Intesa come forma primordiale di un’idea di rinnovamento
della vita, di ri-nascita - sotto forma di cibo, se non come corpo - questa antica
pratica non è sfuggita ai professionisti del sacro che subito l’hanno fatta loro.
Raccontare del rito utile a nutrire le divinità richiede tempo e spazio, e così condenso: grazie alla intermediazione del clero officiante, i canti, i salmi e il cibo offerto durante i riti salendo al cielo nutrono gli dei. Privati di questi riti nessuna divinità potrebbe sopravvivere, finendo per morire di inedia. (Qui si nota come l’uomo abbia creato gli dei a sua immagine e somiglianza, facendoli abitare in ricchi palazzi e regalando loro ogni sua abitudine: l’ira, l’invidia, la sessualità libertina; sarà il monoteismo a girare le carte in tavola, incaricando il Dio proprio delle tribù ebree di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza ...con identici risultati). Questo pericolo - se gli dei muoiono il mondo finisce con loro - obbliga le popolazioni a riccamente sostenere il clero affinché possa imbandire l’altare (la tavola da pranzo degli dei) con i migliori prodotti graditi ai divini, utili a mantenerli vivi, floridi e generosi. Per approfondimenti rinvio ai cataloghi di Adelphi e della risorta Luni, che in materia hanno non pochi titoli importanti.
Mi limiterò quindi al più semplice rituale del regresso in utero, che vede l’accolito entrare carponi in uno stretto e umido passaggio, simbologia del suo ritorno nel ventre materno (ri-generazione). È un rito di fertilità tuttora molto diffuso nella società contadina: anni fa l’ho visto praticare in Francia …ma anche a Bethlehem.
Raccontare del rito utile a nutrire le divinità richiede tempo e spazio, e così condenso: grazie alla intermediazione del clero officiante, i canti, i salmi e il cibo offerto durante i riti salendo al cielo nutrono gli dei. Privati di questi riti nessuna divinità potrebbe sopravvivere, finendo per morire di inedia. (Qui si nota come l’uomo abbia creato gli dei a sua immagine e somiglianza, facendoli abitare in ricchi palazzi e regalando loro ogni sua abitudine: l’ira, l’invidia, la sessualità libertina; sarà il monoteismo a girare le carte in tavola, incaricando il Dio proprio delle tribù ebree di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza ...con identici risultati). Questo pericolo - se gli dei muoiono il mondo finisce con loro - obbliga le popolazioni a riccamente sostenere il clero affinché possa imbandire l’altare (la tavola da pranzo degli dei) con i migliori prodotti graditi ai divini, utili a mantenerli vivi, floridi e generosi. Per approfondimenti rinvio ai cataloghi di Adelphi e della risorta Luni, che in materia hanno non pochi titoli importanti.
Mi limiterò quindi al più semplice rituale del regresso in utero, che vede l’accolito entrare carponi in uno stretto e umido passaggio, simbologia del suo ritorno nel ventre materno (ri-generazione). È un rito di fertilità tuttora molto diffuso nella società contadina: anni fa l’ho visto praticare in Francia …ma anche a Bethlehem.
In India, terra che si è spiritualmente nutrita dei miti provenienti
dall’area iraniana, questa doppia nascita
(dvija) accomunava gli uomini e gli uccelli - questi nascono dapprima come uovo e poi una
seconda volta uscendo dal guscio - e tale somiglianza veniva menzionata sia quando
si trattava di spiegare il motivo per cui l’Altare del Fuoco doveva avere la
forma di un uccello dalle ali spiegate, sia quando si doveva far comprendere
alle masse il concetto del ritorno “al cielo” dei Padri: il corpo (l’uovo)
resta a terra, lo spirito (l’uccello) vola.
Nell’area dravidica - il profondo Sud dell’India - il rituale del
regresso in utero, che prevede l’unione intima della maschile
pietra e della femminile acqua (il duro e l’umido), è stato sostituito dal soffio
d’aria calda generato dall’elefante del tempio. Sebbene sia un rito destinato
alle donne, io l’ho sperimentato più volte (è troppo bello per rinunciarvi), suscitando
l’ilarità del pubblico femminile e il benevolo assenso dei maschi. Dunque: ci
si pone davanti al sacro elephax - non troppo vicino e non
troppo lontano - e si allunga la mano con la monetina; l’elefante, ben addestrato, gira
l’offerta al suo conducente, rizza la proboscide per poi calarla
fino a toccare la parte superiore della fronte dell’accolito, che l'appendice tattile stringe
leggermente prima di lanciare un soffio d’aria calda. Fatto questo, la
proboscide torna penzoloni e la donna può andare, pronta a (ri)generare (grazie
al meno sacrale contributo di un uomo, ovviamente).
Vorrei ricordare che da noi lo stesso rituale è visibile,
sebbene camuffato dai simboli imposti dalle teologie occidentali, nell’immersione in una marmorea fonte battesimale: vi si
entra morti e si riemerge vivi grazie al potere rigenerativo della pietra e dell’acqua. E a ricordarci tutto questo provvede la simbolica forma ottagonale imposta a tutti i battisteri: otto, numero sacro d’origine
mesopotamica, significa la ri-nascita, la resurrezione - e per ri-nascere si
deve prima essere morti. Del resto, anche le strutture mortuarie hanno una forma
ottagonale: lì giace il corpo, l’involucro, mentre il suo spirito si è librato
in cielo, risorto (e qui il pensiero torna alla dualità uomo-uccello di cui sopra).
A ben guardare, sebbene rivestito da vesti nuove cucite
addosso su misura, il rituale messo in pratica dai nostri preistorici antenati non è poi così tanto diverso dall’attuale: riporre
il corpo del defunto in una grotta affinché la Madre Terra lo reintroduca (a
suo modo) nel ciclo vitale è un concetto così tanto diverso da un corpo deposto in
una grotta in attesa della sua resurrezione? - ma anche, più umanamente, polvere torni polvere finché uno squillo di tromba darà il via ad una resurrezione finale?
Torno coi piedi per terra (o meglio: sottoterra). A non
molta distanza dal Buco della sabbia
un ormai sbiadito cartello riassume in brevi note le fasi della sua scoperta e dei
lavori di scavo. Io non amo far mia la farina altrui, quindi propongo la sua
trascrizione integrale. Eccola:
Buco
della sabbia
La scoperta. Nel 1956
alcuni speleologi di Valmadrera scoprirono questa piccola cavità carsica, a
quota m 445 sopra la fascia rocciosa, oggi nota agli arrampicatori come
“Falesia di Civate”. Negli anni 1961-1964 venne condotta una campagna di scavi
a cura del Museo Civico di Storia Naturale di Milano, e furono scoperti molti
reperti archeologici.
La struttura. La grotta,
lunga in tutto solo 15 metri, ha una struttura irregolare: è costituita da tre
camere successive intervallate da diaframmi di roccia. Le due camere interne,
dapprima quasi completamente riempite da terra e sedimenti, furono liberate con
gli scavi e rese accessibili. L’ultimo vano (dimensioni m 2,2 x 2,5, ma molto
alto) è quello che conteneva la maggior concentrazione di reperti. Non è raro
imbattersi in qualche pipistrello, aggrappato a testa in giù sulla roccia, che
ha scelto la grotta come riparo. Questi simpatici mammiferi volanti sono molto
sensibili: non disturbiamoli!
L’ultima camera è completamente buia:
per la visita è necessario quindi munirsi di una lampada.
I reperti archeologici.
Inglobati all’interno dei sedimenti furono rinvenuti diversi reperti: buona
parte di essi è ora esposta al Museo Archeologico di Palazzo Belgiojoso, a
Lecco.
In superficie si trovavano i resti
più recenti: frantumi di urne in ceramica nera, che dovevano contenere le
ceneri dei defunti, probabilmente di età romana; frammenti di vasi giallo-bruni
e una moneta dell’imperatore Gallieno (III sec. ca.); circa 40 cm sotto la superficie
vennero ritrovati resti ossei umani di almeno cinque individui di diverso sesso
ed età. La grotta doveva essere quindi una vera e propria necropoli a
inumazione. I corpi, accompagnati anche da corredi funerari, venivano solo
appoggiati sul terreno, e non ricoperti di terra; queste modalità di sepoltura
sono tipiche del periodo Eneolitico, cioè dell’età del rame (2600-2500 a.C.).
Lungo le pareti delle due camere
interne sono state rinvenute incisioni rupestri filiformi (molto deteriorate),
assolutamente uniche in tutto il territorio padano.
Corredi funebri. Per
accompagnare il morto nella sua “nuova vita”, venivano posti accanto al corpo
alcuni oggetti di uso quotidiano e ornamenti: strumenti in pietra (lamelle,
raschiatoi, punte di freccia, un ago in osso) e ornamenti: una perlina e un
anello in rame, e diversi canini ed incisivi di tasso, cane, volpe, maiale,
forati alla base per poterli infilare in collane, orecchini etc.
Resti faunistici. Le
numerosa ossa di animali ritrovate nella grotta hanno consentito di
ricostruire, oltre al tipo di alimentazione di quelle popolazioni, anche
l’ambiente naturale di quel periodo. Sono state ritrovate ossa sia di animali
domestici che selvatici.
Animali domestici:
prevalgono nettamente la capra, poi le pecore, mentre meno presenti sono i
maiali e ancor meno i bovini; è ben rappresentato anche il cane.
Fauna selvatica: oltre a
ossa di mammiferi (cervo, capriolo, gatto selvatico, lepre) interessanti sono i
resti di uccelli. Sono state ritrovate sia ossa di uccelli acquatici, cosa che
indica la presenza del vicino lago di Annone, sia di Gallo Cedrone, che invece
vive in boschi di conifere d’alta quota. Evidentemente il clima d’allora era
più freddo dell’attuale.
La Cultura di Civate. I
resti ritrovati suggeriscono che le popolazioni si dedicavano alla pastorizia
(pecore, cani) e alla caccia; l’epoca in cui questa grotta fu utilizzata come
necropoli risale a circa 2600-2500 a.C. I caratteri di quella popolazione sono
abbastanza originali, tanto da meritarsi un nome proprio, quello di “Cultura di
Civate”. Ritrovamenti simili sono stati effettuati nel vicino Buco del Piombo,
sopra Erba. In generale si possono avvicinare a quelli di popolazioni
provenienti dall’Italia centro-meridionale che nel corso di diversi secoli
hanno colonizzato la Pianura Padana.
Notizie storiche tratte da:
Ottavio Cornaggia Castiglioni, La cultura di Civate: una nuova facies arcaica
della civiltà eneolitica della Lombardia. Annali Soc. Ital. Sc.
Nat. Milano, 15/3/1971.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
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