul molo due ragazze guardano i pescatori al lavoro. Una, che regge una bicicletta, ha i tratti deformati di Dora Maar, l’altra ricorda Jacqueline Breton-Lamba. «Era caldo la sera che si fece il giro del porto, - racconta Dora Maar, - e si erano comprati dei coni gelati». La ragazza con la bicicletta lecca infatti con la lingua aguzza un doppio cono. Ma scena di genere ed aneddoto sono per Picasso solo pretesti per trasferire nel suo mondo una fantasmagoria notturna. Sullo sfondo del cielo d’un blu vellutato naviga un’enorme luna rossiccia che lascia filtrare la sua luce come tra due ciglia. Le torri e i tetti delle case si profilano violetti su questo caldo cielo d’estate; il mare smalta di un azzurro verde il molo azzurro, ma una murata di esso luccica verde sotto la luce artificiale; dal fondo della piccola barca, di un azzurro cupo sul viola, emergono dei pescatori come pallidi fantasmi. Gli esseri umani e gli oggetti non sono più che segni di un baluginare di forme in fondo a una notte di luna, nella quale le ombre rimaste trasparenti si urtano alla forza esplosiva delle luci. La deformazione che riscatta la sagoma volgare della bicicletta con le sue curve ondeggianti, le curve delle braccia, dei capelli, delle vesti, tutto prende un senso particolare, tutto sembra ridotto a una durata limitata, a una realtà appena intravista e già sul punto di dissolversi.
Chi ha vissuto le notti di questo agosto del 1939 nel Sud, le ricorda come struggenti di dolcezza e fulgore. La Péche de nuit à Antibes (New York, Museum of Modern Art), come inquadrata, ai due lati, dalla tela bianca, che funge da riflettore, prende uno splendore di cristallo.
Picasso ormai lavora accanitamente; lavora contro il tempo. I frequentatori del caffè di Place Victor-Massé commentano con angoscia crescente le gravi notizie del giorno. Ci si aggrappa alla speranza come se la quiete immobile di queste notti d’estate escludesse ogni mutamento. Picasso dipinge, quasi suo malgrado, un mondo stabile già pronto a saltare in aria. È solo una scena, quanto mai tranquilla, in un angolo del porto: in realtà è già il cataclisma del mondo che si preannuncia.
Le notizie si fanno sempre più allarmanti. Picasso si aggrappa alla sua vita operosa come volesse farsene una difesa. I primi manifesti di mobilitazione appaiono sui muri dei municipi. «Proprio ora che ho cominciato a lavorare!», brontola Picasso. Place Victor-Massé si è improvvisamente vuotata; il caffè è deserto. Autocarri attraversano la città carichi di soldati. Poi, all’improvviso, la difesa antiaerea ordina l’oscuramento. Una notte opaca si abbatte su Antibes. Le lanterne dei pescatori non ondeggiano più sull’acqua verde. Tutto è chiuso nelle tenebre. Si stacca in fretta la grande tela.
Ed è la Parigi delle voci contraddittorie, delle notizie, false o vere, scambiate come fossero confidenze segrete; è il panico irragionevole che si diffonde e l’affacciarsi di speranze più assurde ancora. Tutti corrono da Picasso, fin dal mattino, tutti quelli che, per la sua celebrità, lo credono meglio informato di tutti gli altri.
Anche se lui stesso è indeciso e disarmato, esercita tuttavia una singolare attrazione sui dubbiosi e gli agitati, come se comunicasse loro un po’ della forza che nel profondo resiste in lui. Tuttavia anch’egli si trascina alla cieca in questo mondo fantomatico di vigilia di guerra, di una guerra ancora senza volto. A Rue La Boétie e nel suo studio fa imballare i quadri, ma poi lascia i pacchi a mezzo, comincia a ordinare certe cose, ma poi lascia fare. Si comporta in pratica come tutti coloro che, pur sapendo la guerra inevitabile, si ribellano, in un sussulto del loro istinto vitale, contro la loro stessa certezza.
Parigi si vuota. Il fuggi fuggi generale è cominciato. «Ogni separazione sembra un addio per l’eternità», racconta Sabartés. Anche Picasso sfolla, accompagnato da Sabartés e sua moglie, da Dora Maar e il suo cane Kazbek. In questa notte del 1° settembre ci si attende la comparsa degli aerei tedeschi su Parigi.
Come tutti quelli che si rifanno alle esperienze della prima guerra mondiale, Picasso ha scelto per rifugio la zona costiera, che è considerata al riparo dall’avanzata nemica. Sulla strada di Royan l’auto incrocia dei gruppi di cavalli requisiti dall’esercito. Se ne vanno due a due o tre a tre, guidati da un uomo a piedi. Picasso è impressionato dall’aria sottomessa, stanca degli animali. Le sofferenze degli animali lo toccano sempre profondamente, in modo più forte forse di quelle degli uomini. «Sembra che capiscano, - osserva, - e capiscono certo che non vanno al loro solito lavoro». I primi disegni che butta giù a Royan, non appena ha un blocco di carta a disposizione, rappresentano dei cavalli requisiti.
Scende all’Hotel du Tigre e affitta una stanza nella villa «Gerbier de Joncs». Questa stanza, che serviva da sala da pranzo, è stipata di mobili, buffet, scrivania, mensole, tavolini, tutto il bric-à-brac che si trova in certi interni di provincia. «Muoversi tra questi mobili sovraccarichi è difficile come manovrare in un porto minato», osserva Sabartés. Picasso trova a stento posto per le tele, i colori, i pennelli. Tuttavia vuole mettersi subito al lavoro. «Tende sempre a risolvere ogni problema, per quanto grave, assoggettandosi a una cura di lavoro». Quando vede Sabartés disoccupato e irritato di questo ozio forzato, gli consiglia la stessa disciplina: «Scrivi, vecchio mio, scrivi... Scrivi quel che vuoi. Scrivi per te se vuoi, anche se sarà solo per te e vedrai che il cattivo umore se ne andrà...»
Da questo saggio consiglio è nato poi il libro Portraits et souvenirs, libro chiave per la conoscenza di Picasso. Ma quanto a Picasso, la ricetta non serve a difenderlo contro l’angoscia del momento. È venuto a sapere che i forestieri arrivati dopo il 25 agosto non hanno diritto di soggiornare in città, dichiarata zona di frontiera. La sua celebrità basterebbe a proteggerlo da ogni fastidio della polizia, ma questo eterno oppositore, questo indisciplinato feroce conserva uno strano rispetto per l’autorità. «Il fatto di sapere che non è del tutto in regola con la legge lo inquieta a tal punto che non riesce a lavorare». Corre a Parigi per ottenere il permesso di soggiorno necessario e l’indomani è di ritorno.
[...]
Nonostante la strana calma che regna nel mondo, che pure è in guerra, egli si preoccupa della sorte dei quadri che ha lasciato nei suoi vari domicili. Verso la metà di novembre, con Sabartés e Dora Maar, parte per Parigi. Arriva anche a Tremblay e a Boisgeloup per mettere in luogo sicuro tele e disegni e prendere dei colori e un vero cavalletto.
La ex sala da pranzo che gli serve da studio sembra farsi più piccola e meno luminosa via via che le giornate si accorciano. Picasso si decide alla fine ad affittare uno studio e una stanzetta all’ultimo piano della villa «Les Voiliers», una stretta casa incuneata tra i due grandi alberghi di Royan. Avrà una vista magnifica davanti. «Non ho bisogno, da solo, di un panorama così grande, - commenta, - ma non aver niente davanti a sé pesa molto». Quando vi si trasferisce, verso la fine di gennaio del 1940, indugia a lungo davanti alla finestra a contemplare il mare e il ciclo arrossato dal tramonto. «Andrebbe bene per qualcuno che fosse pittore», gli scappa detto, quasi con una punta d’invidia per tutti coloro che non si sentono investiti della missione di scomporre l’universo. Sembra che gli dispiaccia di aver lasciato la stanza scomoda e ingombra, dove bisognava piegarsi in due per lavorare. Così si porta dietro dei mobili bizzarri, una poltrona coperta di velluto verde oliva, un’altra fatta di legni flessibili ritorti e lavorati come giunchi.
Questa poltrona è uno degli accessori che s’imporranno, tirannici, nell’opera di Picasso come unico elemento di continuità nella sua perpetua dispersione. Dipinge, soprattutto facendo posare Dora Maar, una serie di ritratti sempre più distanti dal modello e sempre più tendenti alla maschera, alla magia terrifica. Le Donne sedute di questo momento, figure dai tratti decomposti, dipinte come fantasmi di carne beige su fondo grigio o involte in bluse multicolori giocate su accordi stridenti, sono il più delle volte ridotte a piani lineari, a forme geometriche infernali. Ma ritorna anche alle sue antiche figure da prua di nave, a forte rilievo. La Femme nue se coiffant, dipinta in quest’estate di Royan, è un monumento all’atroce dismisura del tempo. Il corpo che, con le sue curve abbondanti, sembra di legno tornito, a differenza delle bagnanti che compivano i loro gesti barcollanti da robot sullo sfondo del cielo e del mare, è incuneato tra muri verdi, in uno spazio così ristretto che ne urta i limiti con i gomiti, i piedi e la testa. Visto dal sotto in su, il nudo seduto su un guanciale violetto presenta anzitutto i suoi piedi giganteschi, la cui pianta enorme è dipinta in modo quasi realistico, e nei quali sono accuratamente segnate le unghie degli alluci. «Picasso vuole fare vero, più vero che la natura, - scrive Frank Elgar; - i suoi peggiori attentati contro la figura umana sono la contropartita malefica della sua passione di veridicità».
Il colosso dilaga nelle natiche e nel ventre, si strozza invece alla vita grazie a due pieghe fortissime; incavi profondi fanno risaltare le coste, i seni puntano verso l’alto, metà carne metà legno tagliato, con punte a forma d’occhio. Questo mostro si assottiglia in cima, il pezzettino di testa si scompone in un naso volto verso destra, in una bocca volta a sinistra, negli occhi che si urtano alle palpebre arrossate. Il tratto più spaventoso in questo viso devastato è che una delle narici freme ancora in questo legno tagliato e che, sulla superficie piallata, la bocca si allarga piatta, rossa, provocante di femminilità.
Questo modo di disarticolare i tratti delle figure ha avuto inizio con Guernica, come fa notare Sidney Janis, che aggiunge: «Proprio come la guerra, che da conflitto spagnolo, localizzato, è dilagata a lotta mondiale, così queste deformazioni si sono dilatate invadendo tutta la sua opera e dando inizio a una nuova fase della sua arte».
Si agita a quell’epoca in Picasso un sordo rancore contro l’umanità stravolta. «Ci crediamo superiori agli animali, - brontola, - è falso». Si ribella alle invenzioni dell’uomo, l’orologio, ad esempio, di cui denuncia i misfatti. «Con tutte le nostre scienze siamo arrivati a perdere il senso della direzione; ora non abbiamo che un residuo di istinto per portare la mano al punto del nostro corpo che vogliamo grattare quando ci prude».
Una nuova inquietudine si impadronisce di lui. Ha lavorato molto. Oltre ai quadri, ha dipinto a olio su carta innumerevoli schizzi, per lo più a monocromo. A volte, lasciando la tela che aveva nel cavalletto, ha fatto parecchi schizzi in un sol giorno. Per lui non sono che appunti, benché spesso si tratti di cose molto elaborate. «Questo accumulare idee pittoriche sulla carta, - ha spiegato più tardi, - è una eventuale aggiunta a qualche cosa che posso utilizzare nei quadri, benché non sia mai esattamente la stessa cosa».
Via via che l’inquietudine aumenta riduce il lavoro. Il momento è gravido di minacce. Si sente che la guerra ben presto cambierà fisionomia. Verso la metà di marzo Picasso parte con Dora Maar per Parigi. «Lavoro, dipingo e mi secco tremendamente», scrive in una cartolina a Sabartés. Una mostra di suoi acquarelli, guazzi e disegni dovrebbe aprirsi alla Galleria M. A. I. il 19 agosto. In questa Parigi tutta voci allarmanti gli prende nostalgia della quiete di Royan. Il 27, 28 e 29 marzo, tre giorni di seguito, dipinge delle nature morte. È il mercato di Royan che ha davanti agli occhi nel suo studio di Rue des Grands-Augustins quando scrive a Sabartés: «Ho lavorato. Ho fatto tre nature morte, dei pesci, con una bilancia, un grande granchio e delle anguille».
La grande offensiva tedesca è cominciata. Le proporzioni del disastro si immaginano a fatica. Una ventata di panico piomba su Parigi. Picasso ritorna a Royan il 17 maggio. Si butta al lavoro come per mettere un muro tra sé e gli avvenimenti. Ma la guerra prende un volto anche per coloro che non riuscivano a immaginarne l’orrore. Si scavano trincee, difesa irrisoria contro forze esplosive ignote. I primi rifugiati arrivano a Royan. Picasso incontra per la strada amici o conoscenti in fuga, uomini politicamente compromessi, artisti ebrei, che vogliono imbarcarsi a Bordeaux o rifugiarsi nel Sud.
Le truppe francesi ripiegano senza ancora aver capito quel che accade. I locali sono requisiti, i ristoranti rigurgitano di gente. Davanti ai fornai si formano le prime code. I tedeschi sono entrati a Parigi.

È un’altra razza, - brontola Picasso. - Si credono molto intelligenti e lo sono a volte... In ogni caso è certo che noi dipingiamo meglio di loro. Tante truppe, tante macchine, tanta forza e tanto spavento per venire fin qui... Immaginano d’aver preso Parigi. Per contro noi, senza muoverci di qui, da molto tempo siamo padroni di Berlino e non credo che saranno capaci di sloggiarcene.

Sembra parlare per rassicurare se stesso. Una sera le truppe tedesche arrivano a Royan. Picasso le vede sfilare dalla finestra del suo studio. La Kommandantur si insedia nelle immediate vicinanze dell’Hotel de Paris.
Il 15 agosto Picasso dipinge il Café a Royan. Ha profuso nella tela tutte le sonorità della sua tavolozza e la freschezza dei colori è ravvivata dal lucido degli smalti. Sopra i verdi, i lillà, i violetti della piazza si leva una casa gialla con le imposte azzurre entro cornici rosse. Il balconcino di legno al quale si è spesso affacciato suggerisce l’idea di un grazioso scenario teatrale, le tende che lo riparano sono a righe festose verdi e gialle.Il cielo d’un azzurro cristallo, toccato di verde per il riverbero del mare, sembra spazzato da un vento fresco. Il quadro è un’esplosione di gioia, di fede nella vita. È l’addio di Picasso a Royan.
Fra poco non resterà nulla della Royan che ha conosciuto. L’Hotel de Paris, dove i tedeschi si sono arrogantemente insediati, scomparirà sotto i bombardamenti. La villa «Les Voiliers», nella quale ha dipinto il volto felice della città, sarà anch’essa ridotta a macerie. Amici consigliano a Picasso di lasciare la Francia occupata. È l’esponente per eccellenza di quel «Kunstbolschevismus» contro il quale un pittore mancato, l’onnipotente vincitore del momento, riversa il suo rancore personale. È noto l’aiuto che l’autore di Guernica ha prestato ai repubblicani spagnoli e l’odio dei tedeschi tiene una contabilità precisa. Picasso riceve inviti da tutte le parti, dal Messico, dall’Argentina, dagli Stati Uniti. La sua grande mostra di New York ha attirato su di lui l’attenzione generale. Egli invece decide di rientrare a Parigi occupata. Al momento della partenza, quando sta per salire in macchina, con Kazbek dietro, un ufficiale tedesco, che se ne stava rigido davanti alla porta della Kommandantur, gli si accosta: «Bitte, - e facendo appello a tutte le sue conoscenze di francese, - le dispiacerebbe dirmi di che razza è il suo cane?»
È una Parigi deserta e triste quella in cui ritorna. Dapprima va ad abitare in Rue La Boétie. Ma i tragitti tra casa e studio divengono difficili. Decide così di trasferirsi in Rue des Grands-Augustins. Nel generale clima di freddo e di fame si mette al lavoro.
Gli ultimi giorni del soggiorno a Royan, quando già aveva imballato tutte le sue tele, ha dipinto ancora due ritratti sui coperchi delle casse d’imballaggio. Sempre a Royan, a un collega agitatissimo che gli chie­deva: «Cosa faremo con i tedeschi alle calcagna?», «Delle mostre», ha risposto. In realtà invece, compromesso com’è agli occhi dei tedeschi, gli sarà proibito di esporre a Parigi. Provvede a mettere al sicuro la maggior parte dei suoi quadri nei sotterranei blindati di una banca, ne trattiene però presso di sé più di un centinaio. E lavora.

Non era il momento per un artista di venir meno, di tirarsi indietro, di arrestarsi nel lavoro, - dirà più tardi; - non gli restava altro da fare che lavorare, seriamente, con fervore, che lottare per il cibo, che incontrare con calma gli amici, e aspettare la libertà.

La lotta anche semplicemente per sopravvivere è dura. Fa freddo nella grande casa di Rue des Grands-Augustins, dove l’impianto di riscaldamento centrale, messo di recente, è inutilizzabile. Le dita intirizzite reggono con fatica un pennello. Un giorno scova da qualche parte una immensa stufa a carbone che viene issata a fatica per la scala ripida e a curve strette. Non si riesce a trovare abbastanza carbone per alimentarla, ma Picasso trova che assomiglia a una scultura negra. Tuttora essa domina con la sua massa sgraziata lo studio di Rue des Grands-Augustins. Per semplificare le cose, gli prestano una cucina economica che riempie di fumo la stanza.
Ai primi di febbraio del 1941, «unicamente come passatempo, - dice Sabartés, - Picasso comincia a scrivere». Riempie un album di appunti. Gioca con le parole come con la carta pieghettata, il filo di ferro, i fogli di stagnola, i fiammiferi, i pezzi di crine o gli spaghi con i quali fa innumerevoli oggettini ricordo. Ma le sue dita impazienti sembrano spontaneamente arrivare a forme coerenti; le parole invece prendono in lui strade autonome. Il suo pensiero letterario non ha la disciplina, la sicurezza istintiva della sua visione plastica. Il surrealismo, che non ha influito sulla sua pittura, se si tolgono certi disegni del 1933, impronta invece sensibilmente il suo stile. Gli appunti di cui riempie i suoi taccuini prendono forma di una commedia che scrive guidato da idee vagabonde, da frammenti di quel che ha visto e sentito. Bruschi contrasti tra l’assurdo e il quotidiano formano arabeschi imprevisti, un pulviscolo di colori. Picasso si diverte molto a scrivere questa commedia che intitola Le désir attrappé par la queue.
L’opera conserva un’eco delle privazioni del tempo, da lui interpretate secondo il suo particolare senso dell’humour. L’inizio del secondo atto si svolge in un corridoio del Sordid Hotel con due piedi davanti a ogni porta che si torcono di dolore e urlano in coro: «I miei geloni! i miei geloni!...» C’è anche il ricordo della stufa che fa fumo, «la mia cuoca, schiava slavo-ispano-moresca e serva e padrona albuminurica». L’isolamento degli uomini fra gli egoismi ripiegati su se stessi, nella sete d’amicizia e nella diffidenza dei vicini, si rispecchia in questa battuta di uno dei personaggi, l’Angoscia magra: «Io batto il mio ritratto contro la mia fronte e offro la mercé del mio dolore contro le finestre chiuse a ogni misericordia». Le désir attrappé par la queue è un riso un po’ forzato, esploso attraverso le notti di Parigi.
Nel marzo del 1943 i Leiris invitano alcuni amici per una lettura dell’opera. È la Parigi del coprifuoco, delle perquisizioni a ogni ora, dei colpi violenti alla porta che sono l’incubo di ogni notte. È la Parigi cantata da Eluard con parole che ogni francese allora sapeva a memoria, è la Francia del terrore di cui ha fissato il volto:

Que voulez-vous la porte était gardée
Que voulez-vous nous étions enfermés
Que voulez-vous la me était barrée
Que voulez-vous la ville était matée
Que voulez-vous elle était affamée...

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono di quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germain Hugnet, Jacques Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».
In un articolo pubblicato in «Comoedia» Vlaminck fulmina contro di lui, Camille Mauclair lo proclama responsabile della crisi dell’arte moderna, un volantino fascista americano lo accusa della decadenza della pittura e il suo nome figura degnamente in un libro di Vanderpyl dal titolo ben eloquente: L’Art sans patrie est un mensonge; le pinceau d’Israel.
È in questo momento che la forza d’astrazione di Picasso, quella sua impermeabilità a tutto ciò che può distoglierlo dalla sua strada, si manifesta a pieno. Come se, in un mondo in piena distruzione, volesse aggrapparsi a qualche cosa di stabile, egli varia all’infinito un unico motivo, quello della Donna seduta. Ma il senso di distruzione che è nell’aria s’insinua anche in lui e scatena le catastrofi che egli compie sul viso di Dora Maar. Ecco ad esempio la Femme au corsage bleu (Galleria Leiris), dove appare una blusa punteggiata di bolli bianchi che ritornerà a più riprese nei suoi quadri e che in realtà Dora Maar non ha mai portato.
Questo frammento di testa troppo pesante non è che un primo segno, si direbbe ancora timido, delle deformazioni future. Picasso dipinge Dora Maar a due riprese in un abito che ha veramente portato nell’estate del 1941: un corto giacchetto scozzese ad ampi risvolti, il bustino col colletto a punte. Ma tra questo abito elegante e il cappellino con una grande piuma si leva, sul minuscolo cuneo del collo, una testa immensa, costruita a forza di mutilazioni atroci, come per diffondere l’orrore. Il fondo del quadro rappresenta la solita cella di prigione, col soffitto così basso che il cappello vi urta. In questi quadri, in cui l’intero viso umano si decompone, l’unico elemento che perdura uguale è una poltrona metallica a schienale diritto con due palle in cima: una sorta d’armatura che resiste alla distruzione.
La poltrona, la cella e il soffitto basso, solcato da travi grigio acciaio, ritornano anche in un ritratto dipinto nell’inverno 1941-1942 (Milano, coll. Carlo de Angeli Frua), in cui il modello porta un elegante vestito azzurro con maniche a sbuffi e un cappello a minuscola calotta e orli ondeggianti. Le deformazioni dell’immensa testa, issata su una base aguzza, sono così accentuate che sembra essere stata tornita in legno prima d’essere stata mutilata.
In forme ugualmente scultoree è dipinto il Garçon à la langouste, con lo stesso gruppo naso-occhio che sporge verso l’alto mentre una bocca a mezzaluna con denti rari sorride, come sorridono i monelli di Murillo. La parte inferiore del corpo, con due enormi piedi, è nuda e scopre un piccolo sesso. È un ricordo di Royan che affiora in questa Parigi tormentata, un ricordo dei tempi felici in cui dei ragazzi giocavano ridendo con degli animali in riva al mare. Il ragazzetto del quadro è già una visione infernale, tipica di un mondo sconvolto.
Ma gli incubi di Picasso non infieriscono solo sui visi. I nudi che dipinge o disegna in questo tempo si presentano sempre più spesso, se pure sotto aspetti diversi, con i loro corpi stretti insieme senza elementi di passaggio. Essi sembrano evocare gli incubi di Goya, il Goya che nelle Disparates disegna donne con molte membra e con la testa di Giano. Picasso però non si propone, come Goya, di raffigurare le contraddizioni che si agitano in un essere umano, ma la simultaneità tormentosa della sua esistenza. Una serie di schizzi, eseguiti nel mese di maggio del 1941, studia, attraverso molte variazioni, la veduta circolare di un corpo disteso. Un disegno dai contorni quasi realistici mostra un nudo con due profili saldati insieme, una veduta da tergo unita alla veduta frontale.
Il tormento dei corpi persiste attraverso la tormenta del tempo. Su un letto appaiono una donna nuda, vista di fronte e di profilo, distesa, e una seconda donna seduta, vista anch’essa di schiena e di fronte, con le gambe penzoloni scostate sì che lasciano vedere il sesso ombreggiato. Picasso ripete più volte, soprattutto nel 1942, il motivo torbido delle due donne e le dipinge nude, con gran violenza di verdi, gialli, rossi, bruni e violetti: l’una in piedi, l’altra stesa sul divano in fondo al quale si leva un armadio a specchio.
Il tema delle due donne amorose, accentuato dalla presenza di uno specchio, si conclude nell’Aubade (Parigi, Museo d’Arte Moderna), nella quale una donna nuda, tutta contorta in modo da presentarsi da ogni lato, sta distesa su un divano a righe, mentre l’altra, dall’aria curiosamente di maschiaccio, sta seduta su una sedia, vestita, con un mandolino sulle ginocchia. I diversi aspetti simultanei del nudo sono resi a piani continui o a sfaccettature, spigoli aguzzi e ombre marcate, disseminate qua e là. In pratica però è l’incastro dei piani netti che prevale in lui, con contrasti violenti di colore.
Egli svolge metodicamente la sua visione con la serie delle Donne sedute, esercizio d’interpretazione condotto su vastissima scala. Le forme sfuggono sempre più in direzioni opposte, come se fossero prese dal panico. Della Femme assise dipinta in ottobre non rimane che un vestito azzurro appoggiato alla poltrona, molto scollato, contro un fondo arancione, mentre il triangolo del collo si è rifugiato su una spalla e sostiene sul suo fragile vertice i grossi triangoli e rettangoli che compongono il viso azzurro, lillà e rosso. Il tutto è sormontato da un cappello a guarnizioni complicate come se il nodo, il fiore o la penna che regge avessero il compito di legare l’indicibile e l’assurdo alla femminilità.
Nella Femme assise tenant un alphabet, eseguita nello stesso mese, la poltrona sormontata dalle palle rimane la sola struttura stabile di un mondo sconvolto. Come dice Barr, i tratti completamente centrifugati del viso avvicinano la figura a un totem rituale della Nuova Irlanda.
Nella serie delle Donne sedute i toni violenti si alternano a colori spenti. La Femme assise dipinta nel novembre porta un vestito nero a riflessi azzurri e la sola nota di colore in questo notturno è il lungo ovale rosa del viso mezzo mangiato da un’ombra azzurra. Secondo la legge intima di Picasso, le cose resistono mentre l’elemento umano va alla deriva, e il vestito, con il suo drappeggio complicato (inventato da lui, d’altronde, non copiato dal vestito della modella) è dipinto minuziosamente, al pari del fermaglio d’oro che lo chiude. Fra tutte le sue barbariche evocazioni di donne sedute, nelle quali l’urlo dei gialli, rossi e verdi si fa sempre più forte, questo ritratto fatto di penombra, con un occhio verticale accanto a uno orizzontale e la piccola macchia purpurea della bocca contro la guancia, è uno dei più allucinanti. Gli occhi, resi con una semplice macchia nera ovale, con un puntino al centro, sono invasi dalla paura. La donna seduta in nero potrebbe anch’essa servire da emblema a questi anni che scorrono tetri con appena un vago soffio di speranza.

Non ho dipinto la guerra, - ha detto Picasso dopo la Liberazione, - perché non sono di quei pittori che, come fotografi, vanno in cerca d’un soggetto. Ma non c’è dubbio che la guerra c’è nei quadri che ho dipinto allora. Più tardi forse uno storico dimostrerà che la mia pittura ha cambiato per effetto della guerra. Io, personalmente, non lo so.

La guerra c’è, in realtà, nei quadri di Picasso. C’è perfino nelle nature morte di quegli anni. La vita quotidiana di allora è fatta di privazioni sordide. Picasso, che ha nel sangue la grande sobrietà degli spagnoli, si adatta facilmente alle condizioni di vita più austere. Ma la crescente penuria di ogni cosa intacca perfino la sua indifferenza in fatto di cibo. Un giorno dipinge il Buffet du «Savoyard», il ristorante dove mangia spesso, con i pezzi forti dei pasti di quel tempo: un sanguinaccio nero e dei carciofi, e in più un grande coltello da cucina e una bottiglia. Il quadro è dipinto con gli stessi toni spenti del ritratto precedente e vi domina, secondo le parole stesse di Picasso, «un’atmosfera grigia e tetra come Filippo II»; i coltelli e le forchette spuntano dal cassetto «come anime del Purgatorio». Gli anni bui si riflettono anche nelle Nature morte col cranio di toro del 1942 (Parigi, Galleria Leiris), condotte in un verde crepuscolare contro un muro grigio, al di sopra di una tavola viola cupo, accanto a una pianta verde. Attraverso la finestra penetra obliquamente un’onda di luce rosa sul lillà, ma la finestra ha un’inferriata spessa come quella d’una prigione.
Gli anni di freddo e di fame si ritrovano, evocati con un humour nero, nella Femme assise avec chapeau aux poissons, dove il viso della figura, immerso in un’ombra d’un grigio verdastro segnato di nero, è sormontato, come fosse un cappello, da un piatto di un azzurro festoso sul quale posano una testa di pesce, un limone tagliato, un coltello e una forchetta.
Di quando in quando Picasso si concede una pausa, una breve evasione dalla tristezza dei tempi. Dei fiori appaiono sulla tavola, in una brocca di cristallo posta davanti a una finestra o a un muro chiaro, con in fondo uno specchio che capta tutta la luce. Altro momento di sollievo: un ritratto di Dora Maar (maggio 1941) che riproduce il suo vero volto oppure il ritratto di Nush Eluard (Parigi, Museo d’Arte Moderna) dell’agosto dello stesso anno. Sul busto nudo di un corpo giovanissimo si erge un collo fragile, sul quale la testa, con la sua massa di capelli, appare troppo pesante; nei lunghi occhi, mezzo abbassati sotto la frangia delle ciglia, sembra passare il sorriso che non c’è sulla bocca dolce, quasi infantile. Questo straordinario ritratto è un avvertimento del destino, è il viso, tessuto di luce, di quelli che non sono fatti per resistere e che già portano in sé una morte precoce.
I mostri continuano nell’opera di Picasso, prendendo volta a volta l’apparenza di tutti i terrori che ossessionavano l’uomo primitivo quando aveva freddo e fame, quando lottava per sopravvivere. Ecco la Femme tenant un artichaut, un carciofo grosso come una mazza irta di punte, idolo barbarico con un occhio-narice, un orecchio issato più in alto del sopracciglio, una bocca a mezzaluna (1942). Oppure quella personificazione della collera che è la Femme assise dell’anno dopo con gli occhi rivoltati, il vestito a pieghe che assomiglia a un’armatura d’acciaio, o ancora, quelle Donne in grigio che divengono sempre più allucinanti. Si direbbero vittime di una vendetta oscura che attribuisce loro occhi sovrapposti, folli e tristi, una cattiva bocca a mezzaluna oppure un rettangolo di denti messi a nudo. Dipinge anche donne il cui profilo invade il viso visto di fronte e che sembrano dipinte in una materia fosforescente. Tale è la forza di distruzione che emana da queste creature che sembrano mettere in pericolo tutto ciò che le circonda: quando si cullano su una poltrona a dondolo il pavimento a mattonelle si alza gonfiandosi come un’onda.
Ma il cerchio infernale della sua opera non ha presa su Picasso. Circondato da incubi e da violenze condotte contro il mondo visibile, egli tuttavia conserva quell’estrema sensibilità che lo porta a solidarizzare con tutte le sofferenze e tutta la sua lucidità di giudizio. La sua penetrazione psicologica e i grandi mezzi di cui dispone per rivelare intero un essere umano appaiono nel drammatico ritratto di Dora Maar dell’ottobre del 1942. Tuttavia questo viso dalle mascelle quadrate che si stringono è un viso chiuso; esso spicca, bianco e rosa, contro le ombre azzurre e verdi, entro la sua cornice di capelli scuri con riflessi che vanno dal rosso al verde. La veste che figura nel ritratto, e che in realtà Dora Maar non ha mai portato, è d’un tessuto a righe allegre, verdi e rosse, con un collettino bianco orlato di smerli. Ma contro il vestito vivace, che si tende sul petto alto, le braccia si stringono con un gesto freddoloso. Col suo ricco cromatismo questo ritratto era forse destinato a segnare uno dei momenti di speranza che illuminavano quegli anni, o uno dei sogni sul futuro che permettevano di resistere. Anche i tratti del modello spiravano calma: la fronte liscia oltre le sopracciglia, la bocca segreta e ferma; solo il fremito delle nari rivelava la forza emotiva della figura. Ma mentre il ritratto è ancora in lavorazione Dora Maar è sconvolta da un dolore famigliare: sua madre si ammala e muore prima che il ritratto sia finito. L’angoscia del modello è penetrata a poco a poco nel quadro e si rivela nella contrazione dolorosa della fronte, nelle ciglia corrugate, nello sguardo che si rifiuta di capire, in un muscolo della guancia che freme. Di fronte a questa donna che muta espressione via via che il ritratto procede, vestita d’un abito troppo festoso per la circostanza, Picasso si sforza di cogliere ciò che è quasi impossibile fissare: un viso umano che passa dalla spensieratezza all’apprensione, dall’apprensione alla certezza dolorosa. Tutto il quadro è permeato, e in modo evidente anche non conoscendo le circostanze, d’un sentimento drammatico. Il fondo con i suoi azzurri che schiariscono o incupiscono, i suoi bruni che s’infuocano o trapassano al verde, ha qualche cosa d’una tenda o d’un paravento chiuso su un mistero. Sempre seguendo la simbolica di quel senso di gelosia che assegnava a Dora Maar una stretta cella come sfondo dei suoi ritratti, anche qui Picasso aveva messo nel fondo un’inferriata, una brocca d’acqua e un pezzo di pane. Ma di fronte al dolore della sua bella prigioniera il feroce sentimento di possesso di Picasso scompare, e scompare anche l’inferriata sim­bolica del quadro.
Nel ciclo della donna prigioniera rientrano però ancora il Buste devant la fenétre (Galleria Leiris) dall’apparenza di un manichino di modista con un doppio profilo giustapposto. Una gabbia di uccelli, uno dei simboli cari a Picasso, e la pianta nel vaso sottolineano questo carattere di figura sottratta alle tentazioni del mondo.
Il Buste è condotto nella tonalità spenta di cui Raynal ha detto: «La tavolozza di Picasso si era messa in lutto». Questo periodo è stato anche chiamato «l’epoca grigia». Ma la sua gamma consta di lillà, verdi, azzurri, bruni, di tutto il ricco gioco di sfumature che si dispiega al crepuscolo, e che è simile all’effetto delle voci che, parlando basso, rivelano una cantilena segreta. C’è nelle nature morte di questo periodo un fondo di mistero e Picasso stesso sembra preso dalla magia da lui creata. Capita spesso in un ristorante vicino a casa sua e che porta un nome suggestivo per lui: «Le Catalan». Verso la fine di maggio del 1943 dipinge in due riprese la Desserte del ristorante, contro un fondo giallo con le cornici barocche di un mobile scuro alle quali corrispondono le curve dei piatti. Ha raccontato più tardi:

Desinavo al «Catalan» da mesi e da mesi guardavo il buffet senza pensare altro che: «È un buffet». Un giorno decido di farne un quadro. Lo faccio. Il giorno dopo, quando arrivo, il buffet non c’è più, il suo posto è vuoto. Dovevo averlo preso senza accorgermene, dipingendolo.

Come tante altre battute di Picasso, anche questa nasconde un grano di verità: il suo stupore di fronte a tutto ciò che gli succede di strano, di fronte ai suoi rapporti, del tutto speciali, con gli oggetti che la vita convoglia per depositarglieli accanto. Le sue nature morte, anche quando la tavolozza si schiarisce, anche quando riversa sulla tela tutta la festa dei suoi colori, rimangono permeate da un senso di dramma. Così la Nature morte ù la colombe suggerisce con poderoso realismo l’idea di una creatura morta, come se l’uccello non avesse un triangolo appena abbozzato per testa e due occhi uno sopra l’altro.
La Nature morte avec la guitare et l’épée de matador sembra fatta anch’essa d’accenti festosi, d’un accostamento d’oggetti piacevoli, ad esempio il sigaro che si consuma in un portacenere di cristallo.
Si nota allora in Picasso, così restio ad ammettere soggetti nuovi, un desiderio di novità. Nelle sue nature morte introduce oggetti che finora non gli erano mai serviti. Un campo nuovo si apre nella sua opera: l’infanzia. Tanto il soggetto che il modo di trattarlo sono del tutto imprevisti. Un grosso bimbo paffuto sta seduto a terra, vicino a una sedia sulla quale stanno appollaiate due colombe, una sul sedile, l’altra sullo schienale. Nella testa tonda del bambino gli occhi appaiono sbarrati con insistenza. Non si è servito di modello, tuttavia i tratti della figura hanno qualcosa di vagamente famigliare. «L’abbiamo chiamato Churchill, - spiega Picasso ridendo; - abbiamo trovato che gli somigliava». Dello stesso anno 1943 sono anche Les premiers pas. Picasso non ha rappresentato l’incanto del goffo muoversi dei bambini, la grazia di un corpicino appena formato, ma l’immensità dello sforzo sostenuto da questo bimbo più grande del vero, il dinamismo della sua conquista del mondo. Il bimbo in un primo tempo doveva figurare da solo nel quadro; solamente più tardi Picasso vi ha aggiunto la madre piegata su di lui. La scelta del soggetto è dovuta al caso o non indica invece qualcosa come un impeto di tenerezza, che non sa ancora che un giorno sarà soddisfatta?
Fra i soggetti rari in Picasso (e tanto più significativi quando sporadicamente fanno la loro comparsa) sono anche i paesaggi. Il primo è la Fenêtre de l’atelier, con una cascata di tetti e di camini che rappresenta un termine di passaggio tra le nature morte davanti a una finestra e il paesaggio vero e proprio. L’elemento più significativo di questo quadro è quella manopola di radiatore smisurata che rappresenta da sé sola un sogno di calore, l’attesa di tempi migliori in cui di nuovo non ci sarà che da girare la manopola per non avere più da soffrire il freddo (quando l’inverno verrà, beninteso, dato che il quadro è stato dipinto in piena estate).
L’estate del 1943 è illuminata dalla speranza. L’incubo regna ancora nel cuore della città, il passo dei soldati tedeschi risuona ancora sui selciati, il terrore s’aggrava, trovando sempre nuovi mezzi, ma i rovesci degli eserciti tedeschi in Russia preannunciano una svolta nella guerra. La vittoria sta cambiando campo. Picasso non aveva quasi mai passato l’estate a Parigi, ma dal suo rientro da Royan non viaggia più: gli spostamenti sono difficili per gli stranieri. Tuttavia uscendo di casa vede, proprio a due passi, come se lo vedesse per la prima volta, il giardinetto del Vert-Galant, ai piedi del Pont-Neuf, con i suoi alberi che sembrano parte integrante dell’architettura e, nel fondo, la statua equestre di Enrico IV. Il giardino è luogo d’appuntamento per gli innamorati e Picasso li dipinge in forma grottesca, con occhi tondi, baffi appoggiati contro la mezzaluna rovesciata di un viso di donna e il cerchio della bocca. Il Vert-Galant e la serie degli innamorati che si baciano mostrano che la tendenza a cambiare si va accentuando. Il moto pendolare del suo lavoro lo porta dalle forme lineari, dai piani di colore, chiusi da un segno scuro, a un rilievo sempre più marcato.
Dipinge in questo momento una delle sue sfingi più strane; egli la intitola ancora Femme assise, ma in realtà è solo un monumento della sua inquietudine, intagliato nel legno duro. Nella piramide tronca della massa dei capelli è inserito l’uovo appuntito di un viso dai tratti indicati sommariamente, che ondeggia piccolo, troppo piccolo, sopra le masse immense dei seni. La plasticità del quadro rivela il desiderio sempre maggiore di esprimersi in scultura.
Dal 1941 Picasso si era rimesso a scolpire: gatti di grande mole, uccelli, teste vagamente umane, oggetti senza una base precisa, da tenere nel cavo della mano. Da Boisgeloup fa venire dei gessi degli anni tra il 1931 e il 1933, dato che da una decina d’anni aveva quasi completamente abbandonato la scultura. Le difficoltà per farli fondere in bronzo sono molto grandi in questo momento in cui gli occupanti portano via le statue dalle piazze e dalle strade di Parigi per fame cannoni.
Forse in questo ritorno alla scultura c’è anche un gesto di sfida, che viene ad aggiungersi all’audacia del suo stile. Le opere di scultura di questi anni sono infatti senza legame alcuno con il lavoro fatto finora, senza alcuna continuità con il passato, né con la sua visione pittorica. Il suo spirito inventivo vi si scatena con allegra furia. Per le sue sculture egli si serve di tutto ciò che gli capita sotto mano, degli oggetti più umili, più negletti. Uno stampo da torte sembra aver servito per il suo Fauceur au grand chapeau. Un giorno scova da qualche parte un manichino da sarta di forma antiquata, col busto alto, e lo trasforma in donna «belle époque», con la sottana lunga e senza piedi, che bilancia una testa asimmetrica su un collo vezzoso. Al contrario la Femme a l’orange è costituita da un fusto stretto che si apre in rami che sono braccia, coronato da una placca quadrata che funge da testa: le scanalature del busto si devono al cartone ondulato che gli era stato messo intorno per la fusione. L’acutezza della sua visione si palesa nel modo straordinario con cui sa scoprire una parentela tra il fatto quotidiano, l’oggetto famigliare e l’insolito che vi si nasconde, invisibile per tutti tranne che per lui. Un giorno il suo sguardo (e si pensa a quale inventore avrebbe potuto essere) cade su una sella e un manubrio di bicicletta. Nella sella Picasso scopre un cranio di bue e il manubrio fornirà le corna. L’illusione è sorprendente. L’abilità della trasformazione, compiuta quasi in spregio alla «bella materia», ha assicurato a questa Tête de taureau una strepitosa celebrità. Quando fu esposta dopo la Liberazione Picasso la guardò con aria divertita.

Una metamorfosi c’è stata, - dichiara allora a Andre Warnod, - ma ora vorrei che ne avvenisse un’altra in direzione opposta. Mettete che la mia testa di toro sia gettata nei rifiuti e che un giorno arrivi uno e dica: «Ecco qualcosa che potrebbe servirmi come manubrio per la mia bicicletta». In questo modo la metamorfosi sarebbe stata doppia...

Picasso sembra particolarmente soddisfatto di aver potuto, grazie alla sua abilità manuale, dimostrare la fondamentale identità di tutte le cose. Cocteau l’ha chiamato un giorno: il re dei cenciaioli. In questo suo gusto per la roba vecchia c’è il rispetto per la cosa creata e nello stesso tempo un interesse appassionato per le possibilità di trasformazione che sono in essa, come se, scoprendole, partecipasse lui stesso al divenire e si facesse anello di una catena senza fine.
Fra le sculture eseguite in questi anni ritorna a più riprese un teschio, non però reso come un cranio scarnificato, ma come un blocco segnato da qualche piccola cavità. Queste teste di bronzo hanno piuttosto l’aria di pietre che abbiano rotolato per un tempo infinito, scavate e levigate dalle onde.
La guerra domina senza possibilità d’equivoco in questi teschi, dei quali il più intenso data del 1944, del momento in cui il conflitto si conclude nell’orrore. L’apertura tonda degli occhi dà sul vuoto, il naso pare roso dalla lebbra, la bocca assomiglia a una cicatrice mal chiusa. Questo teschio non ha nulla in comune con i crani che ripetono il terribile monito dal fondo degli ossari, come è lontano dagli scheletri ghignanti che lungo tutto il corso dell’arte spagnola ricordavano ai vivi la vanità delle cose: con i suoi occhi vuoti, la carne tagliuzzata della bocca, sembra l’immagine stessa del terrore, dedicata ai morti anonimi.
Tutto quello che Picasso crea negli ultimi anni della guerra esprime il suo rifiuto di capitolare, la sua volontà di resistere. Amici della Resistenza si incaricano di trasportare di notte i gessi verso le fonderie clandestine. È il tempo delle cose inconcepibili, quando si diffonde un manifestino qualunque a rischio della vita, senza stare troppo a chiedersi se l’effetto di questo foglio di carta valga una morte sotto la tortura. I gessi di Picasso, per fondere i quali si sottrae materiale bellico, sono avviati, coperti di rifiuti, in carrettini a mano sotto il naso delle pattuglie tedesche, e i bronzi vengono riportati nello stesso modo. Quel che importa è la sfida in sé, l’affermazione di vita contro la volontà di distruzione del nemico.
Picasso si mette a una grande opera di scultura. La prepara attraverso molti schizzi e disegni, che un critico americano fa ammontare a un centinaio. La preparazione è così approfondita, la concezione così completa, definita anche nei minimi particolari, che la statua, alta due metri, viene eseguita dall’artista in una sola giornata di lavoro, nel febbraio del 1943. L’opera appare senza alcun rapporto con il presente e senza radici nel passato di Picasso: un tema isolato nella sua opera. Soprattutto è di una estrema semplicità. «Nessuno è mai riuscito a superare la scultura primitiva», diceva Picasso a Sabartés nel corso di una delle loro conversazioni a Royan.
Picasso, il cerebrale, sembra aver ritrovato il segreto dell’istinto primitivo quando scolpisce l’Homme au mouton. Questa immagine, spoglia all’estremo, è apparsa, cosa curiosa, davanti agli occhi d’un uomo di città che fa una vita da assediato.
I precedenti artistici dell’Homme au mouton, se di precedenti si può parlare, potrebbero risalire al Buon Pastore dei primi tempi cristiani. Ma la presentazione della figura umana e il suo modo di tenere l’animale smentiscono ogni intenzione simbolistica. La figura è piantata sui suoi enormi piedi che escono appena dal suolo, il nudo corpo sale alto sopra le lunghe gambe. Non è un giovane nel pieno vigore delle forze, che confronta la bellezza del suo corpo con il vigore dell’animale, né uno di quei robusti apostoli che portavano allegramente sulle spalle un agnello. Picasso l’ha fatto con la barba tonda e la testa calva. Il suo corpo, che già invecchia, invecchia bene, è secco come un ceppo di vigna e dritto come un pioppo, la testa è gettata indietro come per schivare i colpi dell’animale. Le braccia sono abbastanza forti per poter chiudere la bestia nella loro stretta. La bestia è pesante; guardandola di lato si scopre tutta la sua greve massa dominata a fatica. La statua è modellata a colpi rapidi, differenziando il corpo liscio dell’uomo dalla superficie a bioccoli della pecora. All’uscire da questi anni di guerra l’opera si leva come l’incarnazione stessa della sopravvivenza: non un giovane David trionfante, ma un uomo calmo, dal corpo indurito e smagrito dalle privazioni. Stranamente solenne nel suo gesto semplice, esso si pone sulla stessa linea di tutti coloro che hanno dominato la vita, salvando la specie e la dignità dell’uomo.
Gli ultimi guizzi della guerra arrivano a fine. La liberazione è ormai vicina e proprio allora il terrore si fa più duro, l’odio si esaspera. Ogni giorno arriva la notizia della scomparsa di un amico, di un ebreo che fino allora era rimasto nascosto, di un militante della Resistenza. Max Jacob, sfollato a Saint-Benoît-sur-Loire non sfugge alla persecuzione razziale, alla discriminazione che equivale alla segregazione dei lebbrosi: «Felice tu, rospo! Tu non hai la stella gialla», scrive.
L’arresto della sorella lo colpisce dolorosamente, ma non fa nulla per sfuggire alla stessa sorte, non lascia nemmeno il villaggio dove è troppo conosciuto. Arrestato nel febbraio del 1944, morirà a Drancy. Quando riportarono la sua salma a Parigi per seppellirla nel cimitero di Ivry, Picasso fu tra i rari amici che osarono seguire il corteo funebre. C’è qualche cosa di ben spaventoso in questa serie di morti dell’ultima ora. La solitudine infittisce intorno a quelli che restano.
Le notti di Parigi sono sconvolte dai bombardamenti alleati, sempre più frequenti. Un giorno bombe lanciate da aerei inglesi provocano danni rilevanti nei paraggi della Gare du Nord: un quadro di Picasso, che si trovava allora presso lo stampatore Lacourrière, viene colpito da schegge di vetro. È la Nature morte à la lanterne chinoise, dipinta agli inizi dell’anno, col suo frammento di cielo stellato, il cielo pauroso dei bombardamenti. Picasso è particolarmente attratto da questa Parigi minacciata e la fissa in termini durevoli rappresentando il paesaggio che ha davanti agli occhi, cioè i lungosenna, come il Greco dipingeva Toledo, facendovi convergere motivi sparsi che gli sono cari. Pare vagheggi, secondo Sydney Janis, una grande opera, una versione della Grande Jatte nel gusto del nostro tempo. Al pari di tanti stranieri che hanno terribilmente sofferto della disfatta della Francia, si esalta dei fremiti d’eroismo che la scuotono, dei suoi eroi anonimi. Dipinge così, il 14 luglio, due quadri con la veduta di Notre-Dame. Il primo anno del suo soggiorno parigino aveva dipinto la festa popolare con l’allegria di quel fuoco d’artificio che era allora la sua tavolozza. Gli occupanti hanno proibito di celebrare le feste nazionali, ma la Francia ha dato prova di saper ancora prendere delle Bastiglie. Forse Picasso non si è mai sentito tanto francese come questo 14 luglio, quando dipinge la Parigi eterna.
Ai primi d’agosto gli eserciti alleati avanzano. Picasso indugia alla finestra dello studio. In un vaso cresce una pianta di pomodoro. La pianta vigorosa solleva l’arabesco dei suoi rametti contro un fondo di muri grigi verso il cielo sereno. I frutti sono per lo più ancora verdi. Picasso sembra meravigliato della tenacia di questa pianta prigioniera. Ogni giorno ne esamina i frutti, li vede colorirsi di un rosso scarlatto e, tra il 3 e il 10 agosto, dipinge quattro quadri sullo stesso soggetto: Tomates.
La guerra s’avvicina. La fucileria scoppia per le strade. Si diffonde la voce che i tedeschi, prima di abbandonare Parigi, la faranno saltare. Nessuno più è sicuro di sopravvivere alla grande distruzione. Il 21 e il 22 agosto Picasso dipinge due ritratti della figlia Maia: sono due ritratti realistici, condotti all’acquarello, di quelli che si fanno con particolare cura per lasciarli ai posteri.
Il 24 agosto la battaglia infuria per le strade. Tedeschi e miliziani si sono asserragliati al Luxembourg. La prefettura, vicina com’è alla Senna, è diventata il quartier generale della Resistenza. Giovanotti, per lo più ancora ragazzi, muniti di fucile e di bracciale, montano la guardia agli incroci. Domani Parigi sarà punteggiata di steli commoventi applicate ai muri delle case con la scritta laconica: «Qui è morto per la Francia...» I giovani che muoiono in queste ore estreme non avevano ancora raggiunto, per lo più, l’età adulta.
I carri armati passano su e giù. La fucileria crepita fitta sul Boulevard Saint-Michel. Nello studio di Picasso i vetri tremano. Egli deve spezzare questa tensione troppo forte, riempire questa attesa, fare qualche cosa d’altro, qualcosa di così diverso che non possa in nessun modo riportarsi all’angoscia dell’ora.
Tra il 24 e il 29 agosto rifà, secondo i principi della sua visione, il Baccanale di Poussin. Un giorno dice a Kahnweiler: «Prenda Poussin, quando dipinge l’Orfeo, ecco, è raccontato. Tutto, anche la più piccola foglia, racconta il mito». Sono affinità segrete quelle che spingono Picasso a curvarsi su un’opera d’arte, come per carpirne il segreto. «I capolavori, sono quelli degli altri», ha detto una volta a Malraux. Nel gran quadro di Poussin è la frenesia del movimento che sembra averlo sedotto, e quell’ossessione della voluttà che è tipica di chi sfiora la morte da vicino. «Non omettendo quasi nulla dell’opera di Poussin, cambia quasi tutto», scrive John Lucas. Il Baccanale, ridotto a un quarto del suo formato, eseguito ad acquarello e non a olio, è diventato una pagina tipica dell’erotismo di Picasso, dei suoi sogni e dei suoi incubi. La coppia centrale è rappresentata qui da una di quelle coppie che sono consuete a Picasso: il fauno barbuto e una ninfa più vicina a Goya che all’Antico, col suo profilo aguzzo e il collo segnato da rughe, con le anche immense e i suoi seni serrati. Il capro al suo fianco ha due occhi segnati da una profonda tristezza umana. Il quadro presenta esempi di quasi tutti gli stili di Picasso. La donna col canestro di frutta dal profilo classico, le baccanti con la testa a forma di minuscola sfera, un nudo a sfaccettature cubiste, giù giù fino ai mostri con la testa di Giano. Dai grovigli dei corpi escono piedi smisurati, enormi seni gonfi, mani a paletta. Uno strano turbine antropomorfo percorre il quadro, nel quale gli alberi si torcono come corpi inarcati dal desiderio e le membra umane si trasformano in alberi e foglie.
Picasso dipinge febbrilmente durante la battaglia di Parigi: dipinge in un frastuono di finestre sbattute, di carri armati che passano con rombo di tuono, tra il fragore del cannone e della fucileria vicinissima, delle pallottole che rimbalzano da una casa vicina. A chi più tardi si meraviglierà che abbia potuto essere così presente al suo lavoro, così assorbito in esso, risponderà: «Era un esercizio di disciplina».

Le truppe alleate entrano in Parigi liberata. Si era sparsa la voce che Picasso era stato arrestato, che era morto in prigione o in un campo di concentramento. I corrispondenti dei giornali americani che fanno il bilancio delle rovine della Francia vogliono controllare la notizia; i giornali sono immediatamente informati: «Picasso è sano e salvo!» E la notizia di colpo appare molto importante anche a coloro che hanno solo un’idea molto vaga della sua opera.

© per le foto di Giancarlo Mauri










POTREBBE INTERESSARTI ANCHE

Picasso visto da Man Ray

Testa di toro, 1942

Man Ray [Emmanuel Radnitzsky]
Autoritratto
1963 Man Ray
1975 Gabriele Mazzotta editore
Traduzione dall’inglese di Maura Pizzorno
pp. 182-189

Picasso mi dava l’impressione di un uomo consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui e nel mondo in generale, un uomo che reagiva violentemente a tutte le avversità, ma aveva un solo strumento per esprimere i suoi sentimenti: la pittura. Le brevi frasi epigrammatiche o enigmatiche che di tanto in tanto pronunciava evidenziavano solo la sua impazienza di fronte agli altri mezzi espressivi. E queste poche parole, quasi esclusivamente relative alla pittura, esprimevano chiaramente, a rifletterci un poco, la sua filosofia e il suo atteggiamento verso la vita.
La prima volta che m’incontrai con lui fu per fotografare le sue ultime opere, agli inizi degli anni Venti. Come sempre quando avevo una lastra in più, la utilizzai per il ritratto dell’artista. La fotografia in sé non era niente di speciale, ma colpiva per lo sguardo intenso e intransigente di quell’uomo, per quegli occhi neri che ti soppesavano. Era basso di statura e piuttosto tarchiato, non praticava in genere esercizi fisici, ma amava nuotare e passeggiare con il cane. In città lo si incontrava soltanto subito dopo pranzo, quando usciva per la sua passeggiata. Evitava con la massima cura gli appuntamenti precisi, fissati per un’ora stabilita.
Venni invitato a colazione, e portai la macchina per fotografare la moglie Olga, un’ex ballerina russa, e il figlioletto Paul. Quando il loro matrimonio fallì, smise di lavorare in quella casa, che rimase chiusa, coi sigilli alle porte, per tutta la durata della causa di divorzio. I suoi avvocati erano disperati perché non tentava neanche di aiutarli a ottenere la separazione legale. Per un paio d’anni dovette rinunciare a dipingere giacché, fino a quando il procedimento legale era in corso e non si raggiungeva un accordo, era previsto il sequestro di ogni suo nuovo quadro. Per lui fu una privazione tremenda. Si mise a scrivere, riempiendo pagine e pagine d’incoerenti frasi in spagnolo, con una scrittura che sembrava aggredire la carta e somigliava al suo modo di disegnare. Anche lo scritto, come qualsiasi sua produzione, apparve immediatamente su una rivista d’arte, insieme a uno degli ultimi ritratti eseguiti da me. Quando il direttore di una grande rivista americana chiese l’autorizzazione a pubblicare parte del manoscritto, a qualsiasi prezzo, rifiutò. Mi pregarono di intercedere presso di lui, e alla fine acconsentì, ma solo a condizione che venisse pubblicato anche il ritratto che gli avevo fatto, e per il quale dovevo poi ricevere un lauto compenso; lui soldi non ne voleva. Dopo qualche tempo apparve la mia foto, ma non il manoscritto. Mi dissero poi che l’avevano fatto tradurre in inglese, ma era così pieno di oscenità che era impossibile pubblicarlo.
Picasso promise di farmi un ritratto a penna per il mio album di ritratti, ormai in via di pubblicazione. Andai a posare da lui in una stanza priva di riscaldamento - era gennaio - e mi tenni il cappotto.
Lui stava accovacciato su uno sgabellino, con una bottiglia d’inchiostro sul pavimento e un album sulle ginocchia. Immergeva la penna nell’inchiostro, incurante delle macchie sulle dita, e il pennino strideva sulla carta. Lavorò per circa un’ora con fare maldestro, come uno studente per la prima volta alle prese con un disegno. Conoscendo la sicurezza e la rapidità con cui sapeva lavorare, ero veramente stupito. A un certo punto mise album e penna da parte, si alzò e cominciò a prepararsi una sigaretta; mi disse intanto di riposarmi. Si rimise al lavoro con la stessa aria incerta, borbottando ogni tanto tra sé. Si inumidì il dito con la lingua e lo strofinò sul disegno, ripetendo più volte l’operazione: alla fine lingua, labbra e dita erano tutte macchiate d’inchiostro. Dopo un ultimo tocco borbottò che non sapeva se avrei potuto servirmi di quel disegno; per lui, potevo anche buttarlo via. Protestai: l’avrei dato al tipografo senza neanche guardarlo; la sua firma mi bastava; se non aveva obiezioni alla pubblicazione, non ne avevo nemmeno io. A volerlo giudicare in base a criteri accademici, quel disegno era un vero pasticcio. E dire che sapeva disegnare meravigliosamente con un solo tratto di penna. Ma quel disegno lo aveva fatto faticare, e l’idea mi piaceva molto. Inoltre dentro c’era molto, moltissimo di me, colto lì in piedi col mio cappotto addosso, e qualsiasi occhio inesperto se ne sarebbe accorto, soprattutto un occhio inesperto. Presi dunque il disegno, che apparve sul frontespizio del mio album, con la stessa accettazione acritica con cui Picasso accettava la mia persona e il mio lavoro. Non si discute la firma su un assegno se il firmatario ha un solido conto in banca, pensavo, e così non si discute la reputazione di Picasso. Alcuni anni dopo, avendo bisogno di denaro, vendetti quel disegno a un collezionista. Sono convinto che lo comprò per la firma; e forse anche, oso sperare, perché era il mio ritratto.
Durante gli anni Trenta conobbi la bellissima Dora Maar, un’abilissima fotografa che in certi lavori dava prova di molta originalità e di un approccio un po’ surrealista. Picasso se ne era innamorato. Un giorno vide nel mio studio un suo ritratto e mi supplicò di darglielo, promettendomi qualcosa in cambio. Lusingato dall’interesse che manifestava per quella foto, gliela regalai e dimenticai l’episodio. Un mese dopo arrivò con un rotolo sotto il braccio: era una delle prime copie numerate della sua acquaforte, Tauromachia, con dedica autografa. Picasso non dimenticava mai nulla.
A quel tempo lavorava nel solaio di un vecchio convento sulle rive della Senna. In Spagna infuriava la guerra civile. Quando ci giunse la notizia del bombardamento di Guernica, Picasso ne fu sconvolto. Dai tempi della prima guerra mondiale, mai fino a quel momento aveva reagito con tanta violenza agli avvenimenti del mondo esterno. Ordinò una grande tela e cominciò a dipingere la sua versione della strage di Guernica. Lavorava febbrilmente tutti i giorni, usando solo il nero, il grigio e il bianco: troppo grande era la sua collera per curarsi di finezze cromatiche o di problemi di armonia e di composizione. Ogni giorno ritornava sulle zone già dipinte non per migliorarle, ma per esprimere una nuova idea su quell’unica tela. Quando ebbe sfogato in parte la sua rabbia e considerò terminato il dipinto, continuò a fare disegni brutali: volti di donne in lacrime, teste di animali agonizzanti. Alcuni anni dopo, quando Guernica fu esposta in un museo, provai una sofferenza quasi fisica a sentire un professore di storia dell’arte che con tutta calma spiegava agli alunni come una certa verticale fosse compensata da una certa orizzontale. E i disegni furono esposti come studi per la tela, mentre in realtà il rapporto era stato capovolto. Picasso non accettava nessuna regola fissa.

Nei tre anni che precedettero l’ultima guerra, d’estate ci riunivamo sempre sulle spiaggie del sud della Francia, come una famiglia felice: io e la mia amica Adrienne, il poeta Paul Eluard e la moglie Nusch, Roland Penrose e la futura moglie Lee Miller, Picasso con Dora Maar e il suo afgano Kasbech. Alloggiavamo tutti alla pensione Vastes Horizons, nella campagna del Mougins sopra Antibes. Dopo la mattinata al mare e la lenta piacevole colazione consumata all’ombra di un pergolato d’uva, ci ritiravamo nelle nostre stanze per riposare o magari fare all’amore. Ma non trascuravamo il lavoro. Alla sera Eluard ci leggeva la sua ultima composizione, Picasso ci mostrava un ritratto di Dora con gli occhi stellati, io ero impegnato in una serie di disegni stravaganti ma realisti, raccolti poi, con le poesie di Paul Eluard, in un volume intitolato Les Mains Libres. Dora, che a Parigi aveva fotografato Picasso mentre dipingeva Guernica, aveva abbandonato la fotografia per la pittura, facendo cioè esattamente il contrario di quanto raccontò poi un biografo di Picasso, secondo il quale un pittore, dopo aver visto l’opera di Picasso, aveva abbandonato i pennelli e si era dato alla fotografia.
Il disegno e la pittura erano una sorta di pausa rispetto alla fotografia, a cui non avevo tuttavia intenzione di sostituirli. È stato sempre irritante per me sentirmi chiedere, secondo l’attività del momento, se avevo deciso di abbandonare l’una per dedicarmi all’altra. Non esisteva nessun conflitto tra le due attività: perché la gente non riesce a capire che una persona può impegnarsi in due attività nel corso della sua esistenza, alternativamente o simultaneamente? Ciò che c’è sotto è indubbiamente il giudizio che la fotografia non è allo stesso livello della pittura, non è un’arte. È un argomento controverso dai tempi dell’invenzione della fotografia, e la questione mi lasciava del tutto indifferente. Per evitare discussioni, avevo apertamente dichiarato che la fotografia non è arte, e avevo pubblicato un opuscolo con questa dichiarazione per titolo, tra la costernazione e la riprovazione dei fotografi. Quando più di recente mi hanno chiesto se ero ancora dello stesso parere, ho dichiarato che avevo leggermente modificato la mia posizione: secondo me, l’arte non è fotografia.
Non mi piaceva dipingere in un luogo estraneo, e per questo presi ad Antibes un appartamentino con una bella terrazza, ove potevo rifugiarmi a dipingere quando il mio lavoro di fotografo a Parigi mi lasciava un po’ di respiro. Le nostre estati idilliche non durarono a lungo. Si andavano addensando le nuvole della guerra. Con toni sempre più arroganti Mussolini minacciava d’invadere il sud della Francia e di riprendersi un territorio che secondo lui spettava di diritto all’Italia. Poi gli accordi di Monaco rimandarono di un anno lo scoppio della guerra. Intanto mi ero comprato una casetta in campagna, nei pressi di Parigi, per evitare di trascurare il lavoro con assenze troppo prolungate dallo studio. Poiché l’avvenire era così incerto, rinunciai al progetto di passare gran parte del mio tempo nel sud, e Picasso, quando glielo dissi, si offerse di subentrare nel mio appartamento di Antibes. Gli girai il mio contratto e imballai le mie cose, compresi tele e colori. Stavo per staccare dal muro una composizione di carta gualcita e ripiegata, sugheri e pezzi di spago, quando Picasso mi chiese di lasciargliela, se potevo, perché gli piaceva molto. Proprio nulla di quel che faccio va perduto, pensai, c’è sempre almeno una persona al mondo cui interessa. Per conservare una testimonianza di quella composizione, prima di partire ne feci una copia esatta, a olio, che intitolai Trompe-l’oeil.
Pochi giorni dopo andai a salutare Picasso, che si era sistemato nell’appartamento mentre io mi ero trasferito in una camera d’albergo. Si era già messo al lavoro. Tutti i mobili della stanza più spaziosa erano scomparsi, e una grande tela era fissata alla parete. L’aveva divisa in una ventina di quadrati, come una scacchiera, e in ognuno di essi dipingeva una natura morta, variazioni d’uno stesso tema. Arrivò intanto anche il gallerista di Parigi, per gli ultimi accordi sulla prossima mostra. Guardò le nature morte, osservò i vasetti di colore, ciascuno con un pennello dentro, e alla fine domandò se erano resistenti - chiaramente non erano colori di marca, li aveva acquistati nel negozietto più vicino. Picasso si strinse nelle spalle e disse che non era affar suo; riguardava semmai i collezionisti e quelli che investivano denaro in opere d’arte. Non era una posa. Una volta gli vidi comprare in un negozio l’intera gamma dei colori migliori e più costosi. Per lui era soltanto una questione di disponibilità, di non perdere tempo quando era posseduto dal desiderio di dipingere.

[...]

Non rividi Picasso che dopo il mio ritorno in Francia, negli anni Cinquanta. Era rimasto nel sud mentre io ero a Parigi, occupato dal mio lavoro, finché, quando la Francia fu invasa, me ne tornai negli Stati Uniti. Quindici anni dopo andai a trovarlo nella nuova villa nei dintorni di Cannes. Gli telefonai il mattino stesso del mio arrivo, e mi chiese di raggiungerlo senza perdere un minuto, perché doveva recarsi subito a Nizza, dove giravano un film su di lui. Risalii la collina e suonai al cancello della villa. Mi abbracciò affettuosamente, come se non fossero passati tutti quegli anni: nulla era cambiato. La casa era immensa, costruita da un pretenzioso commerciante di vini, che aveva fatto fortuna. Il giardino, tenuto con molta cura, era costellato dei bronzi più provocatori di Picasso, che sembravano schernire il gusto barocco del vecchio proprietario. L’interno era tutto dipinto di bianco, così da nascondere i pesanti elementi decorativi. Dappertutto casse ancora chiuse, tele voltate contro la parete, alla quale era appeso un unico dipinto senza cornice: un ritratto di Jacqueline, la nuova moglie di Picasso. Vicino alla porta che dava sul giardino c’era un vecchio divano e, al centro della stanza, una poltrona a dondolo di legno, gli unici sedili disponibili. Una collezione di sculture africane era ammassata alla rinfusa sopra un grande tavolo. In quel museo d’arte primitiva Picasso riuscì a scovare un piccolo pastello, un nudo disteso, racchiuso in una cornice dorata, e mi chiese se me ne ricordavo. Gli dissi di no, e lui mi spiegò che l’avevo lasciato nella casa di Antibes prima della guerra. Quel pastello l’avevo fatto in un momento di ozio, senza attribuirgli alcuna importanza. Decisamente Picasso non dimenticava mai nulla. (A questo punto credo che sarebbe conforme alle buone maniere scusarmi della mia apparente immodestia. Devo tuttavia ricordare che sto facendo un autoritratto, e gli autoritratti, ad esclusione di rari esemplari impressionisti, sono sempre lusinghieri.)
Durante il breve soggiorno a Cannes Picasso mi invitò a pranzo insieme a mia moglie Juliet. Alla fine del pasto, semplice e casalingo, tirò fuori una bottiglia di vodka e qualcuna di champagne. Non beveva mai, ma prese una coppa di champagne per brindare all’avvenimento, mentre Juliet dava fondo alla vodka. Maya, una bionda adolescente, figlia di Picasso e di una sua antica amante, mise un disco di musica da ballo, e Juliet prese a danzare da sola, miniando e mettendo in caricatura le movenze di una ballerina classica. Picasso, sprofondato nella sua poltrona in muta contemplazione, mi rammentava una delle sue prime acquaforti, con il re Erode che ammira la danza di Salomé. Passammo con Picasso un altro pomeriggio, in giardino, insieme a Maya e a un vecchio amico, un torero a riposo. Scattai delle foto di gruppo, poi tornammo a Parigi

Ormai Picasso non viene più a Parigi. L’ho rivisto durante uno dei miei recenti viaggi nel sud, in occasione di una corrida in suo onore, a Vallauris. Ci siamo stretti la mano. Era attorniato da personalità e da fotografi, ma il suo sguardo penetrante sembrava dire: arrivederci al nostro prossimo incontro, in un momento più tranquillo. Sembra non invecchiare mai; il tempo può ancora aspettare finché non avremo occasione d’incontrarci di nuovo. Contrariamente a molti altri che l’hanno avvicinato, e lui si è sempre mostrato generoso, io non gli ho mai chiesto un piacere, né lui l’ha mai chiesto a me; se tra noi c’era anche solo il sospetto di un favore ricevuto, si cercava subito di ricambiare. Io, forse, mi sdebitavo per orgoglio, Picasso per la sua grande umiltà.

Ballo da Etienne de Beaumont
Picasso e Olga Khokhlova, 1924 ca
Picasso, by Man Ray (1932)
Picasso e Kazbek, 1935
Ady Fidelin, Myriam e Paul Cuttoli, Picasso e Dora Maar
davanti: Man Ray - Antibes, 1937

foto di Man Ray

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE