sabato 23 luglio 2016

Convento delle Monache Umiliate di Sant’Erasmo, Milano


È stupefacente come ancor oggi, nel cuore della Milano da bere tanto cara agli amici ed estimatori di Tinker Bell detto Trilli, si possano scoprire preziosi reperti del bel tempo che fu. Qui alludo a quel che resta del loggiato del soppresso Convento delle Monache Umiliate di Sant’Erasmo, nell’omonima piazza, a due passi da Montenapoleone - e chi meglio degli architetti Emilio Sioli Legnani e Paolo Mezzanotte, autori del delizioso lavoro che porta il titolo Il Borgo Nuovo, edito dalla Fondazione Treccani degli Alfieri per la “Storia di Milano”, Contrade Milanesi, Istituto di Alta Cultura, Milano 1945, potrebbe raccontarci il loro passato? Nessuno, temo. Quindi a loro la parola:

[…] Eccoci finalmente al Convento delle Monache Umiliate di Sant’Erasmo che nascondevano l’immenso spazio del chiostro, del giardino e dell’ortaglia dietro le modeste apparenze della antica Chiesa conventuale doppia (il N. 6) e di una casetta attigua (il N. 8) raffazzonate in una unica facciata neoclassicheggiante dell’epoca della soppressione (1780).

Si chiamava anche Monistero Nuovo. Il Torre suppone perché alla soppressione degli Umiliati nel 1571 le monache passarono alle Regole Benedettine; il Latuada, naturalmente, combatte la supposizione, contraddetta - assicura - da documenti anteriori alla sopressione, ed avanza il parere del « rinomato » Giovan Pietro Puricelli, il quale fa risalire il nuovo nome al Capitolo Generale degli Umiliati tenuto in Mantova nel 1436, e non risolve un bel niente; così che noi, se non avessimo avuto la fortuna di trovarcelo da soli un documento del 1557 che parla del Monastero de Santo Novo - come diremo tra breve - ne sapremmo quanto prima. Finiscono poi entrambi per riferirsi al Borgo Nuovo, ma il Latuada approfitta subito della occasione per vantare come sua la « conghiettura » e per scaricarne la responsabilità sul « prudente leggitore »: comodo metodo critico che gli accade di usare un po’ troppo di frequente.
Non ci sentiamo certo di risolvere l’ardua quistione in momenti come questi: però da quei pochi documenti di seconda mano che abbiamo a disposizione veniamo a sapere che il « Convenium porte Nove Mediolani, iacente in scricta de Tignono in parochia sancti Bartolomei » confinava a ponente, nel 1348, colla domus dominarum Humiliatarum de Tignono cioè con la casa delle Signore Umiliate dei Tignoni. La Stretta dei Tignoni, in fondo alla quale si apriva un accesso secondario al convento, tutti la ricordano: non sono forse cinque anni che le demolizioni per la via dei Giardini l’hanno tolta di mezzo: onde, non per seguire il metodo critico del Latuada, ma in queste condizioni, lasciamo giudicare al prudente leggitore se non sia il caso di pensare ad un nuovo Convento di S. Erasmo che abbia mantenuto questo accesso secondario estendendosi con maggior dignità sino al Borgonuovo.
Monastero de Santo Novo abbiamo già letto - tanto per portare un nuovo raggio di luce - nell’Atto di costituzione dotale di una novizia De Aplano (una Appiani) del 1557, da noi scovato nell’Archivio Spirituale della Curia Arcivescovile. Niente paura: il prudente leggitore potrà sempre pensare che l’amanuense avrebbe dovuto scrivere Monastero de Santo Erasmo Nuovo come nello Status del 1576; e potrà poi lustrass la vista coi più bei nomi - e alto-sonanti - scelti tra le ospiti del convento (43 monache in tutto oltre la superiora Aurelia da Varixio): Paula de Recalchà, Victoria e Clementina di Taberna, Bona Francesca de Morigi, Felice e Candida de Borri, Ippolita de Pegi, Casandra de Coijri, Maria Magdalena e Ludovica de Mantegazi, Scolastica di Ponzoni, Antonia e Gianna di Vesconti. E il valore del documento è di provare la efficienza, la consistenza e il nome che il convento aveva raggiunto già a mezzo il secolo XVI; oltre al merito di avere tagliato la testa al... Torre.
E che il nome lo mantenesse ancora cent’anni dopo, lo conferma indirettamente Marco Cremosano nella sua Cronaca quando scrive che la Serenissima Maria Anna di Austria (ospite di Milano dal 30 maggio al 9 agosto 1649 nel viaggio per raggiungere lo sposo Filippo IV di Spagna), il 20 luglio andò « al monastero di Sant’Erasmo in Borgo Nuovo, poi non uscì di casa per tutto il mese ». Nessuno vorrà imputare a noi l’indisposizione che costrinse in casa per dieci giorni la Augusta Ospite: una settimana prima era stata « alle Grazie e nel ritorno venne un gran temporale che la bagnò tutta », e i raffreddori, trascurati, fanno di questi scherzi. E poi già da prima non si sentiva tanto bene: quando fu ricevuta dai Cappuccini di Porta Orientale « con quella carità di Dio capuccina », e le fu apparecchiata una merenda, « in un piatello di pietra una insalatina et in un altro 4 ovi duri (come si dice in Milano, in ciappa) in un altro 4 olive », la Regina pigliò solo una oliva e « uno puoco di cagiata... et poi si ritirò nel boschetto di detti padri, si sento sopra una vil panca di legno cominciando ad imitare la povertà capuccina, mentre la ciurma si reficiava ».

La Chiesa propriamente detta, quella aperta al pubblico, non si distingue più, trasformata nel corpo verso strada del nostro N. 6. Nel 1674 il Torre - meglio del Latuada - la descrive ad una sola nave, a soffitto di legno, con tre cappelle per lato, adibite a sacristia le due vicine all’altar maggiore posto di fronte all’ingresso dalla via.
La presenza di un custode nella casa precedente che dava accesso al convento è più che naturale: e Messer Giorgio Perigho fattore può solo ringraziare i figli che non ha e Madonna Veronica sua moglie che « aveva passata l’età sinodale dei quaranta » come la immortale Perpetua, se arriva a sottrarsi alle seducenti congetture sull’autore dei fortunati possessori futuri di tutta questa grazia di Dio. Per contro, mal si accorda la presenza degli inquilini con la Chiesa in questo secondo stabile. Ma le medaglie dei Dottori di Santa Chiesa che ne ornavano i pilastri « dipinte non sono molti anni » al tempo del Latuada e l’iscrizione A DI IO A G 1700 che sormontata da tre croci si leggeva sul muro di facciata del coro retrostante riservato alle ospiti della clausura ci indicano la data di un restauro di tutto l’edificio che potrebbe anche essere il coronamento di una riforma generale incominciata colla creazione della chiesa aperta sulla pubblica via; e il passaggio da un affitto come quello del 1576 al Magnifico Signor Hieronimo Visconte con numerosa famiglia e servitù, a una affittanza promiscua di gente modesta come quello del 1610, potrebbe indicare un decadimento dello stabile che abbia poi finito per imporre un provvedimento radicale. E che le monache fossero ancora in truscia per abbellire la loro chiesa nei primi anni del ’700, è provato anche da una tavola della Vergine con San Francesco ed altri Santi che è di Paolo Camillo Landriani detto il Duchino - nostra vecchia conoscenza - nella edizione 1674 del Torre e diventa di Carlo Buzzo nella edizione del 1714; e a quest’ultimo accenna anche il Latuada nel 1738 quando si fa premura di avvertirci che la tavola fu sostituita « per maggior vaghezza » da quelle brave religiose con un S. Erasmo « in atteggiamento di essergli cavate dal ventre le budella e raggirate intorno ad una ruota ». Tre lapidi ricordavano Jacobo Robio (1546) Giovan Battista Carcano (1600) e Marco Aurelio Giussani (1618) che ritroveremo nelle loro case più avanti.
Se la Chiesa è scomparsa, visibilissimo è invece ancora il coro delle monache che le sorgeva dietro: anzi, i bombardamenti hanno fatto riapparire i finestroni e i resti della volta falsa celati da tramezze e plafoni che lo avevano trasformato in studio di artisti prima e in « Galleria d’Arte » poi. In questa occasione sono anche affiorati i frammenti di affreschi seicenteschi allietati da ampi sfondi che fanno passar sopra a molte cose, e da una interessante figura di monaca orante in un angolo: la monaca donatrice, senza dubbio, e ritratta dal vero, come provano i colori a tempera che distesi sopra l’affresco si vanno tranquillamente dilavando.
Ma un altro affresco, di ben altra importanza e di ben altre proporzioni, - benché rovinato - illustrato e studiato dal Beltrami e dal Sant’Ambrogio che lo assegnarono al Borgognone, fu staccato nel 1907 da queste stesse pareti ad opera del Cavenaghi e trasportato su tela nella cappella della famosa villa dei Perego a Cremnago.
Il giardino, con l’annessa peschiera, è diventato il giardino Perego del N. 14, come sappiamo. Il chiostro cinquecentesco distendeva su un ampio rettangolo le sue 90 svelte colonnine di serizzo che in due ordini sovrapposti sostenevano le arcate del portico e le travature del loggiato superiore sui capitelli stranamente girati colle volute alla fronte e le spirali all’interno.
Le sconnesse antiche celle del loggiato ospitarono come potevano, fino al S. Michele 1939, le modeste famiglie di artigiani che avevano il lavorerio nei locali sottostanti del portico (e qualche libro smarginato nel refettorio dalla rinomata legatoria De Ponti lo sapremmo trovare ad occhi chiusi anche nei vostri scaffali).
Un « lavorerio » hors ligne, «La Maison rustique», aveva impiantato in un paio di locali del loggiato, il figlio di Cesare Tallone, Alberto, pittore lui pure, ma anche editore, libraio, artigiano: artista e innovatore in ogni sua manifestazione.
Qui accoglieva con lieta cordialità un « mondo » cosmopolita ed eclettico di pittori, letterati, critici - arrivati ed in arrivo - che si mescolavano tra mobili antichi e tele moderne, libri rari e rilegature d’autore, con i migliori nomi-e colle più belle figure - della buona società milanese, della finanza, dell’industria, del commercio italiano.
Ricordiamo una sera dell’ormai lontano 1931 quando nella cornice fantasmagorica delle colonne illuminate e animate dalle macchiette dei coinquilini, tutti bravi e modesti popolani, Tallone invitò Mariette Lydis - consorte di Giuseppe Govone - in occasione di una esposizione della gentile artista francese; e la ricordiamo perché quella sera, si può ben dire, furono gettate le basi della società artistico-tipografica tra Tallone e Giuseppe Govone, che seppe tenere alta la fama dell’arte editoriale nostra anche fuori d’Italia. Classici i tre tomi del Dante usciti tra il 1939 e il 1941 da quel piccolo gioiello dell’Hotel de Sagonne in rue des Tournelles a Parigi: la casa di Mansard il giovine, conte di Sagonne sotto Luigi XIV, che ospita lo studio della stamperia a cui diede il nome; studio che è fama udisse Molière declamare il Tartuffe ad una scintillante élite e proteggesse l’eterna bellezza di Ninon de Lenclos sotto a un soffitto ancora intatto di Mignard.
(Povere monache di S. Erasmo quali analogie per il vostro chiostro sconsacrato!).
Nel centro del chiostro era sorta « la cavallerizza, nuova nel suo genere, di disegno dell’architetto Clerichetti » informa Milano e le sue bellezze, Strenna per l’anno 1847, a pag. 86: « La sua dimensione è di metri 18 per 36; è racchiusa da muri, alti metri 6. La spaziosa vòlta con graziosa curva catenaria; due tribune laterali dipinte dal pennello maestro del Trolli ». Vi si accedeva dalla antica porta secondaria del convento in fondo al vicolo dei Tignoni: il vecchio maneggio Beretta poi Huber, caro ai nostri ricordi giovanili, dove ci allenammo per andare in guerra appiedati nel 1915.
Nel 1939 il chiostro venne sacrificato alla speculazione edilizia e al suo posto sorsero come per incanto smisurate e bianche costruzioni moderne. Si salvarono solo quattro campate alle quali se ne aggiunsero altre tre verso levante - se non andiamo errati - ricostruite coi materiali di demolizione del resto. Diciamo questo solo col desiderio di risparmiare un rompicapo al postero collega che, con le vecchie mappe alla mano, vorrà un giorno ricostruire la forma del chiostro, attratto da quei poveri mirabili resti, i quali, dietro la cancellata di ferro in fondo alla piazzetta a cui si accede dalla nuova via dei Giardini, hanno tutto il profumo di un cespo di viole mammole sperduto in un campo di grano turco.
Speriamo che tra quei poveri mirabili resti sia almeno rimasta la stanza nella quale la tradizione narrava esser nato il Santo Martire Sebastiano, cittadino milanese; era tenuta in tanta venerazione dalle Religiose! Perché, « in visitandola », potevano ottenere le stesse indulgenze come se salissero la Scala Santa a Roma: ma con molta maggiore comodità.

Il chiostro aveva anche un campanile, o torre campanaria, che doveva essere di rara eleganza, giudicando dalla loggia superiore, o baltresca, costruita, o ricostruita, coi suoi avanzi in cima alla villa Bagatti Valsecchi a Varedo; e a più ordini, come ricaviamo da un curioso contratto con l’impresa che ebbe a demolirlo pericolante nel 1779. Documento che riproduciamo integralmente senza neanche togliere i fiori... edili sempre col desiderio di renderci utili al nostro postero collega scrittore, più che per fornire ai nostri disgraziati contemporanei colleghi proprietari di casa una utile informazione sui prezzi di demolizione.








Già tutto questo potrebbe bastare, ma visto che ho in casa il da me più volte saccheggiato volume scritto da Paolo Mezzanotte (sempre lui!) e da Giacomo C. Bascapè, intitolato Milano nell’arte e nella storia, edito a cura di Gianni Mezzanotte per Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma 1968, perché non approfittarne ed inserire quanto è scritto a p. 440?

La chiesa claustrale di S. Erasmo.
La chiesa di S. Erasmo risale al XV e al XVI secolo; la facciata sulla contrada fu ricostruita nel XVIII. Il fabbricato si presentava a due piani, oltre al terreno, con aspetto modesto, rabberciato quando, dopo le soppressioni giuseppine, vi furono conglobati il monastero delle Umiliate di S. Erasmo detto anche Monastero nuovo o di Borgonuovo, e la chiesa conventuale doppia di S. Erasmo. Di questa, che si affacciava a via Borgonuovo, appena a destra del n. 8, era ancora riconoscibile, in un locale coperto da volta a crociera, il coro delle monache o aula claustrale. La chiesa aveva pianta rettangolare, con tracce di decorazione pittorica; la parte riservata al pubblico, secondo è descritta dalle antiche guide, era abbastanza vasta, di una sola nave, con due cappelle per lato. Sull’altar maggiore era una tela raffigurante la Vergine con S. Francesco e altri Santi, opera del Duchino (Paolo Camillo Landriani) secondo il Torre; attribuita invece dal Latuada a Carlo Buzzi. Ma nel coro era visibile, fino al principio di questo secolo, un affresco di rara bellezza, benché mutilato, dal Beltrami riconosciuto ad Ambrogio Bergognone, a cui palesemente appartiene: una Crocifissione, con molte figure, contenuta in una grande lunetta a profilo archiacuto appena accennato. L’affresco, molto danneggiato, era troncato sotto il busto delle figure fiancheggianti la croce; della Maddalena inginocchiata rimaneva la sola testa. Sul Crocifisso, a cui faceva corona un coro di angeli di squisita fattura, era la figurazione del pellicano che nutre i piccoli. L’affresco, staccato e trasportato su tela, è oggi collocato nella cappella annessa alla villa dei Perego a Cremnago.
Al chiostro si arrivava dalla stessa casa del n. 8 per una serie di cortiletti. Occupava una vasta area rettangolare invasa nel mezzo dal fabbricato della cavallerizza. Dei quattro lati originari rimaneva integro, sebbene in condizioni di deplorevole abbandono, il lato di tramontana era a due ordini di portici, arcuato l’inferiore, architravato il superiore: colonne di serizzo con capitelli e basi della stessa pietra. I capitelli simili nei due piani, di forme rinascimentali arieggianti l’ordine composito, sommariamente se non rozzamente scolpiti nella dura pietra. Con disposizione singolare rivolgevano alla fronte non le spirali, ma i cartocci delle volute. Basi ancor medievaleggianti, ungulate agli spigoli; architravi di legno nell’ordine superiore, arcate senza ghiere né ornati nell’inferiore. Null’altro rimaneva di notevole se non una vera di pozzo più tarda nel lato di ponente.
Le celle erano adibite ad abitazione di infimo ordine, al piano superiore; all’inferiore ospitavano laboratori modesti artigiani. Fra le colonne dell’ordine superiore, in pittoresco disordine vasi di fiori e stracci sciorinati al sole completavano l’aspetto pittoresco e misero della decadenza di quell’antico edificio.
Quando l’area fu ceduta a speculatori, vi si costruirono case di abitazione; del chiostro rimasero in luogo sei campate ed altre furono aggiunte con materiali delle demo zioni, a cura di Ambrogio Annoni. Per quanto oppresso dalle nuove costruzioni, il tratto di chiostro superstite è interessante, e costituisce la prova della possibilità di salvare almeno alcune vestigia di edifici storicamente e artisticamente notevoli, incorporandoli con gusto e senza stonature in fabbricati nuovi, salvando così preziose memorie del passato e insieme permettendo l’indispensabile rinnovamento edilizio della città.
Le cronache ricordano che l’antico convento ospitava pure un ospedale per i fanciulli tignosi, da cui prese nome il vicolo dei Tignosi, sboccante in via Manzoni.

Troppo noioso culturismo? Delle due l’una: o avete sbagliato blog …oppure procuratevi una copia delle memorie dell’attrice Valentina Cortese - Quanti sono i domani passati, Mondadori Editore, Milano 2012 - e divertitevi a leggere l’infinita tiritera dei suoi litigi con Giorgio Strehler, querelle che hanno avuto a testimonio proprio le mura di questo loro, intimo conventino.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

















lunedì 11 luglio 2016

Giorgio Ambrosoli, avvocato milanese


A Milano l’11 luglio 1979 veniva ucciso Giorgio Ambrosoli, avvocato, liquidatore per conto dello Stato italiano della Banca Privata di Michele Sindona.
Su di lui si è scritto tanto ma, soprattutto oggi, sono dell’avviso che uno solo è il libro che merita di essere letto o riletto: Un eroe borghese, di Corrado Stajano.
Volendo andare oltre, esiste anche un pluri-premiato film diretto da Michele Placido ed uscito nelle sale nel 1995 con l’identico titolo.
Oggi il Corriere della Sera web ricorda il delitto Ambrosoli con un breve filmato, reperibile a questo indirizzo:


Il popolo ama dimenticare i “non eroi” che giorno dopo giorno ci ricordano che siamo esseri umani, non pecore.
Per età rammento gli umori del tempo, dove i sinistri denigravano l’avvocato Ambrosoli definendolo “un uomo di destra” e i giornali tanto amati dai benpensanti esentasse dire, neppure tanto velatamente: “beh, però se l’è andata a cercare…”.
Già, se l’è andata a cercare: capito mi hai?

Oggi, 11 luglio, voglio ricordare Giorgio Ambrosoli proponendo un mio scatto della lapide murata al numero 1 di via Morozzo della Rocca, a cui aggiungo le prime pagine del citato libro di Stajano, invitandovi a rileggerlo per intero, così, giusto per non dimenticare Giorgio Ambrosoli, un avvocato milanese.


Corrado Stajano
Un eroe borghese
Einaudi, Gli struzzi 411, 1991
pp. 3-8

Sembra una qualsiasi sera d’estate in una città semivuota. Fa un caldo piatto e umido, a Milano, l’11 luglio 1979, quando sei uomini soli decidono di andare a mangiare in una trattoria di via Terraggio, «Ai 3 fratelli», tra il bar Magenta, il cinema Orchidea e la basilica di Sant’Ambrogio. È un ristorante toscano, coi lampadari di ferro battuto, le travi di legno allo scoperto, un archetto di cotto sopra le porte a ripetere un improbabile rustico. E appese alle pareti, collane di salsicce, pentole, campanacci.
L’appuntamento risulta dall’agendina tascabile dell’avvocato Giorgio Ambrosoli: 8,25 Zileri; 8,30 Rosica. Come ragazzi passano sotto casa a chiamarsi l’un l’altro. Sono amici dai primi anni ’70, i tempi dei Decreti delegati. I figli frequentavano l’asilo e la scuola elementare di via Ruffini, i genitori si conobbero durante le discussioni serali nella palestra. Vicini di casa, dello stesso ceto sociale, professionisti, industriali, dirigenti di azienda, le idee consonanti della Milano moderata, cominciarono a vedersi anche fuori della scuola.
La moglie di Ambrosoli è a Monte Marcello con i bambini, la famiglia Rosica è in Irlanda, gli Zileri sono a Forte dei Marmi. Sarebbe davvero una cena senza storia, quella di Giorgio Ambrosoli, Francesco Rosica, Stefano Gavazzi, Franco Mugnai, Paolo Zileri, Giampaolo Lazzati.
Ambrosoli è stanco, ma allegro, cordiale, sembra sollevato da un peso, un esame temuto che ha avuto buon esito. Per tre giorni è stato interrogato come testimone, al Palazzo di Giustizia, dal giudice istruttore Giovanni Galati e dai giudici e dagli avvocati arrivati dagli Stati Uniti per una rogatoria ordinata dalla Corte federale di New York che ha per argomento la bancarotta della Franklin National Bank di Michele Sindona. Le risposte di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della sindoniana Banca Privata Italiana di Milano hanno grande importanza per l’istruzione del processo della banca americana.
Ambrosoli non parla mai, non ha parlato mai della ragnatela in cui è calato dal 27 settembre di cinque anni prima quando il governatore della Banca d’Italia Guido Carli lo nominò commissario liquidatore della banca. Solo qualche volta, se le notizie diventano pubbliche, si sgela un po’ e incrina la sua riservata natura. Ma gli amici non sospettano in quale mondo oscuro viva e sia vissuto in quegli anni.
Quella sera accenna alla rogatoria, ai giudici e agli avvocati americani, ma solo per dire che tutto è filato liscio. Si era preparato con cura e i difensori di Sindona che contavano molto sulla rogatoria milanese per alleggerire la posizione processuale del loro cliente sperando nella smagliatura delle risposte dell’avvocato, tornano a casa incattiviti.
L’ultima udienza è finita nel primo pomeriggio, William E. Jackson, Special Master del Distretto Sud di New York, è già partito per gli Stati Uniti; giudici, avvocati e testimone devono tornare in tribunale la mattina dopo, ma solo per rileggere il verbale di testimonianza e per firmarlo.
Al tavolo dei «3 fratelli», gli amici chiacchierano. L’estate, il terrorismo che seguita a mostrarsi truculento, la politica, le difficoltà di formare il governo dopo le elezioni anticipate del 3 giugno. Andreotti ha rinunciato all’incarico pochi giorni prima per il veto dei socialisti e il presidente Pertini ha appena convocato Craxi al Quirinale. Ce la farà? Sul « Corriere della sera » di quell’11 luglio, spicca in terza pagina un lungo articolo di Walter Tobagi dedicato a Craxi: «Non sono un padre padrone».
Alle dieci e mezzo i sei hanno finito di cenare. Due di loro, Gavazzi e Zileri, sono appassionati di boxe e gli piacerebbe vedere alla Tv qualche ripresa dell’incontro tra Lorenzo Zanon e Alfio Righetti: in palio, al Palasport di Rimini, c’è il titolo europeo dei pesi massimi. La casa più vicina è quella di Ambrosoli. Comincia il conto alla rovescia, con le dodici riprese dell’incontro di boxe che scandiscono l’ora e mezzo o poco più che manca a chiudere anche la vita di Giorgio Ambrosoli.
Una casa rassicurante, quella dell’avvocato, in via Morozzo della Rocca numero 1. Un corridoio divide le camere da letto, i bagni, il guardaroba e la cucina, dal soggiorno ampio e lungo che sembra lo scafo di una nave, con un divano color rosa antico, un altro divano beige, un trumeau, una piccola scrivania, quadri, stampe, oggetti amorosamente raccolti, poltrone vecchiotte. È arduo pensare che la mafia e la criminalità politica sono arrivate fin qui a sconvolgere l’ordine di una casa che sembra così al riparo. In un angolo c’è un tavolo rotondo Impero, dove l’avvocato Giorgio Ambrosoli lavora la notte fino alle 3, alle 4.
Si sfilaccia senza pietà anche l’ultimo brandello della vita di Giorgio Ambrosoli. Mentre Gavazzi e Zileri guardano la Tv e gli altri fanno da controcanto al telecronista, Ambrosoli parla con Rosica, avvocato anche lui. Ha deciso, è la prima volta dopo anni, di fare una vera vacanza e di passare l’agosto tra il mare e la campagna di Ortona, la città abruzzese dell’amico. Sul divano color rosa antico firma l’assegno per la caparra. La firma gli viene un po’ storta.
Che cosa fa l’assassino mentre Ambrosoli pensa alle vacanze, mentre Zanon e Righetti si caricano di pugni e le grida del Palasport di Rimini rimbombano nella scatola della Tv? Ha trovato rifugio in un bar, è immobile nella 127 rossa davanti alla casa, sta cercando la sua vittima nei posti frequentati dall’avvocato che conosce bene dopo i pedinamenti fatti in quei giorni, gira senza stancarsi per le strade deserte del quartiere in cui Ambrosoli ha abitato quasi tutta la vita?
Un quartiere della borghesia tradizionale mescolata ai ceti che vivono sui beni della proprietà ecclesiastica, i conventi, le confraternite, gli ospedali, gli istituti religiosi, le chiese. Da quella meraviglia dell’arte e della cultura che è Santa Maria delle Grazie e dagli orti dove lavorava Leonardo, al Pio Istituto del Buon Pastore, all’ospedale San Giuseppe, alla residenza dell’Università Cattolica alle case delle suore e dei preti rimesse a nuovo di continuo col giallo ocra di Maria Teresa imperatrice d’Austria.
Se si osserva il rettangolo del quartiere che ha per lati via Carducci e il viale di Porta Vercellina, via San Vittore e corso Magenta e si entra nell’intrico di strade spesso private, chiuse da muraglie, sbarre e cancelli vigilati da occhi elettronici, via Giovannino de Grassi, via San Giovanni di Dio, via De Togni, ci si rende subito conto di come è consolidata la ricchezza di chi ci vive e di come resiste la forma delle cose, nonostante l’urto del tempo. Lo si vede nei vecchi giardini con qualche putto di cemento rattristato, ravvivati d’autunno dai roghi delle foglie rosse, nelle case illuminate la notte come in un miraggio, coperte d’edera e di glicini, con le portinerie simili a palazzetti vigilati da portinai inavvicinabili.
All’undicesima ripresa, Zanon è investito da una gragnola di pugni. Resiste, contrattacca. L’incontro finisce alla pari, il titolo europeo resta a Zanon.
Poco dopo mezzanotte in casa Ambrosoli telefona qualcuno. L’assassino che vuol sapere se l’avvocato è in casa?
Giorgio Ambrosoli scende in strada a salutare gli amici. La sua Alfetta blu è parcheggiata sul marciapiede e questo gli fa venire in mente di portare a casa in macchina chi abita più lontano. La compagnia si scioglie, Gavazzi e Zileri vanno a piedi, Ambrosoli accompagna Rosica e Mugnai e, ultimo, Lazzati, in via De Togni 7, vicinissimo.
L’assassino arrivato dall’America ha seguito Ambrosoli nella notte di Milano? Sta aspettando nella via dove sa che abita un amico dell’avvocato?

Deposizione di Charles E. Rose, sostituto procuratore degli Stati Uniti per il Distretto Est di New York: «In data 11 luglio 1979 William Arico noleggiò una Fiat rossa, con la quale si recò in vari posti che sapeva frequentati da Ambrosoli, avendolo pedinato in precedenza. Trovò infine Ambrosoli in uno di quei posti, ma non fu in grado di dirmi il nome della persona che abitava in quella casa o il suo indirizzo. Mi disse solo che a quanto pareva era un amico di Ambrosoli e che lo aveva visto là altre volte. Vide che il signor Ambrosoli stava andandosene, entrando nella sua auto. Il signor Arico ritenne che stesse tornando a casa e, facendo una strada diversa, partì rapidamente in macchina diretto all’abitazione di Ambrosoli, dove giunse quasi contemporaneamente a lui. Il signor Ambrosoli stava per scendere dalla macchina quando il signor Arico, sceso dalla sua Fiat rossa, si diresse verso di lui e gli chiese in italiano: “Il signor Ambrosoli?” Al che il signor Ambrosoli rispose “Sì”, e allora Arico gli disse esattamente: “Mi scusi, signor Ambrosoli”, e con la sua 357 Magnum gli sparò al petto tre colpi. Dopodiché Arico tornò alla sua Fiat rossa per fuggire... Arrivato vicino alla sua macchina, si voltò indietro, e vide che Ambrosoli era caduto a terra e che intorno a lui si erano raccolte tre persone...; disse che queste persone non avevano niente a che vedere con l’omicidio, che aveva commesso da solo... Il giorno seguente Arico tornò negli Stati Uniti».


L’avvocato Giorgio Ambrosoli è stato assassinato sul passo carraio della sua casa. Esattamente quattro piani sotto l’angolo del soggiorno dove lavorava fino a notte alta, sul tavolo Impero, a cercare di districare le carte dei neri misteri di Michele Sindona.