lunedì 29 giugno 2015

Il Tempio di Lanleff


In uno sperduto villaggio bretone di non oltre cento abitanti, la ricerca mi ha portato a visitare un diroccato tempio di forma rotonda e con doppio muro per la deambulazione. Si è creduto per molto tempo opera dei Templari (e la Guida Verde Michelin continua tranquillamente a propagandare questo falso) - e questo perché gli archeologi del XIX secolo hanno definito, a torto, queste rovine “Tempio di Lanleff”. In realtà si tratta di una chiesa cristiana di stile romanico, fatta costruire al ritorno dalla prima crociata (1099) da un signore della regione, compagno d'armi del duca Alain Fergent. La sua pianta circolare - con dodici arcate a tutto sesto - s’ispira a quella della basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Anastasis), con un deambulatorio che circonda la rotonda e l'absidiola di sud-est, con volta a conca. A pochi metri di distanza da questa è stata trovata una fossa comune con reperti ossei.
Alcuni capitelli, molto deteriorati, sono stati rifatti ed esposti nel prato che circonda l’edificio. I soggetti scolpiti non mi hanno per niente meravigliato, anzi hanno confermato le mie aspettative: una coppia di animali (si vuole siano ovini) e una coppia di uccelli copulanti, un virile Adamo e la sua compagna Eva visti di fronte, un Adamo “pudico” che si copre con le mani. Gli angoli superiori sono decorati da volti umani arricchiti dalle corna del capro (cifrario: le “corna” di Mosé, ma anche le punte della corona reale e della mitra del vescovo, “corna” che mettono in simbolica comunicazione l’umano consacrato col divino).
Anche: una croce tombale scolpita nella pietra nera, col Cristo sostituito dal lògos. Tradotto, il testo recita: Questa croce s’innalza per l’anima del presbitero Iohannes morto la vigilia delle idi di agosto (il giorno 14).
A due passi dall’ingresso, l’immancabile sorgente con le acque raccolte in una vasca rettangolare, con la sua brava leggenda che vede una donna vendere la sua creatura al diavolo in cambio di tredici denari d’argento, poi rivelatisi così roventi da aver lasciato la loro impronta nella roccia da cui sgorga l’acqua sorgiva.
In sintesi: tutto, o quasi, quanto da me raccontato in tante conferenze, messo per iscritto e pubblicato in rete a questi indirizzi: Arles e la leggenda di St-Trophime e St-Gilles-du-Gard





INTEGRAZIONE (aprile 2021)

Richard Krautheimer. Architettura paleocristiana e bizantina
Penguin Book 1965 - Giulio Einaudi editore 1986, pp. 80-83

Gerusalemme.
Gli edifici postcostantiniani che sopravvivono a Costantinopoli sono per lo più fortificazioni e palazzi di data relativamente tarda. A Gerusalemme, invece, e in tutta la Terrasanta, sono giunti fino a noi resti di numerosi edifici ecclesiastici che risalgono ai decenni immediatamente successivi alla morte di Costantino. In gran parte sono stati eretti sui luoghi della vita e della passione di Cristo e sono quindi dei martyria, uguali come funzione a quelli costruiti da Costantino a Betlemme e sul Golgota. Ma a differenza di questi edifici costantiniani, i martyria tardo- e postcostantiniani della Palestina evitano la fusione di un edificio a pianta centrale con una navata basilicale: l’edificio a pianta centrale diviene autosufficiente. Sotto questo aspetto i martyria della Terrasanta sono le controparti della chiesa costantiniana dei Santi Apostoli di Costantinopoli. Infatti edifici con pianta a croce presumibilmente costruiti sul modello della chiesa costantinopolitana esistevano già tra i martyria della Palestina e dei paesi vicini. Un pellegrino del VII secolo, Arculfo, ci ha lasciato la pianta e una sommaria descrizione di uno di questi edifici, costruito, probabilmente prima del 380, sopra il pozzo di Giacobbe presso Sichem (Shéchem) dove Cristo parlò con la Samaritana.
In Palestina tuttavia i martyria cruciformi erano certamente un’eccezione: di regola in Terrasanta erano degli edifici circolari isolati, il cui ovvio prototipo era la Rotonda dell’Anastasis di Gerusalemme. Costruito in massicci blocchi di pietra squadrati, l’edificio copriva il sepolcro da cui Cristo era risorto (di qui ’Anastasis ‘Resurrezione’) e fronteggiava, all’estremità occidentale di un cortile poco profondo, circondato su tre lati da portici, l’abside della basilica-martyrium di Costantino. Forse prevista fin dall’inizio, ma evidentemente non ancora completata nel 336, sembra fosse già in uso intorno al 350; nonostante le numerose trasformazioni, la sua pianta originaria è stata ricostruita nelle sue linee essenziali. Un prospetto rettilineo, in cui si aprivano portali, si affacciava sul cortile in cui sorgeva la rocca del Calvario. All’interno, l’Anastasis fu sviluppata come un’imponente rotonda di 33 metri e 70 di diametro col vano centrale circondato da un deambulatorio di forma irregolare. Proprio al centro dell’edificio, come suo punto focale e sua ragion d’essere, si levava il cono del sepolcro di Cristo sormontato dal baldacchino costantiniano. Il vano centrale era circondato da venti supporti che sostenevano archi pur se probabilmente mancavano due pilastri dove, a oriente, si inseriva la facciata. Idealmente, colonne e pilastri erano raggruppati, probabilmente fin dall’inizio, in gruppi di quattro. Coppie di pilastri sull’asse principale formavano una croce; le colonne sulle diagonali erano raggruppate in triadi, simboleggianti, nell’interpretazione dei padri della Chiesa, i dodici apostoli e le quattro estremità del mondo alle quali essi recavano il quadruplice messaggio della Trinità. Il deambulatorio, semicircolare e con tre nicchie aggettanti, circondava la metà occidentale del vano centrale, terminando in spazi rettangolari presso la facciata. Una galleria che correva al di sopra del deambulatorio offriva posto anche al fedele che non fosse riuscito a trovarlo a pianterreno. Infine, sopra la fascia dei finestroni, c’era una cupola. Può darsi che si trattasse di una struttura in legno e che, per quanto la cosa non sia certa, fosse aperta al centro come nel tetto dell’ottagono che sovrasta la grotta di Betlemme. L’insieme era disarmonico, le colonne robuste e sollevate su alti plinti, i muri eccezionalmente pesanti.
La Rotonda dell’Anastasis chiaramente si colloca in una tradizione tardoantica con forti accenti classici. Che i capitelli delle colonne e i profili dei loro alti plinti fossero o meno classici come le antiche riproduzioni farebbero supporre, la pianta è radicata nella tradizione dei mausolei e degli heroa imperiali. La cosa è perfettamente naturale in un edificio destinato ad accogliere il sepolcro e a commemorare la resurrezione (verrebbe fatto di dire l’apoteosi) di Cristo, il Basileus del Cielo, il Sole Risorto. Vien fatto di ricordarsi dei grandi mausolei-heroa della Roma imperiale: quello di Elena, quello di Diocleziano a Spalato, infine il mausoleo di Costantina, il quale, come l’Anastasis, era circondato da un deambulatorio interno. È indubbio che le stesse fonti sono servite all’architetto di Santa Costanza e a quello dell’Anastasis. Infatti ci si chiede se i martyria circolari a sé stanti della Terrasanta, dei quali la Rotonda dell’Anastasis è il primo e più cospicuo esempio, non si debbano interpretare come parte di un movimento di rinascita dell’epoca tardo- o postcostantiniana. In antitesi alla fusione di pianta basilicale e pianta centrale i martyria isolati riaffermano la tradizione del mausoleo-heroon imperiale.
La Rotonda dell’Anastasis non è l’unico edificio di questo tipo tra i martyria della Terrasanta. Scavi condotti sul Monte degli Ulivi hanno messo in luce alcuni dei muri dell’Imbomon, il santuario fatto costruire nel 370 dalla patrizia romana Pomenia per ricordare il luogo in cui Cristo era salito al Cielo. È stata ritrovata una parte del muro circolare esterno (da cui risulta, per la rotonda, un diametro di circa 18 metri) insieme con i resti di un colonnato esterno. All’interno gli antichi pellegrini vedevano un altro colonnato, cioè un deambulatorio, forse a due piani. Il deambulatorio correva intorno a un vano che racchiudeva la roccia con le impronte di Cristo al momento dell’ascensione. Questo vano centrale o non aveva alcuna copertura, oppure il suo tetto in legno, probabilmente di forma conica, si concludeva in un grande foro. Verso oriente, zona presbiteriale e abside, che partivano dal vano centrale, sembra tagliassero il deambulatorio. Comunque l’Imbomon rappresentava una variante della pianta dell’Anastasis. Né era l’unica variante. Un santuario molto simile all’Imbomon è stato messo in luce da scavi a Beisan (Scitopoli) nella Palestina settentrionale; senza dubbio era un martyrium, ma l’avvenimento che esso commemorava o la reliquia che vi era custodita rimangono ignoti. Martyria del genere, a pianta centrale, di forma circolare o poligonale, compaiono in altre varianti nei luoghi santi della Palestina: probabilmente sopra il Sepolcro della Vergine nella Valle di Giosafat fuori di Gerusalemme; certamente in una chiesa che l’imperatore Zenone (474-75, 467-91) dedicò alla Vergine sul monte Garizim (Gerizim) presso Sichem, che è di pianta ottagona anziché circolare e accoglie una reliquia del Calvario.
Fuori della Terrasanta, «copie» dell’Anastasis e di sue derivazioni furono frequenti nell’Europa medievale, però sembra siano state relativamente rare nel mondo cristiano del IV e V secolo. Un esempio che viene fatto di ricordare è la chiesa dei Santi Carpo e Policarpo a Costantinopoli: ne sopravvive solo la sostruzione circolare, ma da essa si indovina chiaramente, al livello del suolo, un edificio composto di vano centrale con cupola e di deambulatorio, interrotto questo da una zona presbiteriale e un’abside, il tipo di muratura suggerisce una data intorno al 400 e la pianta, nonché la tradizione locale, fanno ritenere che la chiesa fosse una copia relativamente precoce dell’Anastasis.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
22 giugno 2015




















giovedì 18 giugno 2015

Balzac e Picasso in Rue des Grands-Augustins



«C’è crisi. Nonostante il suo ottimismo di fondo, Kahnweiler era preparato. Ormai la si deve affrontare. Il 25 ottobre 1929, la borsa di New York crolla secondo uno schema tutto sommato banale, poiché lo riscontriamo nella crisi che ha colpito la Francia nel 1882 e in quella degli Stati Uniti del 1907. Ma questa sarà più lunga e più ampia.
Si prospettano anni di vacche magre. Il cosiddetto commercio del lusso, qual è il mercato dell’arte, come potrà non soffrirne? ... Kahnweiler ha la sgradevole impressione che niente valga più niente. Nessuno compera. ... Tutti sono nella stessa barca. Ogni tanto il morale risale. Si parla di una leggera ripresa. ... Kahnweiler esprime queste opinioni nelle lettere al cognato Michel Leiris che sta percorrendo l’Africa come segretario-archivista della missione Dakar-Gibuti. Anche le opinioni di quest’ultimo sulla crisi, vista da Dakar o da Yaoundé, sono interessanti: “Ho una gran fretta di essere nella savana, lontano dagli europei imbecilli e dai negri truccati. ... Vista da lontano la situazione europea mi sembra più che mai insensata. In ogni caso essa costituisce la prova più schiacciante dell’inutilità della nostra civiltà”.
Alla galleria ci si annoia a morte. È un deserto. ... Fra il 1929 e il 1933 la galleria Simon non organizza neppure una mostra. Anche l’attività editoriale è considerevolmente ridotta: escono solo le poesie di Carl Einstein e L’anus solaire di Georges Bataille. Gli altri aspetteranno. Non si può ingozzare un pubblico restio.»
Pierre Assouline. Il mercante di Picasso
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990, pp 275-277



Certo, sono anni difficili, aiutati dalla vecchia regola della coperta corta: se la massa ha i piedi al freddo è perché pochi hanno le spalle al caldo. Le gallerie d’arte cercano di sopravvivere e le loro attività collaterali, quali l’edizione di libri da collezione, boccheggiano per mancanza d’ossigeno.
È proprio in questo momento storico che un ricco mercante di quadri, Ambroise Vollard, lancia il guanto e sfida il destino - e qui mi fermo per fare un balzo indietro nel tempo di cent’anni, quando il 31 luglio e il 7 agosto 1831 il periodico L’artiste pubblica Le chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac,[1] che inizia così:

Vers la fin de l’année 1612, par une froide matinée de décembre, un jeune homme dont le costume était de très-mince apparence, entra dans une maison de la rue des Grands-Augustins, ...&tc. &tc.



Ritorno all’anno 1931. Come detto sopra, la crisi morde i polpacci ai poveri e al ceto medio, ma non sono queste masse ad aver reso ricco Vollard. Il mercato ristagna, è vero, ma lui, che ama il rischio (calcolato), chiede a Picasso se ha dei disegni utili ad illustrare una nuova edizione de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tirata in poche copie e in grande formato. Roba di lusso, per collezionisti ricchi.
Scrive Patrick O’Brian in Picasso (pp. 320-321), una biografia già citata in altri miei post:

Un artista al lavoro, talvolta un pittore, talaltra uno scultore, spesso con una modella, fa ora la sua comparsa tra i personaggi di Picasso: una figura che ritroveremo spesso nei suoi quadri, in varie forme, mai però ispirata a un sentimento di autostima.
Spesso si tratta di un uomo tarchiato, con barba, abbastanza «classico» non fosse per i calzoncini corti, dall’aria sbalordita se non stupida, quale a volte può avere un toro; in una delle prime acqueforti l’uomo è seduto davanti al cavalletto e fissa attentamente la modella o qualcosa attraverso di lei; intanto con la destra traccia una mirabile serie di curve e di piani rettilinei che non sembrano avere molta attinenza con la donna: costei, d’aspetto gradevole, di mezz’età, lavora a maglia in grembiule ed è disegnata, al pari dell’uomo, con il perfetto realismo descrittivo che Picasso, quando voleva, sapeva produrre.
Sarebbe interessante sapere se l’acquaforte fu eseguita prima che Vollard parlasse a Picasso della sua intenzione di realizzare un’edizione illustrata del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac, poiché il libro narra di un pittore il cui capolavoro non può essere capito da nessuno se non dal suo stesso autore, ma in proposito gli studiosi hanno pareri contrastanti e anche i ricordi di Vollard sono vaghi. Altrettanto interessante sarebbe sapere se Picasso avesse letto il romanzo o no. Dalla descrizione che ne fece a Geneviève Laporte molti anni più tardi sembrerebbe di no, eppure poche opere gli sarebbero maggiormente piaciute. Molto succintamente la storia, ambientata nel 1612, è questa: il giovane Nicolas Poussin va a trovare il noto pittore Pourbus in Rue des Grands-Augustins e, dopo qualche esitazione, entra nello stesso istante in cui sopraggiunge anche un ricco signore anziano, di nome Frenhofer: Frenhofer critica il lavoro di Pourbus con grande libertà, esprimendo alcune opinioni molto interessanti in fatto di pittura. Poussin, sconosciuto a entrambi, si intromette ed è riconosciuto da ambedue quale un vero artista. Pourbus è gentile con il giovane, lo incita a lavorare, gli dice che Frenhofer era stato allievo di Mabuse e che adesso è pittore dilettante giacché, essendo ricco, non è obbligato a vendere, ma capace al punto che Pourbus ha scambiato i suoi dipinti per quelli di Giorgione. L’amicizia si fa più stretta, grazie anche al fatto che Poussin ha una giovane amante molto bella («una di quelle anime nobili e generose capaci di soffrire accanto a un grand’uomo, condividendone angosce e difficoltà e facendo tutto il possibile per comprenderne gli umori, sopportando l’indigenza e attingendo forza all’amore»), una donna che a Frenhofer piacerebbe avere come modella. Un giorno si trovano tutti nello studio di Frenhofer, dove Poussin vede alcuni quadri di mirabile fattura, che tuttavia Frenhofer giudica di poco conto a paragone del suo capolavoro, un dipinto che egli è estremamente riluttante a mostrare; infine si decide e lo fa vedere agli amici. Poussin non riesce a capire nulla in quel caos di colori, in quelle «gradazioni incerte, in quella specie di bruma informe», tranne «un solo piede, vivo e squisito». Dice però che non riesce a distinguere alcuna figura femminile nel dipinto. Frenhofer piange, per un attimo cerca di confortarsi immaginando che i due siano ladri, ma finisce per bruciare il quadro quella stessa notte, e muore.
Nel 1931, quando finalmente fu pubblicato, il libro conteneva acqueforti e disegni di Picasso puntiformi e cubisti, certamente precedenti all’idea del libro, oltre a qualche acquaforte realizzata per l’occasione; in tutto ottanta illustrazioni.

Sebbene Picasso abbia scelto le incisioni “a naso”, l’unità dell’opera non ne esce alterata. Il successo di critica e di vendita premiano il coraggio dell’editore.



Potrei fermarmi qui, se non fosse che il bello è ancora da venire.
Siamo ai primi giorni di gennaio del 1937 e Picasso, privato del grande studio di Boisgeloup che il tribunale ha assegnato a sua moglie Olga, da cui si è separato, cerca una nuova sistemazione per lavorare. Gli viene incontro Vollard che gli affitta una vecchia casa da lui comperata a Le Tremblay-sur-Mauldre, col granaio trasformato in studio; come abitazione, a Parigi il pittore mantiene i due piani acquistati in Rue La Boëtie, mentre la sua nuova fiamma, Dora Markovich - in arte Dora Maar - vive in un appartamento in Rue de Savoie, vicinissimo al complesso di studi che Picasso ha preso in affitto da alcuni anni, ma che finora ha poco o nulla frequentato.
Lo fa verso la fine di marzo, quando decide di occupare saltuariamente i due piani della vecchia casa del Settecento al n. 7 di Rue des Grands-Augustins, chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino - e il caso vuole che questa fosse proprio la casa in cui Balzac aveva ambientato Le chef-d’œuvre inconnu, una storia che ruota attorno a un pittore ...cubista.
Poche settimane dopo, il 26 aprile, la città di Guernica è distrutta dai bombardieri tedeschi, ma la notizia arriva a Parigi il 28. Nello studio di Rue des Grands-Augustins il primo maggio Picasso esegue i primi cinque schizzi preparatori della tela che a giugno sarà esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi, da allora nota col nome della città martire, Guernica.
Ma è solo nel mese di giugno del 1939 che Picasso si insedia definitivamente al numero 7 di Rue des Grands-Augustins, seppur continuando a conservare l’appartamento di Rue de la Boëtie, dove lascia parte delle sue pitture. Per l’occasione, l’artista decide di far mettere il riscaldamento centrale per rendere abitabili i due piani dell’ex granaio Barrault. Decide anche di impiantare in casa un laboratorio d’incisione e fa venire da Boisgeloup il vecchio torchio e tutto il materiale necessario. Verso la fine di giugno ogni lavoro è terminato e Picasso può iniziare la sua ennesima vita, entusiasmando Vollard con i suoi progetti di stampe per edizioni future. Purtroppo il sogno di Vollard è di breve durata: il 21 luglio, a causa di incidente d’auto, muore dopo essere stato colpito alla nuca da una pesante scultura di Maillol che stava trasportando.



Anno 1940, anno di guerra. Picasso continua ad abitare in Rue La Boëtie, ma i tragitti tra la casa e lo studio divengono difficili. Decide così di trasferire la residenza in Rue des Grands-Augustins, installandovi una camera da letto. Per i pasti, capita spesso in un ristorante che porta un nome suggestivo, Le Catalan - 25, Rue des Grands-Augustins. Ed è qui che una sera di maggio del 1942, mentre sta cenando con Dora Maar, Marie-Laure de Noailles e altri amici, nota due giovani belle donne sedute a un tavolo in compagnia di Cuny, un attore allora in auge. Dopo le presentazioni e scambiata qualche battuta Picasso invita le ragazze a fargli visita nella sua casa-studio e molti anni dopo una delle due, Françoise Gilot, scriverà nelle sue acide memorie (pp 12-15):

Il lunedì seguente, verso le undici, Geneviève e io ci arrampicavamo per una buia e stretta scala a chiocciola, nascosta nell’angolo del cortile acciottolato del numero sette di rue des Grands-Augustins, e bussavamo alla porta dell’appartamento di Picasso. Dopo una breve attesa, la porta si aprì di pochi centimetri per rivelare il naso lungo e sottile del suo segretario, Jaime Sabartés. Non l’avevamo mai incontrato prima di allora, ma sapevamo chi era. Avevamo visto riproduzioni dei disegni che Picasso gli aveva fatto e Cuny inoltre ci aveva avvertito che sarebbe stato lui ad accoglierci. Ci guardò con aria sospettosa e chiese: «Avete un appuntamento?» Risposi affermativamente. Ci lasciò entrare. Aveva un aspetto inquieto e ci scrutava dietro le spesse lenti.
Entrammo in un vestibolo pieno di uccelli - c’erano delle tortore e un certo numero di uccelli esotici dentro a gabbie di vimini - e di piante. Le piante non erano belle; verdi e spinose come se ne vede spesso nei vasi di rame delle portinerie. Là invece erano disposte in un modo più attraente, e facevano un bell’effetto di fronte alla finestra spalancata. Avevo visto una di quelle piante un mese prima, in un ritratto recente di Dora Maar, esposto, a dispetto dei nazisti che avevano messo al bando le opere di Picasso, in un angolo della galleria di Louise Leiris, in rue d’Astorg. Era un magnifico ritratto in rosa e grigio. Sul fondo della tela c’era una vetrata a piccoli riquadri, che riconobbi nella vecchia e grande finestra, una gabbia d’uccelli e una di quelle piante verdi.
Seguimmo Sabartés in una seconda stanza, molto lunga. Disposti su vecchi divani e su sedie Luigi XIII si trovavano chitarre, mandolini ed altri strumenti musicali che pensai Picasso avesse usato per i suoi quadri del periodo cubista. Egli mi raccontò più tardi che aveva acquistato quegli strumenti dopo aver dipinto i quadri, non prima, e che li conservava a ricordo degli anni del Cubismo. La stanza era bella e ampia, ma vi regnava un disordine indescrivibile. La lunga tavola che si stendeva fino a noi e due banchi da falegname, uno a prolungamento dell’altro, ridosso alla parete di destra, erano coperti da pile di libri, di riviste, di quotidiani, di fotografie, di cappelli e di oggetti di vario genere. Sopra uno di questi banchi era posato un pezzo di cristallo grezzo d’ametista, grande quanto una testa umana. Al centro di questo blocco c’era una piccola cavità, totalmente chiusa, piena di qualcosa che sembrava acqua. In un ripiano sotto al tavolo si trovavano una pila di vestiti da uomo e tre o quattro paia di scarpe.
Mentre costeggiavamo la grande tavola centrale, notai che Sabartés girava attorno a un oggetto di color bruno scuro, posato sul pavimento, vicino alla porta che dava nella stanza accanto. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di una scultura: un cranio in bronzo.
La stanza successiva era uno studio quasi totalmente stipato di sculture. Vidi così L’uomo col montone, ora fuso in bronzo e collocato nella piazza del mercato di Vallauris, e che, a quel tempo, era semplicemente di gesso. C’erano inoltre numerose grandi teste di donna che Picasso aveva eseguito a Boisgeloup, nel 1932, un ammasso di manubri di bicicletta, rotoli di tele, un Cristo spagnolo di legno policromo del XV secolo, e una bizzarra e affusolata scultura, rappresentante una donna che teneva in una mano una mela e nell’altro braccio qualche cosa che assomigliava a una borsa dell’acqua calda.
La cosa più sorprendente, tuttavia, era costituita da uno squillante Matisse, una natura morta del 1912, che rappresentava una fruttiera piena d’arance posata sopra una tovaglia rosa e contro un fondo oltremare e color rosa di Tiro. Ricordo anche un Vuillard, un Doganiere Rousseau e un Modigliani; ma in quello studio avvolto d’ombra, lo splendore del Matisse squillava fra le sculture. Non potei trattenermi dall’esclamare: «Oh, che bel Matisse!» Sabartés si volse e disse, austero: «Qui non c’è che Picasso!»
Per un’altra scaletta a chiocciola, all’estremità della stanza, salimmo al secondo piano dell’appartamento di Picasso. Là il soffitto era molto più basso. Passammo in un grande studio. Sul fondo, circondato da sette od otto persone, scorsi Picasso. Indossava un vecchio paio di pantaloni che gli stavano larghi e una maglia da marinaio a righe bianche e blu. Quando ci vide il suo volto si illuminò di un sorriso. Lasciò il gruppo e ci venne incontro. Sabartés brontolò qualcosa circa il nostro appuntamento e scomparve.
«Volete vedere lo studio?» chiese Picasso. Rispondemmo di sì. Speravamo che ci mostrasse dei quadri, ma non osavamo chiederlo. Ci ricondusse al piano inferiore, nello studio di scultura.
«Prima che m’installassi qui,» disse, «questo primo piano era il laboratorio di un tessitore, quello di sopra, lo studio di Jean-Louis Barrault. In questa stanza ho dipinto Guernica.» Si era seduto su una tavola Luigi XIII, davanti alle finestre che davano sul cortile interno. «A parte questo, non lavoro quasi mai in questa stanza. Ho scolpito qui L’homme au mouton,» disse indicando il grande gesso dell’uomo che tiene fra le braccia la pecora, «ma dipingo lassù e, di solito, eseguo le sculture in un altro studio che si trova poco più avanti su questa strada. «La scala a chiocciola che avete preso per venir qui è quella che il giovane pittore de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac saliva per andar a trovare il vecchio Pourbus, l’amico di Poussin che dipingeva tele non comprese da nessuno. Oh, tutto il luogo è ricco di fantasmi storici e letterari. Bene, torniamo su.» Scivolò giù dalla tavola e lo seguimmo per la scaletta a chiocciola. Ci condusse attraverso il grande studio, attorno al gruppo dei visitatori, nessuno dei quali alzò la testa al nostro passaggio, fino a una piccola stanza, proprio in fondo.
«Qui lavoro alle mie incisioni,» disse. «Guardate qui.» Si diresse verso l’acquaio e aprì il rubinetto. Dopo un po’ l’acqua prese a fumare. «Meraviglioso, vero? Nonostante la guerra ho l’acqua calda. Del resto,» aggiunse, «potete venire a fare il bagno quando volete.» Ma non era l’acqua calda che ci interessava, nonostante che allora fosse scarsa. Guardando Geneviève pensai: «La smettesse di parlare dell’acqua calda e ci facesse vedere almeno dei quadri!» Invece cominciò a tenerci un piccolo corso sulla tecnica dell’acquaforte e stavo proprio pensando che con tutta probabilità ce ne saremmo dovute andare senza vedere alcuna delle sue opere e che non saremmo mai più ritornate, quando, finalmente, ci condusse nel grande studio e ci mostrò alcuni quadri. Ricordo un gallo, ricco di colore e forte nell’impostazione, che lanciava un vigoroso chicchirichì. Ricordo anche un altro quadro, dello stesso periodo, molto rigoroso e tutto in bianco e nero.
Verso l’una, il gruppo dei visitatori ci lasciò e ciascuno prese congedo.
Ciò che mi colpì in modo curioso fin da quel primo giorno fu il fatto che lo studio sembrava il tempio di una specie di «religione picassiana», e che tutti i presenti apparivano completamente immersi in quel culto - tutti, eccetto quell’uno cui quell’attenzione era rivolta. Egli sembrava prender tutto per scontato, senza dare importanza a nulla in particolare come se volesse mostrarci che non intendeva affatto essere al centro di un culto.
Mentre ci apprestavamo ad andarcene, Picasso ci disse: «Se volete ritornare, fatelo. Ma non come pellegrini che vanno alla Mecca. Venite perché trovate interessante la mia compagnia e perché volete avere con me uno scambio semplice e diretto. Se volete vedere soltanto i miei quadri, potete benissimo andare in un museo.»
Non presi troppo seriamente quest’osservazione. Prima di tutto perché a quel tempo non c’era quasi alcun Picasso nei musei parigini. Secondo, perché egli si trovava nella lista dei pittori proibiti dai nazisti e nessuna delle gallerie private poteva esporre apertamente le sue opere e in una certa quantità. E a un pittore non basta vedere le opere di un altro pittore riprodotte in un libro. Per conoscere meglio i suoi lavori, ed era il mio caso, la cosa più semplice era di recarsi al numero 7 di rue des Grands-Augustins.

Per essere la prima visita, i fin troppo precisi dettagli rendono poco credibile questo racconto. Comunque sia, per alcuni anni i due si frequentano come amici, finché, scrive ancora la Gilot, «una sera sul presto, verso la fine di maggio 1946, mentre mi preparavo a lasciare Rue des Grands Augustins per tornare dalla nonna, Pablo ricominciò a insistere … e rimasi lì, senza dire addio e senza dare una spiegazione a nessuno … Non uscii di casa per un mese intero dal giorno in cui ero andata a vivere con Pablo.»
Risultato: da questa relazione il 15 maggio 1947 nasce un figlio, Claude. Il mese dopo la famiglia si sposta al Sud, a Golfe-Juan, dove abitano la casetta di Louis Fort. Nell’autunno Picasso comincia a lavorare nella fabbrica Madoura di Vallauris condotta dagli amici Ramié: un nuovo amore, una nuova casa è la costante di Picasso.


Françoise Gilot e Pablo Picasso
by Robert Doisneau, 1952

Gran finale. A Milano, sotto i portici di piazza Diaz, una volta al mese si tiene una ricca fiera del libro usato. Domenica scorsa, 14 giugno 2015, vengo attratto da una custodia marroncina, quadrata. La prendo, sfilo il libro e che mi ritrovo tra le mani? La riedizione de Le chef-d’œuvre inconnu curata nel 1966 dalle Éditions L.C.L. Il colophon recita (in francese, qui da me tradotto): Questo volume della collezione «Les Peintres du Livre» composto in carattere Bodoni corpo 18 è stato tirato dallo stampatore Firmin-Didot, Parigi - Mesnil - Ivry su carta Blanchemer delle Papeteries Prioux. La stampa delle illustrazioni è stata curata dall’Imprimerie Genése di Parigi. La rilegatura è stata realizzata da Bonnet-Madin a Dreux. La tiratura è stata limitata a 3000 esemplari numerati da 1 a 3000 e a 50 esemplari fuori commercio marcati H. C. destinati ai fondatori e ai collaboratori della collana.
Questa copia porta il numero 1490. Dentro vi sono le incisioni di Picasso, mentre il Pittore osservato dalla modella nuda è stampato e inserito a parte, su cartoncino bianco, fuori dal libro.
Domando: «Quanto chiede per questo libro?».
«Dieci euro.»
È in casa.

[1] Racconto inserito lo stesso anno 1831 nel terzo tomo dei Romans et contes philosophiques par M. Balzac, Paris, Charles Gosselin Libraire, poi ripubblicato con leggere modifiche nel 1847 col titolo Gillette ne Le provincial à Paris par H. de Balzac, Paris, Gabriel Roux et Cassanet Éditeur.



Atelier di Rue des Grands-Augustins
Guernica, dettaglio, 1937
by Dora Maar


Picasso e la stufa
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1939



Kazbek
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944

Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944


Pittore osservato dalla modella nuda, 1927






  

venerdì 5 giugno 2015

St-Gilles-du-Gard


A maggio, di primo mattino il visitatore ha il sole di fronte e per godere della visione dell’abbaziale di Saint-Gilles-du-Gard aiuta lo stretto passaggio che porta alla Maison Romane, struttura museale che una tradizione vuole sia stata la casa natale di Guy de Foulques, il Guido Fulcodi che resse la Chiesa romana dal 1265 al 1268 col nome di Clemente IV.

San Gilles: già il nome è tutto un programma. La storia c’insegna che il meridione francese mai fu evangelizzate dai vescovi inviati da Roma, bensì dal clero greco ortodosso, lo zoccolo duro su cui si è costruita nei secoli la Chiesa gallicana, e già questo spiega l’origine del mito di san Trophime di Arles, il protovescovo che la leggenda vuole sia stato unto direttamente dall’apostolo Pietro e da questi inviato a convertire le masse pagane del Sud della Gallia. Ma noi sappiamo che un san Trophime storico non è mai esistito e quindi sorvoliamo su queste baruffe tra galli interessati a godere le ricche prebende del grasso pollaio.
Si aggiunga: dalla lettura dei testi agiografici, dunque a lui favorevoli, si apprende che Trophime sarebbe morto tra l’anno 270 e l’anno 275 - e qui la storia dell’unzione dalle mani di san Pietro va a farsi benedire, in tutti i sensi.


Decisamente intrigante è l’analisi del nome: guarda caso, Gilles viene dal greco e significa l’Egeo, il greco, un nome a sua volta derivato da quello della capra, potente antenato simbolico: aiks quando è soggetto, aigos quando è complemento di nome. Il diminutivo è aigidion che diventa aegidius nel latino medievale. Uno degli appellativi degli antichi greci era Egei - figli della capra e chi si occupa di religiosità arcaica ben conosce che in Occidente i “capretti” erano una delle quattro tribù attiche primitive, così come lo stesso nome si ritrova nell’espressione “essere sotto l’egida di qualcuno”, dove l’egida indica la corazza protettiva in forma di mantelletto di capra con al centro la testa della Gorgone, che nella mitologia greca era portata in battaglia da Atena, da Zeus e da altri dèi.[1]
Vecchie storie, che riportano ai miti dell’Oriente: quante strutture religiose da me visitate tra la Svanezia e le terre tibetane portano all’esterno e/o all’interno le corna della capra o dell’ibex, il simbolo sacro per eccellenza? Ancora: in Svanezia, terra di sicura fede cristiana, le chiese più antiche, da cercare sui monti, non sono mai quadrate o rettangolari bensì rotonde - come lo sono le tende abitate - significando con ciò che entrare in chiesa è un tutt’uno coll’entrare nel grembo generativo della Madre che tutti nutre. Le più antiche tra le strutture rimaste presentano due giri di mura: il fedele deve dapprima deambulare in senso orario all’esterno, poi nel corridoio tra le due mura, infine può entrare nel cerchio sacro, dove sopra l’altare non vi è la statua di una vergine o un uomo crocifisso ma un bel paio di corna di caprone, il fecondatore. Questo spiega la ragione per cui in queste chiese possono entrare solo gli uomini - e mai in un numero superiore a sette: potenza dei numeri sacri! -, mentre le donne devono limitarsi al giro delle mura esterne e sostare di fronte alla porta. Il perché di questa proibizione è subito spiegato: è il maschio - il montone, l’ibex, l’uomo - che feconda, quindi solo i maschi possono/devono entrare. Un’esperienza importante, perché riporta al cristianesimo arcaico adottato dal mondo rurale, privo delle pesanti sovrastrutture dei riti e dei dogmi teologici imposti nei secoli successivi.
Chi è interessato al tema della capra - e non solo - consiglio vivamente la lettura de Gli indù, prezioso libro firmato da Wendy Doniger - un nome, una garanzia - tradotto da Anna Bertolino e pubblicato nel 2015 da Adelphi nella collezione Il ramo d’oro.





[1] Si veda il Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto Treccani, II, D-L, p. 224, mentre altre informazioni locali le riprendo da San Gilles. L’abbatiale romane di Jean-Marie Marconot, RIRESC-recherches sociales, 2008.


Gilles, il greco, il figlio della capra.[1] Corro il rischio di ripetermi, ma il pensiero mi riporta ad alcune delle mie esperienze vissute deambulando, il più delle volte solitario, tra i monti dell’Himalaya indiano e nepalese per condividere vita miti e riti delle popolazioni abitanti le terre ai confini politici col Tibet, oppure vagando per il Caucaso o tra le vallate dell’America latina e le lande desertiche dell’Africa mediterranea, inseguendo i miti più antichi, dove il culto per le vergini dee madri, le pietre nere e i serpenti mi hanno insegnato l’importanza dell’intersecazione dei simboli forti delle corna col legno e col ferro. Sì, perché l’arcaico senso del sacro pretende che i templi debbano essere costruiti soltanto col legno del cedro, l’albero sacro in assoluto, e che il ferro sia l’unico metallo da utilizzare nei riti sacri. Più sacra ancora - retaggio mnemonico della scoperta che il fuoco si poteva utilizzare anche per nutrirsi e difendersi - è la pietra nera, quella rimasta a diretto contatto con la fiamma, quindi da questa resa pura. Aiyanar, il sasso nero infisso a mo’ di pene eretto nella Madre Terra, primo concetto antropomorfo di una divinità che mente umana ricordi, insegna. Non pochi millenni dopo arriveranno le madonne nere.
Restando al legno e al ferro, la teologia cristiana si è adeguata trasformando il padre putativo del Messia (Xristòs, in greco) da carpentiere (muratore, costruttore - masson in francese, termine adottato dai fratelli muratori o massoni) in falegname e facendo morire il Figlio inchiodato con tre chiodi di ferro a una croce di legno. Ancora una volta l’India precede i miti e i riti: migliaia di anni prima di Cristo un’altra divinità, Krisna (nome dalla radice simile a Xristòs), aveva vissuto una vita che ricorda sia quella Mosè che quella di Gesù: una madre vergine resa gravida dal verbo divino; la profezia che da lei nascerà il nuovo re destinato a spodestare il tiranno sul trono; l’abbandono del neonato, posto in una cesta di vimini lasciata trasportare dalla corrente del fiume; il suo ritrovamento da parte di una famiglia di pescatori, mentre sull’altra sponda imperversa la strage degli innocenti; una vita vissuta in famiglia, salvo emergere pubblicamente negli ultimi anni della sua breve esistenza, conclusa immolandosi per la redenzione del suo popolo, trafitto da tre frecce ad un albero. Una storia, questa, che aveva toccato il cuore delle tribù dei vaccari abitanti sulle terre bagnate dalla Yamuna, nel regno di Mathura.

Torno a san Gilles. Come ho già scritto, la Chiesa gallicana è stata fondata dai Greci, commercianti ed artigiani, ed è rimasta a lungo di rito orientale prima d’essere condotta alla chiesa latina soggetta al potere del vescovo di Roma e i monaci di Provenza in questo hanno avuto una loro importanza. A Costantinopoli, nel 402 il marsigliese Jean Cassien conosce Giovanni Crisostomo e i monasteri poi da lui aperti a San Victor di Marsiglia e sulle isole di Lérins ne risentono non poco: la loro resistenza alle novità apportate da Agostino l’Africano sono celebri. È un periodo dove il dissidio tra Oriente e Occidente è forte, tanto che nella diocesi di Arles il futuro san Césaire impone la predicazione ai preti “secondo i luoghi”, riservando ai soli vescovi il rituale romano.





[1] Dal Dizionario dei santi, UTET-TEA1989: Egidio. Ateniese, secondo la tradizione sarebbe passato in Francia tra i sec. VII e VIII, ed avrebbe fondato a Nîmes il monast. Benedett. dei Ss. Pietro e Paolo, presso il quale sorse poi la città di St. Gilles (forma franc. di E.). tra i Santi più noti e venerati del Medioevo (uno dei così detti Ausiliatori), ebbe in Roma 2 chiese. Festa 1/9.
Dal Dizionario Oxford dei santi di David H. Farmer, Franco Muzzio1987, traduzione di Luigi Zappalà: Egidio (Ægidius) (m. c. 710), eremita. Ciò che si conosce di questo santo, divenuto estremamente popolare nel Medioevo, è che nacque all’inizio del VII secolo e che fondò un monastero, nel luogo successivamente chiamato Saint-Gilles (Provenza), sulle terre donategli dal re Wamba. Il sepolcro divenne un importante centro di pellegrinaggio, anche perché situato sulla strada per Compostela e per la Terra Santa. Secondo una leggenda del X secolo (un insieme di prestiti da altre Vite) era nato ad Atene ed era diventato eremita alle foci del Rodano, non lontano da Nîmes, dopo essere stato attirato in quella regione dalla fama di Cesario di Arles. Durante una partita di caccia re Wamba stava inseguendo una cerbiatta: l’animale cercò rifugio presso Egidio nel momento in cui il re stava lanciando una freccia che andò, così, a colpire l’eremita, rendendolo zoppo. Un’altra leggenda narra che un imperatore (erroneamente identificato con Carlomagno) si fosse recato da Egidio per ottenere il perdono di un peccato che non aveva osato confessare; il giorno successivo, mentre diceva messa, Egidio apprese da un pezzo di carta scritto da un angelo la natura del peccato in questione: le preghiere del santo furono efficaci a tal punto che le lettere, a una a una, scomparvero dalla carta. Verso gli ultimi anni della sua vita Egidio andò a Roma e offrì al papa il monastero che aveva fondato (ottenendo, in questo modo, privilegi e protezione); il papa gli fece dono di due porte in legno che il santo gettò in mare e che il mare trasportò fino ad una spiaggia vicino al suo monastero. Dalla Provenza (chiamata provincia Sancti Aegidii) il culto di Egidio si diffuse per l’Europa, soprattutto per merito dei Crociati. Alla sua popolarità contribuì notevolmente la protezione di zoppi, lebbrosi e balie (quest’ultima credenza si basava sulla leggenda che raccontava dell’aiuto dato alla cerbiatta), e la supposizione che l’invocazione del santo fosse così efficace da rendere superflua la confessione auricolare dei suoi protetti. In Inghilterra erano dedicate a lui 162 chiese antiche e almeno 24 ospedali. Le chiese più famose in Gran Bretagna sono St. Giles ad Edimburgo e St. Giles, Cripplegate, a Londra. La sua festa era celebrata in tutti i monasteri benedettini e in larga parte d’Europa. Nelle rappresentazioni artistiche è raffigurato come un semplice abate con il bastone pastorale; esistono anche cicli della sua vita (nelle vetrate risalenti al XIII secolo a Chartres ed Amiens e negli affreschi della cripta di Saint-Aignan-sur-Cher) e immagini di avvenimenti che riguardano la protezione data alla cerbiatta (mensola dello stallo nella cattedrale di Ely) o la Messa di Sant’Egidio (National Gallery, Londra).
La diffusione della venerazione per il santo non impedì la decadenza del centro di culto, avvenuta nel tardo Medioevo, quando diminuirono le offerte fatte al sepolcro, principale fonte di sostentamento dei monaci. La comunità cercò di ristabilire le entrate con straordinarie esposizioni delle reliquie e con indulgenze papali. Almeno due famose fiere inglesi sono in relazione alla festa di Egidio: una, a Winchester, che ormai non si tiene più; l’altra a Oxford, che ha perso i connotati originali di compra-vendita dei prodotti locali ed è stata trasformata in luna-park. In Germania, alla fine del Medioevo, Egidio venne riconosciuto come uno dei quattordici santi protettori.
Le chiese a lui consacrate sorgono spesso nei pressi di incroci stradali: «i viaggiatori potevano visitarle mentre i loro cavalli venivano ferrati dai fabbri delle vicinanze, anch’essi protetti dal santo». Festa: 1° settembre.



La Vita scritta da Jean Stilting ci informa che Gilles è nato ad Atene verso l’anno 640, che i suoi genitori sono ricchi e che lui ha frequentato buoni insegnanti; che verso il 660 lascia la Grecia e che verso il 684 incontra a Toledo il re dei Visigoti. Apprendiamo anche che la sua santità è precoce: come il Cristo anche Gilles guarisce gli epilettici, i malati e salva le flotte dal mare in tempesta (in Francia, le onde grosse del mare sono anche dette chévres intese come le capricciose, quelle che saltano). L’imitazione continua: Gesù cammina sulle acque del lago di Galilea? Anche Gilles usa lo stesso metodo per andare velocemente a Roma e subito rientrare ad Arles.
Alla morte dei suoi genitori Gilles regala tutti i beni ereditati ai poveri e deciso a vivere una vita eremitica e non desiderando per sé alcuna dignità ecclesiastica, trova rifugio nella foresta “gotica” - terreno di caccia riservato al re dei Visigoti - che occupa il territorio dell’attuale comune di Saint-Gilles-du-Gard, a quel tempo bagnato dal mare.

Più sopra ho citato l’arrivo dei cacciatori e questo ha a che fare con la sua decisione di farsi sacerdote. Nella foresta, Gilles è l’amico degli animali: le cerbiatte gli offrono il loro latte, i cervi si lasciano accarezzare, i cani furiosi si placano di fronte a lui. Storie che Lamartaine metterà in versi nel suo poema Jocelyn, dove la Provvidenza insegna agli eroi
«À ravir le chevreau pendant qu’il tette encore,
Pour que sa mère aussi vienne, au cri de sa faim,
Tendre pour le nourrir sa mamelle à la main.»
Ed è per proteggere la sua cerbiatta prediletta dalle frecce scagliate dai cacciatori del re che Gilles resta ferito. Il re Wamba ritiene che il dono di un terreno sia il giusto compenso per il danno subito, ponendo una condizione: su quella terra vi sia costruita un’abbazia, condizione che obbliga Gilles ad accettare la tonaca di abate.
Intorno al 700 i Saraceni invadono queste lande e distruggono la primitiva abbazia. Provvede Carlo Martello a sconfiggere i mauri e a ricostruire la struttura monastica con una chiesa dedicata a san Pietro e agli apostoli. La dedicazione non è casuale: capita l’antifona, Gilles prende le distanze dalla Chiesa greca di Arles e pone i suoi monaci sotto la doppia protezione del vescovo di Roma e dei sovrani di Francia.
Vissuto a lungo per i suoi tempi, l’Egeo - figlio della capra, mago e grande conoscitore di erbe, muore attorno agli anni 721-725.


Per la città che porta il nome del santo altre date importanti sono:
- 817: il Concilio d’Aix la Chapelle riconosce “il monastero di S. Gilles nella valle flavienna” (Flavien era il nome che si dava il re dei Visigoti).
- Tra il 900 e il 1000: viene redatta la Vie de S. Gilles, testo che ha saputo mantenere il ritmo tipico della tradizione orale (scrivere come si parla).
- 1046: un documento officiale cita le sedi dei quattro grandi pellegrinaggi di quel tempo: “tanto le chiese della beata Maria e di san Pietro a Roma, che di S. Giacomo e di S. Gilles”.
- 1066: Almodis, la madre di Raymond IV affilia Saint-Gilles a Cluny, ma Roma mantiene i privilegi dell’abbazia (cfr.: la bolla d’Innocenzo II del 1132).
- 1116: le tre vecchie chiese sono distrutte e al loro posto sorge l’abbazia attuale, ricca di testimonianze dei tempi vissuti, con ispirazioni celtiche, romane, provenzali, bizantine e talvolta arabe, mentre le sculture del portale evidenziano l’influenza dell’Apocalisse giovanneo, arricchito dalle figure di animali tipici della foresta abitata da Gilles, ma anche (e soprattutto) dei legami esistenti tra i mitologici animali mostruosi che terrorizzavano queste terre, bestie immancabilmente domate dai santi della Chiesa romana.
- 1138 o 1139: Pierre de Bruys, accusato di eresia, viene bruciato vivo sul piazzale antistante la chiesa di Saint-Gilles. A questo crimine - come sempre approvato e impunito - faranno seguito la crociata contro i Catari, le epidemie di peste, le guerre di religione, la Rivoluzione del 1793, che tanti danni arrecheranno alla popolazione e alla struttura artistica.
- 1842: l’abbazia viene classificata monumento storico.
- 1865: Henry Revoil, architetto diocesano, ritrova nella chiesa inferiore la lapide tombale di sant’Egidio. Sebbene gli scarsi reperti ossei indicati come quelli di Gilles siano già dal 1562 a Toulouse, chiesa di Saint Sernin, i pellegrinaggi alla vuota tomba del santo riprendono.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
NOTA: per altre immagini inerenti al tema rinvio a
Il Tempio di Lanleff

 
Timpano nord: l'Epifania, la manifestazione di Cristo

Fregio superiore, lato sinistro

Timpano centrale:
la parusia, il ritorno di Cristo alla fine dei tempi

Fregio superiore, lato destro

Timpano sud: la morte gloriosa di Cristo sulla croce

L'arcangelo Michele

Matteo, Bartolomeo, Tommaso e Giacomo minore

Giovanni e Pietro

Giacomo il maggiore e Paolo

Quattro apostoli non identificati

Donna con vesti d'arcangelo (vestita di sole)

Leone che divora un uomo

Un caprone tiene testa a un leone

Le scimmie legate e il dromedario

Leone che divora un leone

I due sacrifici di Caino e di Abele

Caino uccide Abele

Leoni divoranti

Leoni divoranti, dettaglio

Leoni divoranti, dettaglio

David, il pastore musicista

Centauro che caccia - e un cervo

Chimera o Sansone - a dx un leone (sic!) che allatta

Davide decapita Golia

Orsi portanti

Orsi portanti

Atlanti

Atlanti

Leoni divoranti

Un leone divora un uomo




Mura del lato nord dell'abbaziale

I resti del vecchio coro

La scala a chiocciola

Sarcofagi romani

I resti del vecchio coro