mercoledì 11 maggio 2016

Hemingway visto da John Dos Passos (1 di 4)


John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 196-205

[…] Non ricordo come ci siamo incontrati. Nonostante le sue preoccupazioni riguardo alla posizione sociale, Don riusciva a sembrare buffo qualsiasi cosa facesse. Noi ridevamo come matti tutte le volte che ci si vedeva.
La mia mancanza di orientamenti di carattere sociale gli sembrava deplorevole. Era deciso a farmi incontrare la gente giusta. Nonostante tutto gli sarò eternamente grato di avermi presentato a Gerald e Sara Murphy.
Deve essere avvenuto a Parigi. Avevo già perduto un bel po’ del mio appetito per la Ville Lumière, anche se amavo i concerti, i musei e il tè agli Championnière, rue de Clichy. Nella primavera del 1922 già scrivevo ad Arthur McComb che conoscevo Parigi troppo bene. «I ricordi mi fanno le boccacce da tutti gli angoli. Non mi rammento se si tratta di quest’anno o dell’anno precedente. Si può a mala pena sopportare il presente, ma incontrare a ogni passo il passato col suo eterno specchio infernale è insopportabile . . . una cosa che detesto.»
L’incontro con Don Stewart a Parigi significò vedere la città in una nuova fantasiosa visuale tipo commedia di Madison Avenue: Mr. and Mrs. Haddock Abroad. Quando mi condusse dai Murphy mi diede l’opportunità di conoscere qualcosa di ben diverso dalla mischia dei letterati espatriati che gravitava intorno a Montparnasse, dei quali già avevo orrore.

Naturalmente Hemingway costituiva un’eccezione, così come Cummings. In quel tale universo privato che stavo confezionando a mio uso, la gente di lettere in genere, in particolare il Greenwich Village e gli esuli di Parigi, stavano fra le categorie scomunicate.
Il loro atteggiamento verso la vita mi dava la nausea. Ma dal momento nel quale cominciavo a stringere amicizia con uno o con una di loro, immediatamente costui o costei diventava l’eccezione unica e intoccabile.
Don, Ernest ed io avevamo già cominciato a frequentarci con regolarità nel periodo nel quale conobbi i Murphy; credo comunque che Ernest ed io ci siamo conosciuti l’anno nel quale è stato pubblicato l’Ulisse,[1] mentre era a Parigi per il «Toronto Star».[2]
Ricordo vagamente una colazione con lui e con Hadley al Lippe, (sic!) prima che nascesse Bumby; Ernest parlava splendidamente di una qualche conferenza internazionale alla quale aveva recentemente partecipato.[3] Quando era giovane, possedeva un acume tale per le cose politiche che non incontrai mai più qualcuno che lo uguagliasse. La sua conoscenza del linguaggio delle palestre di boxe e dei posti di polizia, che aveva acquisito a Kansas City e a Toronto, gli aveva fornito quel mezzo di comunicare diretto il quale dava alle sue storie il tono della verità. Tutto era messo a fuoco con estremo nitore. Io trovavo molto stimolanti i suoi giudizi aspri su Clemenceau, su Lloyd George e su Litvinov. Ci trovavamo perfettamente d’accordo nell’avere per Liebknecht e per Rosa Luxemburg una specie di culto geloso. Deve avermi mostrato un breve pezzo,[4] che in seguito incluse in Our Time,[5] perché ricordo di averlo fin da quel momento giudicato scrittore dotato in alto grado del possesso della lingua inglese.
Comunque, in qualsiasi circostanza di tempo sia avvenuto questo nostro incontro, ne parlammo parecchio insieme, nel tentativo di ricostruirne gli estremi, riandando nella memoria a un tempo nel quale nessuno di noi due aveva neppure la minima idea che sarebbe divenuto in seguito ciò che, nonostante le nostre ironie, il povero Sherwood Anderson qualificava «personaggio mondiale». Un primo incontro fra noi può darsi fosse già avvenuto, a Schio, nel maggio 1918, quando Ernest era appena arrivato in Italia con la 4a Sezione Ambulanze della Croce Rossa, ed io stavo per lasciare la 1a Sezione di Bassano in un mare di guai. Fairbanks ed io avevamo spesso il compito di portare i feriti a una base ospedaliera vicino a Schio e il nostro incontro con la 4a Sezione può essere avvenuto appunto in uno di questi viaggi. Ernest ed io ci ricordavamo vagamente l’uno dell’altro.
Fu soltanto nel 1924, quando Hem, come eravamo in molti a chiamarlo, e Hadley vivevano nella segheria della rue Notre-Dame-des-Champs,[6] che iniziò fra noi due quel gioco reciproco di convivenza che si protrasse nelle nostre vite. Hadley mi fu simpatica fin dal primo incontro. Era nato Bumby.[7] Era stato durante una delle mie corse a Parigi da un treno all’altro.
Con Hem m’incontravo di tempo in tempo alla Closerie des Lilas all’angolo di Saint-Michel con Montparnasse a bere delle bibite innocue come vermouth-cassis mentre si parlava delle difficoltà di metter sulla carta i propri pensieri; tutti e due stavamo leggendo il Vecchio Testamento. Ci leggevamo dei brani a vicenda. I nostri passi preferiti erano il canto di Deborah, il Libro delle Cronache e il Libro dei Re.[8]
Era uscito In Our Time ed io lo sostenevo a spada tratta. Appoggiavo le mie asserzioni sulla constatazione che Hem, con i suoi acuti, brevi periodi, secondo il linguaggio telegrafico o alla King James Bible, sarebbe diventato il più grande stilista della lingua americana.
Doveva essere primavera, perché eravamo seduti in un piccolo giardino triangolare fra i due boulevards e ricordo che mi aveva divertito il fatto che, a dispetto del nome, un vero giglio fioriva nella Closerie.
Poi siamo tornati, attraverso la folla delle cinque, alla segheria, per aiutare Hadley a fare il bagno a Bumby. Bumby era un bambino grasso, pieno di salute, affabile, e si divertiva di tutto. Lo si metteva a letto e dopo lo lasciavamo alle cure di una piacente, vivace contadina francese che veniva alla segheria a questo scopo, e noi tre uscivamo per cena. Aiutare a mettere a letto i figli degli amici prima di uscire per la cena era diventato uno degli aspetti piacevoli della società dei giovani in America; io mi ci sono sempre divertito. Gli uomini, quando hanno accanto una donna, diventano meno egoisti. Allo stesso modo, sia i giovani uomini che le giovani donne, quando hanno da prendere cura dei loro marmocchi, finiscono per essere più autentici, meno sussiegosi.
Fin dal principio Hem fu sempre terribilmente predisposto agli incidenti. Non ho mai conosciuto un uomo che abbia provocato tanti danni quanto lui alla propria carcassa. È di questo periodo l’episodio del lucernario dell’abbaino esterno al suo appartamento, che gli cadde in testa e gli provocò un trauma cranico e un taglio nel cuoio capelluto per cui fu necessario un ricovero in ospedale di alcune settimane.[9] La cicatrice gli rimase per tutta la vita.
Quando non c’era l’incidente, c’era il mal di gola. Era come uno di quegli atleti professionisti i quali, nonostante siano forti come tori, hanno sempre qualcosa. Mi sono costantemente difeso dal battermi alla boxe con Hem; il fatto che io porto gli occhiali ha offerto una buona scusa al mio desiderio di non competere con lui in questo settore.
Io non sapevo neppure andare in bicicletta. Hem andava matto per le corse in bicicletta. S’infilava in un maglione a righe come quello dei corridori del Tour de France e pedalava lungo tutti i boulevards esterni con le ginocchia all’altezza delle orecchie e il mento fra i manubri. Io trovavo tutto ciò un po’ sciocco, ma a quel tempo Hem aveva il gusto di certe bambinate.
Aveva una sfumatura di spirito, evangelica, che lo spingeva a cercar di convertire i suoi amici a tutte le sue varie manie. Seguirlo alle Sei Giorni è stato per me un divertimento; la Sei Giorni al Vélo d’Hiver era una buffa storia. Gli eventi sportivi in Francia, per il loro aspetto piuttosto comico, mi divertivano molto. Facevamo la spesa in botteghine e spacci di una di quelle stradette dove ci sono i mercati che piacevano tanto a tutti e due: vino, formaggio, pagnottelle croccanti, pâté e qualche volta pollo freddo; ci sedevamo in galleria; Hem conosceva tutti i dati tecnici, e vita morte miracoli dei corridori. Il suo entusiasmo era contagioso, ma tendeva a fare della cosa un affare serio, mentre per divertirmi, a me bastava bere, mangiare e guardare.
Di tanto in tanto gli veniva in mente che noi due, nella nostra qualità di scrittori di fama internazionale, eravamo rivali; allora diventava silenzioso; oppure capitò anche che mi imponesse freddamente di non scrivere mai niente sulle corse di bicicletta; questa era zona sua. Lo rassicuravo che scrivere di sport non era il mio genere, e che d’altronde Paul Morand aveva già preceduto tutti in La Nuit des Six Jours.[10]
Poteva anche darsi che fosse proprio perché avevo letto Paul Morand che lo spettacolo mi divertiva. Come Hem, anch’io mi sforzavo di cogliere gli eventi e di portarli direttamente sulla pagina; però continuavo ad avere il dubbio che fosse la vita a copiare l’arte, e non viceversa. Hem forzava la povera Hadley a restare seduta là tutta la notte, ma io, quando mi veniva sonno, me la battevo e andavo a dormire a casa mia. Fin d’allora era duro con le sue donne. Eppure sono convinto che sia stato più un costruttore che un distruttore. Quando le lasciava, erano più agguerrite per la vita di quanto non fossero quando le aveva incontrate. Senza dubbio, nei giorni della giovinezza, la versatilità del suo carattere, il suo temperamento estroso avevano sugli altri, che gli capitassero intorno, un effetto stimolante. Nel periodo della nostra amicizia, mi permise un confronto con la vita sportiva che, senza di lui, non avrei mai potuto sperimentare.
Fin d’allora era irritabile. Provava pietà per se stesso. Una delle sue angosce era il non avere avuto una educazione da College. Io gli dicevo che invece questa era una grande fortuna. Che pensasse a tutta la fatica in meno che aveva dovuto fare per dimenticare la cultura della scuola. Gli dicevo, supponiamo che tu fossi andato a Yale e che avessi inciampato nella Skull and Bones come Don Stewart. Rideva e ammetteva che sarebbe stata una rovina.
Hem aveva una vista eccezionalmente buona. La fredda mira del cacciatore. Mi sembrava, in quei giorni, che vedesse cose e persone senza il colore che loro donano i sentimenti o la teoria. Tutto viveva per lui entro una fredda chiara luce bianca, la stessa luce che pervade i suoi migliori racconti. A Clean Well Lighted Place,[11] per esempio.
Aveva la medesima vista acuta riguardo alla pittura. Può darsi che Gertrude Stein, che era tutt’altro che ignorante anche in questo settore della cultura, lo avesse aiutato a sviluppare questa acutezza.
Riconosceva a vista l’eccellenza del colore e del disegno. La Scuola di Parigi era già fin d’allora abbastanza piena di mestieranti da dare la nausea, ma Hem non si lasciava mai ingannare. Si trattasse di politica o di letteratura o di pittura, metteva a punto la situazione con una sola parola di quattro lettere.
Ricordo perfettamente quando comperò The Farm di Mirò[12] - credo sia stato l’ultimo quadro oggettivo che Mirò abbia dipinto - perché ho dovuto correre da tutte le parti per mettere insieme i soldi. Ci si prestava continuamente danaro a vicenda. Aveva saputo che poteva portarselo via per duemila o forse per tremila franchi (una cifra terribilmente piccola in dollari, al cambio allora corrente) e aveva la febbre al pensiero che qualcuno glielo soffiasse. Si portò a casa, alla segheria, il quadro, trionfante. Resta uno dei più bei quadri di Mirò.
Mi domando che valore abbia oggi. In genere, sulla pittura, eravamo sempre d’accordo.
L’entusiasmo di Hem era contagioso. Sebbene io avessi una inveterata inibizione contro qualsiasi gioco, riuscì a condurmi alle corse dei cavalli. Hem dichiarava di vincere grandi cifre e una primavera lo seguii a Longchamps e a Auteuil. Io, come al solito, badavo più allo spettacolo che al danaro. Degas mi aveva insegnato, attraverso i suoi quadri, ad amare i cavalli da corsa e le corse.
Harold Stearns ci passava le informazioni. Harold era un tipo straordinario. Dopo essersi fatto una reputazione come giornalista nel «The New Republic» e in altri giornali liberali e dopo aver pubblicato uno dei primi saggi di maggior successo sulla civiltà americana, era venuto a Parigi.
A Parigi aveva smesso di scrivere e aveva lasciato andare tutto. Perfino il piacere del bere e delle donne sembrava si fosse in lui attenuato. Manteneva un certo fascino. Restava un parlatore piacevole. Tirava avanti, pateticamente, la vita, frequentando i bar e raggranellando i quattro soldi che gli servivano vendendo informazioni sui cavalli ai turisti americani che avvicinava nei vari caffeucci dove era di famiglia.
C’era una corsa ad ostacoli in uno degli ippodromi che si annunciava molto elettrizzante, e Harold ci aveva indicato un cavallino che doveva essere un campione eccezionale; la valutazione al totalizzatore era bassa, trenta a uno, o qualcosa di simile. Agli amici non faceva mai pagare le informazioni, e questa volta giurava su tutto che avremmo sbancato.
Hem ed io riuscimmo a mettere insieme qualche centinaio di franchi e ci avviammo verso l’ippodromo. Harold aveva combinato con un ragazzo di scuderia che ci fosse permesso di dare un’occhiata in privato al cavallo. Era un piccolo baio scuro, piuttosto nervoso. Il fantino ci confidò che puntava su lui tutte le sue risorse. Sbirciammo il cavallo, accarezzammo il suo naso, ci prodigammo in francese e in inglese nel dire un bel po’ di sciocchezze di carattere tecnico. Al totalizzatore il nostro morale era al massimo: facevamo già progetti sul come spendere la vincita, una parte della quale per un pantagruelico pranzo al Foyot.
Il cavallo era senza dubbio un buon saltatore, ma alla rivière mancò, disarcionò il fantino e partì come una palla di fucile nella direzione sbagliata. Prima che lo potessero riprendere saltò un certo numero di ostacoli a ritroso. La corsa fu un disastro. Noi si moriva quasi dal ridere. Per conto mio, ritornato a Parigi ero più che mai convinto che il gioco è una pazzia. Incontrandoci di nuovo all’Henry’s Bar, Harold fece finta di non vederci.
Nessuno di noi due poteva permettersi di perdere una simile somma, eppure tutti e due non riuscivamo a far altro che ridere. Hem aveva appena rinunciato al suo incarico di corrispondente o stava per farlo. Campare con la sola attività di scrittore significava certo andare incontro a tempi duri. L’edizione dell’Our Time che Robert McAlmon aveva fatto uscire a Digione, gli aveva procurato successo nei circoli recherchés ma neppure un soldo. La sua unica sorgente di mezzi era lo scrivere poesiole spinte per una rivista tedesca, il «Der Querschnitt»; non è difficile cogliere il lato scherzoso del nome.

NOTE
di Giancarlo Mauri


[1] Ulysses ¦ by ¦ James Joyce ¦ Shakespeare and Company ¦ 12, Rue de l’Odéon, 12 ¦ Paris ¦ 1922. Sul frontespizio si legge: Printed for Sylvia Beach by Mauruce Darantiere at Dijon, France. - Dal 9 gennaio 1922 Ernest e Hadley abitano al 74 di rue du Cardinal Lemoine, terzo piano.
[2] L’8 gennaio 1920 Ernest prende il treno per Toronto e si stabilisce a casa Connable - 153 di Lyndhurst Avenue - e dopo neppure una settimana chiede a Mr Connable di trovargli un posto nel principale quotidiano dell’Ontario, il Toronto Star, che pubblica un’edizione quotidiana e una settimanale. Connable lo presenta a Arthur Donaldson, capo dell’ufficio pubblicità di entrambi i giornali, che lo porta alla sede di 20 King Street West e lo presenta a due redattori. Dopo aver dichiarato di aver lavorato al Kansas City Star, un modello per i giornalisti del tempo, gli propongono un lavoro pagato a righe per la prima edizione del settimanale. Il 27 dicembre 1923 EH si licenzia dal The Toronto Star Weekly.
[3] Si veda l’articolo intitolato Picked Sharpshooters Patrol Genoa Streets di Hemingway, uscito sul The Toronto Star Weekly del 13 aprile 1922 (Cfr.: La Conferenza di Genova, in By-line, pp 35-37).
[4] The Little Review “Exiles’ Number”, n. 9.3, Spring 1923, è interamente dedicato agli scritti di Statunitensi “attualmente in esilio in Europa” (sic!). Hemingway vi compare con alcuni brevi racconti, poi inseriti in our time.
[5] Con tiratura di 170 copie, in our time - tutte lettere minuscole - esce nel 1924 per conto della Three Mountains Press, Paris. Le Tre Montagne che danno il nome alla Casa editrice sono Montmarte, Mont Sainte-Genevieve e Montparnasse.
[6] Il 10 febbraio 1924 Hemingway scrive ad Ezra Pound d’aver trovato un appartamento semi ammobiliato sopra una segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs. Ezra Pound abita non molto lontano, al 70bis. Si tratta della segheria di Pierre Chautard, il padrone di casa e l’appartamento degli Hemingway è al piano superiore. Lo lasciano agli inizi del 1926, quando partono per Schruns (al rientro, gli Hemingway alloggiano all’Hotel Vénétia, Boulevard de Montparnasse).
[7] Il 10 ottobre 1923 a Toronto nasce John Hadley Nicanor detto Bumby: Hadley come la madre e Nicanor in onore al torero Villalta.
[8] Hemingway ricercava tra le pagine della Bibbia i titoli da dare ai suoi racconti: un’ottima operazione di marketing, visto che si rivolgeva per lo più ad un pubblico anglo-americano.
[9] Qui Dos Passos sbaglia: il 10 maggio 1927, con rito cattolico nella chiesa di Passy, Hem sposa la 32enne (4 anni più di lui) Pauline Pfeiffer e i due vanno ad abitare al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice. È in questa casa che nel marzo 1928 avviene l’incidente del lucernario caduto in testa a Hemingway, danno riparato con sette punti di sutura.
[10] Storia inserita nella raccolta Ouvert la nuit, pubblicata da Gallimard nel 1922.
[11] Un posto pulito, ben illuminato, pubblicato la prima volta nel 1933 da Scribner’s Magazine.
[12] La fattoria, olio su tela, 1921-1922, oggi conservato nella National Gallery of Art di Washington che lo ha ricevuto in donazione da Mary Welsh, l’ultima moglie di Hemingway.

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