lunedì 12 gennaio 2015

Il Buco della sabbia


Ogni volta che salgo a San Pietro al monte non riesco a fare a meno di entrare nel cosiddetto Buco della sabbia, una fenditura della roccia che degli esseri umani vissuti oltre 4500 anni fa avevano scelto per seppellire i loro morti. Un luogo sacro, dall’apertura che ricorda il sesso femminile, una similitudine essenziale per mettere in atto quello che gli antropologi definiscono il regresso in utero, pratica tuttora in uso tra le popolazioni tribali (e non solo): il morto appartiene alla Madre Terra, colei che l’ha nutrito in vita, e nel grembo della Madre Terra deve tornare.
Intesa come forma primordiale di un’idea di rinnovamento della vita, di ri-nascita - sotto forma di cibo, se non come corpo - questa antica pratica non è sfuggita ai professionisti del sacro che subito l’hanno fatta loro.
Raccontare del rito utile a nutrire le divinità richiede tempo e spazio, e così condenso: grazie alla intermediazione del clero officiante, i canti, i salmi e il cibo offerto durante i riti salendo al cielo nutrono gli dei. Privati di questi riti nessuna divinità potrebbe sopravvivere, finendo per morire di inedia. (Qui si nota come luomo abbia creato gli dei a sua immagine e somiglianza, facendoli abitare in ricchi palazzi e regalando loro ogni sua abitudine: lira, linvidia, la sessualità libertina; sarà il monoteismo a girare le carte in tavola, incaricando il Dio proprio delle tribù ebree di creare luomo a sua immagine e somiglianza ...con identici risultati). Questo pericolo - se gli dei muoiono il mondo finisce con loro - obbliga le popolazioni a riccamente sostenere il clero affinché possa imbandire laltare (la tavola da pranzo degli dei) con i migliori prodotti graditi ai divini, utili a mantenerli vivi, floridi e generosi. Per approfondimenti rinvio ai cataloghi di Adelphi e della risorta Luni, che in materia hanno non pochi titoli importanti.
Mi limiterò quindi al più semplice rituale del regresso in utero, che vede l’accolito entrare carponi in uno stretto e umido passaggio, simbologia del suo ritorno nel ventre materno (ri-generazione). È un rito di fertilità tuttora molto diffuso nella società contadina: anni fa l’ho visto praticare in Francia …ma anche a Bethlehem.
In India, terra che si è spiritualmente nutrita dei miti provenienti dall’area iraniana, questa doppia nascita (dvija) accomunava gli uomini e gli uccelli - questi nascono dapprima come uovo e poi una seconda volta uscendo dal guscio - e tale somiglianza veniva menzionata sia quando si trattava di spiegare il motivo per cui l’Altare del Fuoco doveva avere la forma di un uccello dalle ali spiegate, sia quando si doveva far comprendere alle masse il concetto del ritorno “al cielo” dei Padri: il corpo (l’uovo) resta a terra, lo spirito (l’uccello) vola.
Nell’area dravidica - il profondo Sud dell’India - il rituale del regresso in utero, che prevede l’unione intima della maschile pietra e della femminile acqua (il duro e l’umido), è stato sostituito dal soffio d’aria calda generato dall’elefante del tempio. Sebbene sia un rito destinato alle donne, io l’ho sperimentato più volte (è troppo bello per rinunciarvi), suscitando l’ilarità del pubblico femminile e il benevolo assenso dei maschi. Dunque: ci si pone davanti al sacro elephax - non troppo vicino e non troppo lontano - e si allunga la mano con la monetina; l’elefante, ben addestrato, gira l’offerta al suo conducente, rizza la proboscide per poi calarla fino a toccare la parte superiore della fronte dell’accolito, che l'appendice tattile stringe leggermente prima di lanciare un soffio d’aria calda. Fatto questo, la proboscide torna penzoloni e la donna può andare, pronta a (ri)generare (grazie al meno sacrale contributo di un uomo, ovviamente).



Vorrei ricordare che da noi lo stesso rituale è visibile, sebbene camuffato dai simboli imposti dalle teologie occidentali, nell’immersione in una marmorea fonte battesimale: vi si entra morti e si riemerge vivi grazie al potere rigenerativo della pietra e dell’acqua. E a ricordarci tutto questo provvede la simbolica forma ottagonale imposta a tutti i battisteri: otto, numero sacro d’origine mesopotamica, significa la ri-nascita, la resurrezione - e per ri-nascere si deve prima essere morti. Del resto, anche le strutture mortuarie hanno una forma ottagonale: lì giace il corpo, l’involucro, mentre il suo spirito si è librato in cielo, risorto (e qui il pensiero torna alla dualità uomo-uccello di cui sopra).
A ben guardare, sebbene rivestito da vesti nuove cucite addosso su misura, il rituale messo in pratica dai nostri preistorici antenati non è poi così tanto diverso dall’attuale: riporre il corpo del defunto in una grotta affinché la Madre Terra lo reintroduca (a suo modo) nel ciclo vitale è un concetto così tanto diverso da un corpo deposto in una grotta in attesa della sua resurrezione? - ma anche, più umanamente, polvere torni polvere finché uno squillo di tromba darà il via ad una resurrezione finale?

Torno coi piedi per terra (o meglio: sottoterra). A non molta distanza dal Buco della sabbia un ormai sbiadito cartello riassume in brevi note le fasi della sua scoperta e dei lavori di scavo. Io non amo far mia la farina altrui, quindi propongo la sua trascrizione integrale. Eccola:

Buco della sabbia

La scoperta. Nel 1956 alcuni speleologi di Valmadrera scoprirono questa piccola cavità carsica, a quota m 445 sopra la fascia rocciosa, oggi nota agli arrampicatori come “Falesia di Civate”. Negli anni 1961-1964 venne condotta una campagna di scavi a cura del Museo Civico di Storia Naturale di Milano, e furono scoperti molti reperti archeologici.
La struttura. La grotta, lunga in tutto solo 15 metri, ha una struttura irregolare: è costituita da tre camere successive intervallate da diaframmi di roccia. Le due camere interne, dapprima quasi completamente riempite da terra e sedimenti, furono liberate con gli scavi e rese accessibili. L’ultimo vano (dimensioni m 2,2 x 2,5, ma molto alto) è quello che conteneva la maggior concentrazione di reperti. Non è raro imbattersi in qualche pipistrello, aggrappato a testa in giù sulla roccia, che ha scelto la grotta come riparo. Questi simpatici mammiferi volanti sono molto sensibili: non disturbiamoli!
L’ultima camera è completamente buia: per la visita è necessario quindi munirsi di una lampada.
I reperti archeologici. Inglobati all’interno dei sedimenti furono rinvenuti diversi reperti: buona parte di essi è ora esposta al Museo Archeologico di Palazzo Belgiojoso, a Lecco.
In superficie si trovavano i resti più recenti: frantumi di urne in ceramica nera, che dovevano contenere le ceneri dei defunti, probabilmente di età romana; frammenti di vasi giallo-bruni e una moneta dell’imperatore Gallieno (III sec. ca.); circa 40 cm sotto la superficie vennero ritrovati resti ossei umani di almeno cinque individui di diverso sesso ed età. La grotta doveva essere quindi una vera e propria necropoli a inumazione. I corpi, accompagnati anche da corredi funerari, venivano solo appoggiati sul terreno, e non ricoperti di terra; queste modalità di sepoltura sono tipiche del periodo Eneolitico, cioè dell’età del rame (2600-2500 a.C.).
Lungo le pareti delle due camere interne sono state rinvenute incisioni rupestri filiformi (molto deteriorate), assolutamente uniche in tutto il territorio padano.
Corredi funebri. Per accompagnare il morto nella sua “nuova vita”, venivano posti accanto al corpo alcuni oggetti di uso quotidiano e ornamenti: strumenti in pietra (lamelle, raschiatoi, punte di freccia, un ago in osso) e ornamenti: una perlina e un anello in rame, e diversi canini ed incisivi di tasso, cane, volpe, maiale, forati alla base per poterli infilare in collane, orecchini etc.
Resti faunistici. Le numerosa ossa di animali ritrovate nella grotta hanno consentito di ricostruire, oltre al tipo di alimentazione di quelle popolazioni, anche l’ambiente naturale di quel periodo. Sono state ritrovate ossa sia di animali domestici che selvatici.
Animali domestici: prevalgono nettamente la capra, poi le pecore, mentre meno presenti sono i maiali e ancor meno i bovini; è ben rappresentato anche il cane.
Fauna selvatica: oltre a ossa di mammiferi (cervo, capriolo, gatto selvatico, lepre) interessanti sono i resti di uccelli. Sono state ritrovate sia ossa di uccelli acquatici, cosa che indica la presenza del vicino lago di Annone, sia di Gallo Cedrone, che invece vive in boschi di conifere d’alta quota. Evidentemente il clima d’allora era più freddo dell’attuale.
La Cultura di Civate. I resti ritrovati suggeriscono che le popolazioni si dedicavano alla pastorizia (pecore, cani) e alla caccia; l’epoca in cui questa grotta fu utilizzata come necropoli risale a circa 2600-2500 a.C. I caratteri di quella popolazione sono abbastanza originali, tanto da meritarsi un nome proprio, quello di “Cultura di Civate”. Ritrovamenti simili sono stati effettuati nel vicino Buco del Piombo, sopra Erba. In generale si possono avvicinare a quelli di popolazioni provenienti dall’Italia centro-meridionale che nel corso di diversi secoli hanno colonizzato la Pianura Padana.

Notizie storiche tratte da: Ottavio Cornaggia Castiglioni, La cultura di Civate: una nuova facies arcaica della civiltà eneolitica della Lombardia. Annali Soc. Ital. Sc. Nat. Milano, 15/3/1971.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI








 






















Nessun commento:

Posta un commento