John Dos Passos
La bella
vita
Titolo
originale: An informal memoir
The Best Time
The
New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina
Angioletti
Aldo Palazzi Editore,
Milano 1969
pp. 196-205
[…] Non ricordo come ci siamo
incontrati. Nonostante le sue preoccupazioni riguardo alla posizione sociale,
Don riusciva a sembrare buffo qualsiasi cosa facesse. Noi ridevamo come matti
tutte le volte che ci si vedeva.
La
mia mancanza di orientamenti di carattere sociale gli sembrava deplorevole. Era
deciso a farmi incontrare la gente giusta. Nonostante tutto gli sarò
eternamente grato di avermi presentato a Gerald e Sara Murphy.
Deve
essere avvenuto a Parigi. Avevo già perduto un bel po’ del mio appetito per la
Ville Lumière, anche se amavo i concerti, i musei e il tè agli Championnière,
rue de Clichy. Nella primavera del 1922 già scrivevo ad Arthur McComb che
conoscevo Parigi troppo bene. «I ricordi mi fanno le boccacce da tutti gli
angoli. Non mi rammento se si tratta di quest’anno o dell’anno precedente. Si
può a mala pena sopportare il presente, ma incontrare a ogni passo il passato
col suo eterno specchio infernale è insopportabile . . . una cosa che detesto.»
L’incontro
con Don Stewart a Parigi significò vedere la città in una nuova fantasiosa
visuale tipo commedia di Madison Avenue: Mr.
and Mrs. Haddock Abroad. Quando mi condusse dai Murphy mi diede l’opportunità
di conoscere qualcosa di ben diverso dalla mischia dei letterati espatriati che
gravitava intorno a Montparnasse, dei quali già avevo orrore.
Naturalmente Hemingway
costituiva un’eccezione, così come Cummings. In quel tale universo privato che
stavo confezionando a mio uso, la gente di lettere in genere, in particolare il
Greenwich Village e gli esuli di Parigi, stavano fra le categorie scomunicate.
Il
loro atteggiamento verso la vita mi dava la nausea. Ma dal momento nel quale
cominciavo a stringere amicizia con uno o con una di loro, immediatamente
costui o costei diventava l’eccezione unica e intoccabile.
Don,
Ernest ed io avevamo già cominciato a frequentarci con regolarità nel periodo
nel quale conobbi i Murphy; credo comunque che Ernest ed io ci siamo conosciuti
l’anno nel quale è stato pubblicato l’Ulisse,[1]
mentre era a Parigi per il «Toronto Star».[2]
Ricordo
vagamente una colazione con lui e con Hadley al Lippe, (sic!) prima che nascesse Bumby; Ernest parlava splendidamente di
una qualche conferenza internazionale alla quale aveva recentemente partecipato.[3]
Quando era giovane, possedeva un acume tale per le cose politiche che non
incontrai mai più qualcuno che lo uguagliasse. La sua conoscenza del linguaggio
delle palestre di boxe e dei posti di polizia, che aveva acquisito a Kansas
City e a Toronto, gli aveva fornito quel mezzo di comunicare diretto il quale
dava alle sue storie il tono della verità. Tutto era messo a fuoco con estremo
nitore. Io trovavo molto stimolanti i suoi giudizi aspri su Clemenceau, su
Lloyd George e su Litvinov. Ci trovavamo perfettamente d’accordo nell’avere per
Liebknecht e per Rosa Luxemburg una specie di culto geloso. Deve avermi mostrato
un breve pezzo,[4] che in seguito incluse in Our Time,[5]
perché ricordo di averlo fin da quel momento giudicato scrittore dotato in alto
grado del possesso della lingua inglese.
Comunque,
in qualsiasi circostanza di tempo sia avvenuto questo nostro incontro, ne
parlammo parecchio insieme, nel tentativo di ricostruirne gli estremi,
riandando nella memoria a un tempo nel quale nessuno di noi due aveva neppure
la minima idea che sarebbe divenuto in seguito ciò che, nonostante le nostre
ironie, il povero Sherwood Anderson qualificava «personaggio mondiale». Un
primo incontro fra noi può darsi fosse già avvenuto, a Schio, nel maggio 1918,
quando Ernest era appena arrivato in Italia con la 4a Sezione
Ambulanze della Croce Rossa, ed io stavo per lasciare la 1a Sezione
di Bassano in un mare di guai. Fairbanks ed io avevamo spesso il compito di
portare i feriti a una base ospedaliera vicino a Schio e il nostro incontro con
la 4a Sezione può essere avvenuto appunto in uno di questi viaggi.
Ernest ed io ci ricordavamo vagamente l’uno dell’altro.
Fu
soltanto nel 1924, quando Hem, come eravamo in molti a chiamarlo, e Hadley
vivevano nella segheria della rue Notre-Dame-des-Champs,[6] che
iniziò fra noi due quel gioco reciproco di convivenza che si protrasse nelle
nostre vite. Hadley mi fu simpatica fin dal primo incontro. Era nato Bumby.[7] Era
stato durante una delle mie corse a Parigi da un treno all’altro.
Con
Hem m’incontravo di tempo in tempo alla Closerie des Lilas all’angolo di
Saint-Michel con Montparnasse a bere delle bibite innocue come vermouth-cassis
mentre si parlava delle difficoltà di metter sulla carta i propri pensieri;
tutti e due stavamo leggendo il Vecchio
Testamento. Ci leggevamo dei brani a vicenda. I nostri passi preferiti
erano il canto di Deborah, il Libro delle
Cronache e il Libro dei Re.[8]
Era
uscito In Our Time ed io lo sostenevo
a spada tratta. Appoggiavo le mie asserzioni sulla constatazione che Hem, con i
suoi acuti, brevi periodi, secondo il linguaggio telegrafico o alla King James Bible, sarebbe diventato il
più grande stilista della lingua americana.
Doveva
essere primavera, perché eravamo seduti in un piccolo giardino triangolare fra
i due boulevards e ricordo che mi aveva divertito il fatto che, a dispetto del
nome, un vero giglio fioriva nella Closerie.
Poi
siamo tornati, attraverso la folla delle cinque, alla segheria, per aiutare
Hadley a fare il bagno a Bumby. Bumby era un bambino grasso, pieno di salute,
affabile, e si divertiva di tutto. Lo si metteva a letto e dopo lo lasciavamo
alle cure di una piacente, vivace contadina francese che veniva alla segheria a
questo scopo, e noi tre uscivamo per cena. Aiutare a mettere a letto i figli degli
amici prima di uscire per la cena era diventato uno degli aspetti piacevoli
della società dei giovani in America; io mi ci sono sempre divertito. Gli
uomini, quando hanno accanto una donna, diventano meno egoisti. Allo stesso
modo, sia i giovani uomini che le giovani donne, quando hanno da prendere cura
dei loro marmocchi, finiscono per essere più autentici, meno sussiegosi.
Fin
dal principio Hem fu sempre terribilmente predisposto agli incidenti. Non ho
mai conosciuto un uomo che abbia provocato tanti danni quanto lui alla propria
carcassa. È di questo periodo l’episodio del lucernario dell’abbaino esterno al
suo appartamento, che gli cadde in testa e gli provocò un trauma cranico e un
taglio nel cuoio capelluto per cui fu necessario un ricovero in ospedale di
alcune settimane.[9] La cicatrice gli rimase
per tutta la vita.
Quando
non c’era l’incidente, c’era il mal di gola. Era come uno di quegli atleti
professionisti i quali, nonostante siano forti come tori, hanno sempre
qualcosa. Mi sono costantemente difeso dal battermi alla boxe con Hem; il fatto
che io porto gli occhiali ha offerto una buona scusa al mio desiderio di non
competere con lui in questo settore.
Io
non sapevo neppure andare in bicicletta. Hem andava matto per le corse in
bicicletta. S’infilava in un maglione a righe come quello dei corridori del
Tour de France e pedalava lungo tutti i boulevards esterni con le ginocchia all’altezza
delle orecchie e il mento fra i manubri. Io trovavo tutto ciò un po’ sciocco,
ma a quel tempo Hem aveva il gusto di certe bambinate.
Aveva
una sfumatura di spirito, evangelica, che lo spingeva a cercar di convertire i
suoi amici a tutte le sue varie manie. Seguirlo alle Sei Giorni è stato per me
un divertimento; la Sei Giorni al Vélo d’Hiver era una buffa storia. Gli eventi
sportivi in Francia, per il loro aspetto piuttosto comico, mi divertivano
molto. Facevamo la spesa in botteghine e spacci di una di quelle stradette dove
ci sono i mercati che piacevano tanto a tutti e due: vino, formaggio,
pagnottelle croccanti, pâté e qualche volta pollo freddo; ci sedevamo in galleria; Hem
conosceva tutti i dati tecnici, e vita morte miracoli dei corridori. Il suo entusiasmo
era contagioso, ma tendeva a fare della cosa un affare serio, mentre per
divertirmi, a me bastava bere, mangiare e guardare.
Di
tanto in tanto gli veniva in mente che noi due, nella nostra qualità di
scrittori di fama internazionale, eravamo rivali; allora diventava silenzioso;
oppure capitò anche che mi imponesse freddamente di non scrivere mai niente
sulle corse di bicicletta; questa era zona sua. Lo rassicuravo che scrivere di
sport non era il mio genere, e che d’altronde Paul Morand aveva già preceduto
tutti in La Nuit des Six Jours.[10]
Poteva
anche darsi che fosse proprio perché avevo letto Paul Morand che lo spettacolo
mi divertiva. Come Hem, anch’io mi sforzavo di cogliere gli eventi e di
portarli direttamente sulla pagina; però continuavo ad avere il dubbio che
fosse la vita a copiare l’arte, e non viceversa. Hem forzava la povera Hadley a
restare seduta là tutta la notte, ma io, quando mi veniva sonno, me la battevo
e andavo a dormire a casa mia. Fin d’allora era duro con le sue donne. Eppure sono
convinto che sia stato più un costruttore che un distruttore. Quando le
lasciava, erano più agguerrite per la vita di quanto non fossero quando le
aveva incontrate. Senza dubbio, nei giorni della giovinezza, la versatilità del
suo carattere, il suo temperamento estroso avevano sugli altri, che gli
capitassero intorno, un effetto stimolante. Nel periodo della nostra amicizia,
mi permise un confronto con la vita sportiva che, senza di lui, non avrei mai
potuto sperimentare.
Fin
d’allora era irritabile. Provava pietà per se stesso. Una delle sue angosce era
il non avere avuto una educazione da College. Io gli dicevo che invece questa
era una grande fortuna. Che pensasse a tutta la fatica in meno che aveva dovuto
fare per dimenticare la cultura della scuola. Gli dicevo, supponiamo che tu
fossi andato a Yale e che avessi inciampato nella Skull and Bones come Don
Stewart. Rideva e ammetteva che sarebbe stata una rovina.
Hem
aveva una vista eccezionalmente buona. La fredda mira del cacciatore. Mi
sembrava, in quei giorni, che vedesse cose e persone senza il colore che loro
donano i sentimenti o la teoria. Tutto viveva per lui entro una fredda chiara
luce bianca, la stessa luce che pervade i suoi migliori racconti. A Clean Well Lighted Place,[11] per
esempio.
Aveva
la medesima vista acuta riguardo alla pittura. Può darsi che Gertrude Stein,
che era tutt’altro che ignorante anche in questo settore della cultura, lo
avesse aiutato a sviluppare questa acutezza.
Riconosceva
a vista l’eccellenza del colore e del disegno. La Scuola di Parigi era già fin
d’allora abbastanza piena di mestieranti da dare la nausea, ma Hem non si
lasciava mai ingannare. Si trattasse di politica o di letteratura o di pittura,
metteva a punto la situazione con una sola parola di quattro lettere.
Ricordo
perfettamente quando comperò The Farm
di Mirò[12] -
credo sia stato l’ultimo quadro oggettivo che Mirò abbia dipinto - perché ho
dovuto correre da tutte le parti per mettere insieme i soldi. Ci si prestava
continuamente danaro a vicenda. Aveva saputo che poteva portarselo via per
duemila o forse per tremila franchi (una cifra terribilmente piccola in dollari,
al cambio allora corrente) e aveva la febbre al pensiero che qualcuno glielo
soffiasse. Si portò a casa, alla segheria, il quadro, trionfante. Resta uno dei
più bei quadri di Mirò.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Harold
Stearns ci passava le informazioni. Harold era un tipo straordinario. Dopo
essersi fatto una reputazione come giornalista nel «The New Republic» e in
altri giornali liberali e dopo aver pubblicato uno dei primi saggi di maggior
successo sulla civiltà americana, era venuto a Parigi.
A
Parigi aveva smesso di scrivere e aveva lasciato andare tutto. Perfino il
piacere del bere e delle donne sembrava si fosse in lui attenuato. Manteneva un
certo fascino. Restava un parlatore piacevole. Tirava avanti, pateticamente, la
vita, frequentando i bar e raggranellando i quattro soldi che gli servivano
vendendo informazioni sui cavalli ai turisti americani che avvicinava nei vari
caffeucci dove era di famiglia.
C’era
una corsa ad ostacoli in uno degli ippodromi che si annunciava molto
elettrizzante, e Harold ci aveva indicato un cavallino che doveva essere un
campione eccezionale; la valutazione al totalizzatore era bassa, trenta a uno,
o qualcosa di simile. Agli amici non faceva mai pagare le informazioni, e questa
volta giurava su tutto che avremmo sbancato.
Hem
ed io riuscimmo a mettere insieme qualche centinaio di franchi e ci avviammo
verso l’ippodromo. Harold aveva combinato con un ragazzo di scuderia che ci
fosse permesso di dare un’occhiata in privato al cavallo. Era un piccolo baio
scuro, piuttosto nervoso. Il fantino ci confidò che puntava su lui tutte le sue
risorse. Sbirciammo il cavallo, accarezzammo il suo naso, ci prodigammo in
francese e in inglese nel dire un bel po’ di sciocchezze di carattere tecnico.
Al totalizzatore il nostro morale era al massimo: facevamo già progetti sul
come spendere la vincita, una parte della quale per un pantagruelico pranzo al
Foyot.
Il
cavallo era senza dubbio un buon saltatore, ma alla rivière mancò, disarcionò
il fantino e partì come una palla di fucile nella direzione sbagliata. Prima
che lo potessero riprendere saltò un certo numero di ostacoli a ritroso. La
corsa fu un disastro. Noi si moriva quasi dal ridere. Per conto mio, ritornato
a Parigi ero più che mai convinto che il gioco è una pazzia. Incontrandoci di
nuovo all’Henry’s Bar, Harold fece finta di non vederci.
Nessuno
di noi due poteva permettersi di perdere una simile somma, eppure tutti e due
non riuscivamo a far altro che ridere. Hem aveva appena rinunciato al suo
incarico di corrispondente o stava per farlo. Campare con la sola attività di
scrittore significava certo andare incontro a tempi duri. L’edizione dell’Our Time che Robert McAlmon aveva fatto
uscire a Digione, gli aveva procurato successo nei circoli recherchés ma
neppure un soldo. La sua unica sorgente di mezzi era lo scrivere poesiole
spinte per una rivista tedesca, il «Der Querschnitt»; non è difficile cogliere
il lato scherzoso del nome.
NOTE
di Giancarlo Mauri
[1] Ulysses ¦ by ¦ James Joyce ¦ Shakespeare
and Company ¦ 12, Rue de
l’Odéon, 12 ¦ Paris ¦ 1922. Sul
frontespizio si legge: Printed for Sylvia Beach by Mauruce Darantiere at Dijon,
France. - Dal 9 gennaio 1922 Ernest e Hadley abitano al 74 di rue du Cardinal
Lemoine, terzo piano.
[2] L’8 gennaio
1920 Ernest prende il treno per Toronto e si stabilisce a casa Connable - 153
di Lyndhurst Avenue - e dopo neppure una settimana chiede a Mr Connable di
trovargli un posto nel principale quotidiano dell’Ontario, il Toronto Star, che pubblica un’edizione
quotidiana e una settimanale. Connable lo presenta a Arthur Donaldson, capo
dell’ufficio pubblicità di entrambi i giornali, che lo porta alla sede di 20
King Street West e lo presenta a due redattori. Dopo aver dichiarato di aver
lavorato al Kansas City Star, un
modello per i giornalisti del tempo, gli propongono un lavoro pagato a righe
per la prima edizione del settimanale. Il 27 dicembre 1923 EH si licenzia dal The Toronto
Star Weekly.
[3] Si veda l’articolo
intitolato Picked Sharpshooters Patrol
Genoa Streets di Hemingway, uscito sul The
Toronto Star Weekly del 13 aprile
1922 (Cfr.: La Conferenza di Genova, in
By-line, pp 35-37).
[4] The Little
Review “Exiles’ Number”, n. 9.3, Spring 1923, è interamente dedicato agli scritti di
Statunitensi “attualmente in esilio in Europa” (sic!). Hemingway vi compare con alcuni brevi racconti, poi inseriti in our
time.
[5] Con tiratura
di 170 copie, in our time - tutte
lettere minuscole - esce nel 1924 per conto della Three Mountains Press, Paris.
Le Tre Montagne che danno il nome alla Casa editrice sono Montmarte, Mont
Sainte-Genevieve e Montparnasse.
[6] Il 10
febbraio 1924 Hemingway scrive ad Ezra Pound d’aver trovato un appartamento semi
ammobiliato sopra una segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs. Ezra Pound
abita non molto lontano, al 70bis. Si tratta della segheria di Pierre Chautard,
il padrone di casa e l’appartamento degli Hemingway è al piano superiore. Lo
lasciano agli inizi del 1926, quando partono per Schruns (al rientro, gli
Hemingway alloggiano all’Hotel Vénétia, Boulevard de Montparnasse).
[7] Il
10 ottobre 1923 a Toronto nasce John Hadley Nicanor detto Bumby: Hadley come la
madre e Nicanor in onore al torero Villalta.
[8] Hemingway ricercava tra
le pagine della Bibbia i titoli da dare ai suoi racconti: un’ottima operazione
di marketing, visto che si rivolgeva per lo più ad un pubblico anglo-americano.
[9] Qui Dos
Passos sbaglia: il 10 maggio 1927, con rito cattolico nella chiesa di Passy, Hem
sposa la 32enne (4 anni più di lui) Pauline Pfeiffer e i due vanno ad abitare
al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice. È in questa casa che
nel marzo 1928 avviene l’incidente del lucernario caduto in testa a Hemingway,
danno riparato con sette punti di sutura.
[10] Storia
inserita nella raccolta Ouvert la nuit,
pubblicata da Gallimard nel 1922.
[11] Un posto pulito, ben illuminato,
pubblicato la prima volta nel 1933 da Scribner’s
Magazine.
[12] La fattoria, olio su tela, 1921-1922,
oggi conservato nella National Gallery of Art di Washington che lo ha ricevuto
in donazione da Mary Welsh, l’ultima moglie di Hemingway.
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE
Hemingway a Parigi
Lo sciacquone di Hemingway
Hemingway e Picasso visti da Dos Passos
Hemingway visto da John Dos Passos (4)
Lo sciacquone di Hemingway
Hemingway e Picasso visti da Dos Passos
Hemingway visto da John Dos Passos (4)
Nessun commento:
Posta un commento