John Dos Passos
La bella
vita
Titolo
originale: An informal memoir
The Best Time
The
New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina
Angioletti
Aldo Palazzi Editore,
Milano 1969
pp. 212-223
[…] In ogni caso, gli
americani negli anni Trenta erano alla moda, in Europa. Dollari, grattacieli,
jazz, tutto ciò che veniva da Oltreatlantico, aveva un che di romantico. La
pittura di Gerald, quando i suoi quadri furono esposti a Parigi, sembrò l’epitome
dello chic di Oltreoceano.
Non passò molto che Gerald
e Sara dovettero prendere una posizione di difesa contro l’assalto della
società bene francese. Infatti essa preferiva i pittori agli uomini di lettere,
tanto pignoli. Léger - che aveva il dono di fare di tutto ciò che vedeva o
gustava o udiva, una sua personale composizione - era il loro preferito, come
del resto era il mio; Sara divenne anche amica di Picasso.
Picasso era un uomo
piccolo, chiuso e bruno. Non aveva nulla dell’estroversione spontanea che fa in
genere, degli spagnoli, gente con cui ci s’incontra facilmente. Era sarcastico,
cinico, stile contadino spagnolo: il cinismo di Sancho Panza. Mi sembrava
impenetrabile perfino nei momenti di distensione e di allegria. Era il maestro
costruttore, il muratore, l’artigiano. Era l’intelligenza incarnata. Gli
mancava l’umanità. I greci lo avrebbero chiamato deinos[1] come
avevano chiamato Ulisse. Non era possibile avvicinare né l’uomo né la sua opera
- l’uomo e l’opera erano inseparabili - senza provare una profonda ammirazione
per i suoi gesti eleganti, per la sagacità delle sue dita, la precisione del
suo colpo d’occhio; se avesse avuto il dono della compassione, sarebbe stato
grande come Michelangelo.
Hemingway si lasciò
sedurre anche lui da un viaggio ad Antibes, ma non ricordo se ci incontrammo;
forse io non ero là in quel momento. So però che non si sentì a suo agio,
nonostante volesse bene a Sara Murphy. I pescatori sembra che non provino
piacere a nuotare. Deve aver giudicato piuttosto idiota farsi arrostire al sole
sulla spiaggia. Per stare bene a Villa America bisognava entrare a far parte
del rituale che era stato inventato da Gerald. Hem era già troppo
uomo-spettacolo per poter prendere parte alla sciarada di un altro.
Hem a quel tempo era una
figura in vetta al Walhalla della Parigi letteraria. Ford Maddox Hueffer tentò
di averlo con sé alla redazione del «Transatlantic Review». Era amico di Pound.
Andava a cena con Joyce. Era stato adottato da Gertrude Stein. Pensava a un
libro per l’editore Querschnitt, di tauromachia, che Picasso avrebbe
illustrato.
Una delle cose che ci
aveva uniti era il nostro entusiasmo per tutto quanto riguarda la Spagna. Molte
delle mie permanenze a Parigi furono in transito da o per la Spagna. Hem e
Hadley s’erano fermati a Vigo, quando avevano accompagnato per la prima volta
Bumby in Europa, e giunsero a Parigi con stupendi ricordi di Compostella, delle
Asturie e dei Paesi Baschi. La mania di Hem per la Spagna giunse al suo culmine
quei giorni torridi di agosto, quando per la prima volta partecipò alla Fiesta
di San Firmino a Pamplona.
Io non ero a Pamplona l’anno
delle prime grandi festività che diedero a Hem l’idea di scrivere Il sole sorge ancora, ma v’ero l’agosto
dopo. Eravamo tutti all’Hotel La Perla.
Tutti guardavamo Hem. V’era
un’inglese titolata, incallita, che fra di noi chiamavamo Duff. Hadley era
ancora sposata con Hem, ma io ebbi l’impressione che le piccole Pfeiffer,
Pauline e Jinny facessero parte del gruppo. V’era un ufficiale dell’esercito
inglese che chiamavamo Chink. V’era Don Stewart: e anche Bill Bird e sua moglie
e un loro giovane amico che si chiamava George O’Neill. V’era anche Robert
McAlmon.
I Bird erano simpatici,
anche se erano degli espatriati, ma McAlmon non riusciva a piacermi. V’era su
di lui un che d’ambiguo; e il fatto che io pensassi di lui che era un
avventuriero mi faceva provare un po’ di vergogna. Può anche darsi che vi fosse
Harold Loeb. E forse v’era altra gente.
Dopo aver letto il
romanzo, non so più bene quali siano gli eventi realmente vissuti che Hem
incluse e quali abbia inventato. Fu come un viaggio organizzato da Cook, con
Hem maestro di cerimonia. Le feste di San Firmino sono qualcosa di
terrificante. Bande, processioni, corride. L’arrivo dei tori, la loro cattura,
le galoppate attraverso le strade. Ogni piazza piena zeppa di agili paesani che
ballano in berretto blu. Da ogni vicolo i ritmi dei pifferi e dei tamburi
baschi, il belato delle cornamuse galiziane o il clangore delle nacchere. Ogni
gruppetto si portava il suo otre di vino. Per quanto ricordo, l’esuberanza però
non superava mai certi limiti. Le buone maniere fra gente che crede nella
dignità umana sono una questione di vita o di morte. Tutti dovevano essere muy
hombres con i tori. Gli si correva incontro, quando venivano condotti all’arena:
si tentava di entrare nel recinto, quando venivano esaminati dagli incaricati;
al momento della capea i tori venivano lasciati al pubblico, che invadeva il
recinto. Erano tori giovani, e non fra i più feroci. Ma quando venivano
circondati da una folla di giovanotti navarrini che li provocavano con i
giubbotti e con i fazzoletti reagivano talvolta con inaudita violenza. Parecchi
giovani furono feriti, senza però che alcuno, quell’anno, fosse ucciso.
Fare mostra della mia
insipienza intorno all’etica taurina, in una pista di tori piena di navarrini
agilissimi ed esperti, non era esattamente ciò che consideravo un pomeriggio
piacevole. Ma Hem voleva essere presente fra gli aficionados. I suoi
compatrioti americani si facevano pure un punto di onore di mostrare il loro
entusiasmo. L’ironia fu che, dopo aver apertamente respinto tutta la faccenda,
mi trovai faccia a faccia con un toro. Aveva appena saltato la barriera e stava
caricando lungo il corridoio sul lato opposto. Ci guardammo negli occhi. Ci
lasciammo perdere. Mi arrampicai rapidamente sul marciapiede del muro di cinta
ed entrai in prima fila fra gli spettatori. Raccontai che andavo cercando un
punto elevato dal quale prendere i miei soliti schizzi.
Ci divertimmo, mangiammo
bene, bevemmo bene, ma nel gruppo v’erano troppi esibizionisti perché la
situazione fosse di mio gusto. La vista di una folla di giovanotti che tentano
di dare prova tangibile di quanto siano hombres mi dava sui nervi. Potevo
divertirmi, di tanto in tanto, a una corrida, prendendola come uno spettacolo,
ma ogni giorno, per una settimana, era troppo.
Per Hem la cosa era
diversa. Egli aveva una enorme possibilità di concentrazione su qualsiasi cosa
lo interessasse nel momento. Fosse la Sei Giorni di bicicletta, o una corrida,
lo sci o la pesca alla trota, si buttava a corpo morto.
Si attaccava come una
sanguisuga fino a che l’esperienza gli fosse entrata tutta nel sangue. Entrava
nella confidenza dei professionisti del luogo e si saturava delle loro
sensazioni, fino al punto di accensione. Eccetto che nel caso di qualche
scienziato, che ho visto perseguire fino all’esaurimento un esperimento difficile,
non ho mai conosciuto alcuno che possedesse una tale facoltà di assorbimento.
Talune delle migliori opere di Hemingway sono nate da questa qualità. Quando ha
descritto il lavoro del matador in Morte
nel pomeriggio sapeva bene ciò di cui parlava.
Gli spagnoli erano
simpatici, io ero fedele a Hem e a Hadley, ma non avrei sopportato la parte
americana di quella folla se non vi fosse stata una certa giovane donna. Stavo
scoprendo la verità del detto di Ben Franklin: «Un uomo e una donna sono come
un paio di forbici; nessuna delle due parti è utile, senza l’altra.» Avevamo
costruito una specie di nicchia privata, dalla quale guardavamo quell’andirivieni,
partecipando agli avvenimenti, senza però subirli. [...]
Durante l’autunno precedente, oppure durante il
seguente, non ricordo bene, Hem mi lesse Torrenti
di primavera. Cominciò un pomeriggio d’autunno, col sole rosso, alla
Closerie de Lilas. Certe parti erano davvero buffe, soprattutto quando
introduce nell’azione del libro l’indiano del Michigan - Hem aveva la mania
degli indiani - ma per altri lati, mi metteva in imbarazzo. Io m’ero a suo
tempo prodigato per convincere Horace Liveright a pubblicare in America In Our Time, e sembrava ora che Hem
volesse ritenermi in parte responsabile di un contratto tutt’altro che
conveniente, che egli firmò, concedendo a Liveright opzione su un certo numero
di opere future.
Scott, che vantava pretese
di talent scout, ed era disinteressatamente generoso con altri scrittori, stava
dandosi da fare come un demonio per convincere Max Perkins a prendere Hemingway
da Scribner.
Scott aveva per Hem una
specie di capriccio letterario: per lui era lo stilista sportivo, il pugile
narratore. Una sera, parlando di Hem, fummo d’accordo nel pronosticargli il
destino di un Byron dei nostri giorni. Scott aveva ragione. L’editore che
andava bene per Hem era Scribner, ma come disfarsi del contratto con Liveright?
Io non ho mai capito bene
che cosa abbia inteso fare Hem col Torrenti
di primavera. Aveva deliberatamente scritto delle cose che Liveright, nella
sua veste di amico e editore di Sherwood Anderson, non avrebbe per nessun
motivo al mondo voluto pubblicare, o questo libro era il risultato dello
scherzo malvagio di un ragazzo senza cuore? Senza dubbio, quando me lo ha letto
a voce alta, ho riso; ma ho fatto del mio meglio per convincerlo a non
pubblicarlo, per lo meno subito. Gli dissi che per reggere come parodia non era
uno scritto sufficientemente buono, e che, d’altra parte, In Our Time era stato un libro tanto maledettamente ben riuscito
che era meglio, per una nuova pubblicazione, aspettare di avere qualcosa di
veramente eccezionale da mettergli a confronto.
Quella sera convenne con
me volentieri che Sherwood Anderson sarebbe stato l’ultimo uomo al mondo di cui
avrebbe voluto urtare la suscettibilità. Sherwood era stato molto gentile con
Hem, quando da ragazzo aveva lavorato a Chicago, e tutti e due sapevamo bene
come egli fosse, perfino infantilmente, sensibile. Ero d’accordo con Hem nel
ritenere Dark Laughter un libro
sentimentale e sciocco, e che era pur necessario che qualcuno glielo facesse
notare, ma ritenevo che quel qualcuno non dovesse essere Hem. Hem aveva un modo
molto indisponente di mettersi d’improvviso, nel bel mezzo della conversazione,
a canterellare. Quando, quella notte, ci separammo, ero convinto di averlo
dissuaso dalla pubblicazione del Torrenti.
Può darsi che questo non fosse affar mio, però in quei giorni gli amici erano
amici. Ma la cosa non andò come io avevo creduto.[2]
Gli ultimi giorni belli che Hem, Hadley ed io
passammo in Europa, furono quelli di Schruns, nel Vorarlberg austriaco. Avevano
scoperto lo sport dello sci l’inverno precedente a Schruns. Gerald e Sara s’unirono
a noi. Tutto costava incredibilmente poco. Eravamo in un grazioso hotel vecchio
stile, con stufe in maiolica, che si chiamava Taube. Mangiavamo «forellen im
blau» e bevevamo kirsch caldo. Il kirsch era tanto abbondante che ce ne davano
per frizionarci, quando rientravamo dalle escursioni sulla neve.
Allora si sciava secondo
la natura dei luoghi. Per le salite ci servivamo delle pelli di foca. La grande
escursione conduceva, attraverso un vasto campo di neve al di sopra della
città, fino alla Madlener Haus. Era una specie di club sciistico, un rifugio,
con fuochi scoppiettanti e cibo caldo. La gente era cortesissima. Tutti ti
dicevano: «Griiss Gott» quando t’incontravano. Sembrava di vivere in una
cartolina di Natale dei vecchi tempi. Hem si era dato allo sci anima e corpo.
Faceva esercizio senza posa. Doveva essere il più abile. Gerald era un tipo di
perfezionista anche lui, ma diverso. Si stabilì fra loro una gara, chi dei due
sarebbe diventato in quattro giorni uno sciatore completo. Erano ben buffi
tutti e due.
Credo di essermi divertito
molto più di tutti, perché, fin dal primo giorno, capii che non ne avrei cavato
niente. Troppo terribilmente maldestro. Soffiando e sudando, con le mie pelli
di foca, salivo in vetta per godermi di lassù il bel panorama. Non faceva
troppo freddo.
Al sole faceva caldo. Le
montagne coperte di neve proiettavano ombre azzurrine e purpuree. Bisognava
essere prudenti perché, nel pomeriggio, si correva rischio di valanghe. Ne vidi
una, sulla nostra pista, mentre scendevamo dalla Madlener Haus e m’impressionò
molto. Salendo mi sentivo bene, ma scendendo dovevo ricorrere a tattiche
personali perché non sono mai riuscito a curvare. Il meglio che potevo fare era
cadere. Quando la discesa era troppo ripida, sedevo sui miei sci e li usavo
come una specie di toboga. Quando, al rientro a Schruns, fu scoperto che il
fondo dei miei pantaloni era consumato fino a essere liso, ne sentii di tutti i
colori. Ai pasti non riuscivamo neppure a mangiare dal gran ridere che si
faceva. In quella settimana passata a Schruns ci prendevamo in giro a vicenda,
tutti. Mangiammo una gran quantità di trote, bevemmo vino e birra e dormimmo
come ghiri sotto i grandi piumini. Eravamo fratelli e sorelle quando ci
lasciammo. Fu un vero choc sapere, qualche mese più tardi, che Ernest e Hadley
s’erano separati. Quando si vuol bene a una coppia si vorrebbe che non si
dividesse mai.
[1] NOTA di GCM: Persona che incute timore.
[2] Per approfondimenti
rinvio al mio post Hemingway a Parigi
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1925 - Hemingway e Hadley a Pamplona |
1928 - Hemingway e Pauline a Pamplona |
1959 - Ordoñez a colloquio con Hemingway |
1925 - Hem, Hadley, Jake Barnes, Brett Ashley, Robert Cohn |
1925 - In Our Time, Liveright |
1926 - In Our Time, Jonathan Cape |
1926 Oct 22 - The Sun Also Rises |
1926 - The Torrents of Spring |
1927 - Fiesta |
1930 - The Sun Also Rises |
1930 - The Sun Also Rises |
1932 - Death in the Afternoon |
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