venerdì 13 maggio 2016

Hemingway e Picasso visti John Dos Passos (2 di 4)

1927 - Hemingway a Gstaad

John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 212-223

[…] In ogni caso, gli americani negli anni Trenta erano alla moda, in Europa. Dollari, grattacieli, jazz, tutto ciò che veniva da Oltreatlantico, aveva un che di romantico. La pittura di Gerald, quando i suoi quadri furono esposti a Parigi, sembrò l’epitome dello chic di Oltreoceano.
Non passò molto che Gerald e Sara dovettero prendere una posizione di difesa contro l’assalto della società bene francese. Infatti essa preferiva i pittori agli uomini di lettere, tanto pignoli. Léger - che aveva il dono di fare di tutto ciò che vedeva o gustava o udiva, una sua personale composizione - era il loro preferito, come del resto era il mio; Sara divenne anche amica di Picasso.
Picasso era un uomo piccolo, chiuso e bruno. Non aveva nulla dell’estroversione spontanea che fa in genere, degli spagnoli, gente con cui ci s’incontra facilmente. Era sarcastico, cinico, stile contadino spagnolo: il cinismo di Sancho Panza. Mi sembrava impenetrabile perfino nei momenti di distensione e di allegria. Era il maestro costruttore, il muratore, l’artigiano. Era l’intelligenza incarnata. Gli mancava l’umanità. I greci lo avrebbero chiamato deinos[1] come avevano chiamato Ulisse. Non era possibile avvicinare né l’uomo né la sua opera - l’uomo e l’opera erano inseparabili - senza provare una profonda ammirazione per i suoi gesti eleganti, per la sagacità delle sue dita, la precisione del suo colpo d’occhio; se avesse avuto il dono della compassione, sarebbe stato grande come Michelangelo.
Hemingway si lasciò sedurre anche lui da un viaggio ad Antibes, ma non ricordo se ci incontrammo; forse io non ero là in quel momento. So però che non si sentì a suo agio, nonostante volesse bene a Sara Murphy. I pescatori sembra che non provino piacere a nuotare. Deve aver giudicato piuttosto idiota farsi arrostire al sole sulla spiaggia. Per stare bene a Villa America bisognava entrare a far parte del rituale che era stato inventato da Gerald. Hem era già troppo uomo-spettacolo per poter prendere parte alla sciarada di un altro.
Hem a quel tempo era una figura in vetta al Walhalla della Parigi letteraria. Ford Maddox Hueffer tentò di averlo con sé alla redazione del «Transatlantic Review». Era amico di Pound. Andava a cena con Joyce. Era stato adottato da Gertrude Stein. Pensava a un libro per l’editore Querschnitt, di tauromachia, che Picasso avrebbe illustrato.
Una delle cose che ci aveva uniti era il nostro entusiasmo per tutto quanto riguarda la Spagna. Molte delle mie permanenze a Parigi furono in transito da o per la Spagna. Hem e Hadley s’erano fermati a Vigo, quando avevano accompagnato per la prima volta Bumby in Europa, e giunsero a Parigi con stupendi ricordi di Compostella, delle Asturie e dei Paesi Baschi. La mania di Hem per la Spagna giunse al suo culmine quei giorni torridi di agosto, quando per la prima volta partecipò alla Fiesta di San Firmino a Pamplona.
Io non ero a Pamplona l’anno delle prime grandi festività che diedero a Hem l’idea di scrivere Il sole sorge ancora, ma v’ero l’agosto dopo. Eravamo tutti all’Hotel La Perla.
Tutti guardavamo Hem. V’era un’inglese titolata, incallita, che fra di noi chiamavamo Duff. Hadley era ancora sposata con Hem, ma io ebbi l’impressione che le piccole Pfeiffer, Pauline e Jinny facessero parte del gruppo. V’era un ufficiale dell’esercito inglese che chiamavamo Chink. V’era Don Stewart: e anche Bill Bird e sua moglie e un loro giovane amico che si chiamava George O’Neill. V’era anche Robert McAlmon.
I Bird erano simpatici, anche se erano degli espatriati, ma McAlmon non riusciva a piacermi. V’era su di lui un che d’ambiguo; e il fatto che io pensassi di lui che era un avventuriero mi faceva provare un po’ di vergogna. Può anche darsi che vi fosse Harold Loeb. E forse v’era altra gente.
Dopo aver letto il romanzo, non so più bene quali siano gli eventi realmente vissuti che Hem incluse e quali abbia inventato. Fu come un viaggio organizzato da Cook, con Hem maestro di cerimonia. Le feste di San Firmino sono qualcosa di terrificante. Bande, processioni, corride. L’arrivo dei tori, la loro cattura, le galoppate attraverso le strade. Ogni piazza piena zeppa di agili paesani che ballano in berretto blu. Da ogni vicolo i ritmi dei pifferi e dei tamburi baschi, il belato delle cornamuse galiziane o il clangore delle nacchere. Ogni gruppetto si portava il suo otre di vino. Per quanto ricordo, l’esuberanza però non superava mai certi limiti. Le buone maniere fra gente che crede nella dignità umana sono una questione di vita o di morte. Tutti dovevano essere muy hombres con i tori. Gli si correva incontro, quando venivano condotti all’arena: si tentava di entrare nel recinto, quando venivano esaminati dagli incaricati; al momento della capea i tori venivano lasciati al pubblico, che invadeva il recinto. Erano tori giovani, e non fra i più feroci. Ma quando venivano circondati da una folla di giovanotti navarrini che li provocavano con i giubbotti e con i fazzoletti reagivano talvolta con inaudita violenza. Parecchi giovani furono feriti, senza però che alcuno, quell’anno, fosse ucciso.
Fare mostra della mia insipienza intorno all’etica taurina, in una pista di tori piena di navarrini agilissimi ed esperti, non era esattamente ciò che consideravo un pomeriggio piacevole. Ma Hem voleva essere presente fra gli aficionados. I suoi compatrioti americani si facevano pure un punto di onore di mostrare il loro entusiasmo. L’ironia fu che, dopo aver apertamente respinto tutta la faccenda, mi trovai faccia a faccia con un toro. Aveva appena saltato la barriera e stava caricando lungo il corridoio sul lato opposto. Ci guardammo negli occhi. Ci lasciammo perdere. Mi arrampicai rapidamente sul marciapiede del muro di cinta ed entrai in prima fila fra gli spettatori. Raccontai che andavo cercando un punto elevato dal quale prendere i miei soliti schizzi.
Ci divertimmo, mangiammo bene, bevemmo bene, ma nel gruppo v’erano troppi esibizionisti perché la situazione fosse di mio gusto. La vista di una folla di giovanotti che tentano di dare prova tangibile di quanto siano hombres mi dava sui nervi. Potevo divertirmi, di tanto in tanto, a una corrida, prendendola come uno spettacolo, ma ogni giorno, per una settimana, era troppo.
Per Hem la cosa era diversa. Egli aveva una enorme possibilità di concentrazione su qualsiasi cosa lo interessasse nel momento. Fosse la Sei Giorni di bicicletta, o una corrida, lo sci o la pesca alla trota, si buttava a corpo morto.
Si attaccava come una sanguisuga fino a che l’esperienza gli fosse entrata tutta nel sangue. Entrava nella confidenza dei professionisti del luogo e si saturava delle loro sensazioni, fino al punto di accensione. Eccetto che nel caso di qualche scienziato, che ho visto perseguire fino all’esaurimento un esperimento difficile, non ho mai conosciuto alcuno che possedesse una tale facoltà di assorbimento. Talune delle migliori opere di Hemingway sono nate da questa qualità. Quando ha descritto il lavoro del matador in Morte nel pomeriggio sapeva bene ciò di cui parlava.
Gli spagnoli erano simpatici, io ero fedele a Hem e a Hadley, ma non avrei sopportato la parte americana di quella folla se non vi fosse stata una certa giovane donna. Stavo scoprendo la verità del detto di Ben Franklin: «Un uomo e una donna sono come un paio di forbici; nessuna delle due parti è utile, senza l’altra.» Avevamo costruito una specie di nicchia privata, dalla quale guardavamo quell’andirivieni, partecipando agli avvenimenti, senza però subirli. [...]

Durante l’autunno precedente, oppure durante il seguente, non ricordo bene, Hem mi lesse Torrenti di primavera. Cominciò un pomeriggio d’autunno, col sole rosso, alla Closerie de Lilas. Certe parti erano davvero buffe, soprattutto quando introduce nell’azione del libro l’indiano del Michigan - Hem aveva la mania degli indiani - ma per altri lati, mi metteva in imbarazzo. Io m’ero a suo tempo prodigato per convincere Horace Liveright a pubblicare in America In Our Time, e sembrava ora che Hem volesse ritenermi in parte responsabile di un contratto tutt’altro che conveniente, che egli firmò, concedendo a Liveright opzione su un certo numero di opere future.
Scott, che vantava pretese di talent scout, ed era disinteressatamente generoso con altri scrittori, stava dandosi da fare come un demonio per convincere Max Perkins a prendere Hemingway da Scribner.
Scott aveva per Hem una specie di capriccio letterario: per lui era lo stilista sportivo, il pugile narratore. Una sera, parlando di Hem, fummo d’accordo nel pronosticargli il destino di un Byron dei nostri giorni. Scott aveva ragione. L’editore che andava bene per Hem era Scribner, ma come disfarsi del contratto con Liveright?
Io non ho mai capito bene che cosa abbia inteso fare Hem col Torrenti di primavera. Aveva deliberatamente scritto delle cose che Liveright, nella sua veste di amico e editore di Sherwood Anderson, non avrebbe per nessun motivo al mondo voluto pubblicare, o questo libro era il risultato dello scherzo malvagio di un ragazzo senza cuore? Senza dubbio, quando me lo ha letto a voce alta, ho riso; ma ho fatto del mio meglio per convincerlo a non pubblicarlo, per lo meno subito. Gli dissi che per reggere come parodia non era uno scritto sufficientemente buono, e che, d’altra parte, In Our Time era stato un libro tanto maledettamente ben riuscito che era meglio, per una nuova pubblicazione, aspettare di avere qualcosa di veramente eccezionale da mettergli a confronto.
Quella sera convenne con me volentieri che Sherwood Anderson sarebbe stato l’ultimo uomo al mondo di cui avrebbe voluto urtare la suscettibilità. Sherwood era stato molto gentile con Hem, quando da ragazzo aveva lavorato a Chicago, e tutti e due sapevamo bene come egli fosse, perfino infantilmente, sensibile. Ero d’accordo con Hem nel ritenere Dark Laughter un libro sentimentale e sciocco, e che era pur necessario che qualcuno glielo facesse notare, ma ritenevo che quel qualcuno non dovesse essere Hem. Hem aveva un modo molto indisponente di mettersi d’improvviso, nel bel mezzo della conversazione, a canterellare. Quando, quella notte, ci separammo, ero convinto di averlo dissuaso dalla pubblicazione del Torrenti. Può darsi che questo non fosse affar mio, però in quei giorni gli amici erano amici. Ma la cosa non andò come io avevo creduto.[2]

Gli ultimi giorni belli che Hem, Hadley ed io passammo in Europa, furono quelli di Schruns, nel Vorarlberg austriaco. Avevano scoperto lo sport dello sci l’inverno precedente a Schruns. Gerald e Sara s’unirono a noi. Tutto costava incredibilmente poco. Eravamo in un grazioso hotel vecchio stile, con stufe in maiolica, che si chiamava Taube. Mangiavamo «forellen im blau» e bevevamo kirsch caldo. Il kirsch era tanto abbondante che ce ne davano per frizionarci, quando rientravamo dalle escursioni sulla neve.
Allora si sciava secondo la natura dei luoghi. Per le salite ci servivamo delle pelli di foca. La grande escursione conduceva, attraverso un vasto campo di neve al di sopra della città, fino alla Madlener Haus. Era una specie di club sciistico, un rifugio, con fuochi scoppiettanti e cibo caldo. La gente era cortesissima. Tutti ti dicevano: «Griiss Gott» quando t’incontravano. Sembrava di vivere in una cartolina di Natale dei vecchi tempi. Hem si era dato allo sci anima e corpo. Faceva esercizio senza posa. Doveva essere il più abile. Gerald era un tipo di perfezionista anche lui, ma diverso. Si stabilì fra loro una gara, chi dei due sarebbe diventato in quattro giorni uno sciatore completo. Erano ben buffi tutti e due.
Credo di essermi divertito molto più di tutti, perché, fin dal primo giorno, capii che non ne avrei cavato niente. Troppo terribilmente maldestro. Soffiando e sudando, con le mie pelli di foca, salivo in vetta per godermi di lassù il bel panorama. Non faceva troppo freddo.
Al sole faceva caldo. Le montagne coperte di neve proiettavano ombre azzurrine e purpuree. Bisognava essere prudenti perché, nel pomeriggio, si correva rischio di valanghe. Ne vidi una, sulla nostra pista, mentre scendevamo dalla Madlener Haus e m’impressionò molto. Salendo mi sentivo bene, ma scendendo dovevo ricorrere a tattiche personali perché non sono mai riuscito a curvare. Il meglio che potevo fare era cadere. Quando la discesa era troppo ripida, sedevo sui miei sci e li usavo come una specie di toboga. Quando, al rientro a Schruns, fu scoperto che il fondo dei miei pantaloni era consumato fino a essere liso, ne sentii di tutti i colori. Ai pasti non riuscivamo neppure a mangiare dal gran ridere che si faceva. In quella settimana passata a Schruns ci prendevamo in giro a vicenda, tutti. Mangiammo una gran quantità di trote, bevemmo vino e birra e dormimmo come ghiri sotto i grandi piumini. Eravamo fratelli e sorelle quando ci lasciammo. Fu un vero choc sapere, qualche mese più tardi, che Ernest e Hadley s’erano separati. Quando si vuol bene a una coppia si vorrebbe che non si dividesse mai.




[1] NOTA di GCM: Persona che incute timore.
[2] Per approfondimenti rinvio al mio post Hemingway a Parigi



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