martedì 25 aprile 2017

Binario 21 - Memoriale della Shoah di Milano



Stazione Centrale di Milano. Lasciato il carcere di San Vittore, il 27 aprile 1944 parte dal binario 21 un convoglio carico di prigionieri politici destinati al campo di concentramento di Fossoli, luogo di partenza dei treni diretti ad Auschwitz. Tra gli stipati vi è Leopoldo Gasparotto, avvocato di professione, alpinista per passione, con due spedizioni sulle spalle: una nel Caucaso e l’altra in Antartide. Casualità vuole - ma non tanto - che decenni dopo toccherà a me seguire le sue tracce caucasiche…
Per saperne di più su di lui rinvio a due libri davvero importanti: Leopoldo Gasparotto. Alpinista e partigiano è il titolo della biografia scritta da Ruggero Meles e stampata da Hoepli nel 2011. Il secondo, Diario di Fossoli di Leopoldo Gasparotto, a cura di Mimmo Franzinelli porta il logo di Bollati Boringhieri, 2007. Da questo estrapolo le pagine iniziali, dove Gasparotto descrive le ultime ore passate in carcere e il viaggio sul treno, destinazione Fossoli. Ed è qui che il 22 giugno 1944, con un’esecuzione a freddo, Leopoldo Gasparotto trova la morte.

26 aprile 1944
La giornata si annuncia movimentatissima. Fin dal mattino scopini, guardie, militi si mostrano affaccendatissimi. Aria ottima, atmosfera di partenza, ripetute scene di saluto tra i compagni, che ignorano se si troveranno vicini sul treno. Io saluto tutti perché sono certo di essere tra i partenti. È di servizio un giovane milite, arruolato in seguito alla delazione di un compagno di lavoro, dopo essersi sottratto all’arruolamento nella organizzazione Todt. Ad un certo momento un tizio attraversa il cortile, ed il milite, riconoscendolo, grida al compagno che sta di sentinella sul muro di cinta del carcere «massel, che l’è un fascista!» Passo le ultime istruzioni per coloro che eventualmente rimanessero a S. Vittore.
L’impareggiabile P. mi viene a chiamare; rientro in cella per un ultimo, commovente colloquio con B., poi, di nuovo all’«aria», mentre questa si chiude, e saluto a tutti; calorosa stretta di mano al milite.
Mando a chiamare Cetra, per salutarlo. La sua commozione è tale che non riesce a parlare. Viviamo in una strana atmosfera. Io con P. e altri siamo felici, molti sono contenti, altri impressionati; coloro che restano, invece, e soprattutto le guardie, hanno l’impressione che noi partiamo per la Siberia. Naturalmente il Barba è il più commosso di tutti e mi invia cotolette, pane, un sacchetto, una preziosa scatola di sardine e del formaggio: è addirittura prodigioso. A me piange il cuore all’idea che egli resta, sono in pena per lui e per Luigi, e questa aumenta quando apprendo che verso le 11 egli è stato chiamato all’interrogatorio. Ma dopo mezzogiorno Luigi mi comunica che tutto è andato bene.
Ormai siamo, sia pur per breve ora, al crollo della disciplina dell’isolamento. «Tonorchi» e «Colombi» svolazzano nel 5° raggio, la mia cella rimane aperta, M. R. O. si avvicendano presso di me.
Finalmente, alle 14, risuonano i passi dei tedeschi nel corridoio. «Alles in Zelle!» è il primo ordine, allo scopo di rinchiudere anche gli scopini; ma poco dopo, ecco il contrordine, e si fa semplicemente il contrario; tutti, anche gli isolati, nei corridoi, presso i cancelli del «centro raggi».
Incomincia, dal primo raggio, un appello interminabile, condotto da Stutz, con una strana, spassosa, energica e gutturale pronuncia.
Ora è la nostra volta: i chiamati passano dall’altro lato del corridoio; siamo tutti isolati, ma dall’appello, per ordine alfabetico, pochissimi sono gli esclusi, tutti hanno la sensazione netta che ben pochi rimangano tra le tetre mura del Cellulare, soltanto coloro le cui istruttorie sono ancora in gestazione o che hanno serie probabilità di essere scarcerati.
Ma un grave colpo è inferto al mio ottimismo quando sento scorrere tutta la lettera «d» senza che venga chiamato Dal Pozzo.
Poco dopo odo il mio nome e mi trasferisco anch’io. Ora ho quasi in faccia Dal Pozzo. Il suo volto rimane lungo tempo contratto. Il rimpianto di questa esclusione non lascia dubbi. Io lo guardo lungamente, ma poi noi veniamo avviati verso il fondo del raggio, rimango separato da lui e travolto dalla confusione dei compagni ormai liberi di parlare tra di noi, di riunirsi in gruppi, di ritrovarsi a piacimento. È un piccolo 26 luglio degli isolati, una deliziosa confusione, nella quale, indebolito, non più abituato alla conversazione prolungata, poco dopo mi sento smarrito, mentre mi coglie il mal di testa ed il mal di gola.
In fondo al raggio continuano ad affluire i nuovi chiamati, ed appare anche Dal Pozzo, chiamato colla lettera «P». Respiro generale di sollievo; ormai l’atmosfera tra gli ex isolati è di netta allegria.
Finito l’appello, veniamo avviati a gruppi di 15 verso l’ingresso del carcere; ci vengono restituiti gli oggetti sequestratici addosso, nel carcere, dopo l’arresto, e qui, ancora una volta si ha la riconferma del disordine.
A Coletti vengono restituiti 500 franchi svizzeri, a molti, documenti delicati. A me, al contrario, non vengono restituite le 5000 lire che avevo nel portafoglio caduto sotto il portone della casa di piazza Castello n. 2 al momento dell’arresto.
Al ritorno al 5° raggio abortisce un tentativo di rinchiuderci nei cameroni al 3° piano. Si formano crocchi sui ballatoi, sulle scale, nei «cameroni». È impossibile, anche ai tedeschi, di stabilire un ordine. Intanto giunge la sera, suonano le otto ma non si parla neppure di partire. Viene posto un milite a guardia al finestrone, e questi ci reca la notizia che «fuori» ci sono assembramenti causati dalla notizia della nostra partenza. Da mezzogiorno la truppa blocca la strada attorno al carcere
È una strana impressione quella di conoscere delle persone e parlare di politica, senza che nessun milite intervenga a troncare il colloquio. È piacevole conoscere …
È ormai tutto buio; evidentemente i tedeschi attendono il coprifuoco per celare la nostra partenza. Infatti, soltanto dopo le dieci veniamo avviati a gruppi, incolonnati per due, verso l’uscita.
Il nostro gruppo, costituito per ordine alfabetico, si sta avviando, quando un compagno viene colto da una crisi di epilessia e viene ricoverato all’ambulatorio.
Mentre sostiamo per un ultimo appello, presso il cancello del «centro raggi» si avvicina ancora Cerra, ci saluta collo sguardo, ma non riesce a proferire verbo; si allontana senza, ormai, neppur nascondere le lagrime. Coraggio, Cerra, ci rivedremo, e presto!
Anche il milite … ci saluta con commozione, poi ci mettiamo in marcia verso l’uscita, e ci arrestiamo dietro il penultimo cancello, in attesa che il gruppo che ci precede salga sui camion.
L’apparato di forza è notevole. Parabellum e fucili mitragliatori ovunque.
Ora Stutz cerca qualcuno nella colonna; la percorre due volte, poi si ferma vicino a me, e «Anche questo passerà - mi dice - tanti auguri». «Grazie, arrivederci, in pace» rispondo io, sorpreso perché mai ho avuto contatto con Stutz, e neppure supponevo mi conoscesse. Egli trova ancora un attimo per replicare «Grazie, ho memoria». Poi si allontana, senza essere stato visto dai suoi compagni.
- Sì, Stutz, ci ricorderemo, ma ricorderemo anche e gli altri …, un altro …
Il tuo saluto ha prodotto su tutti gli astanti l’effetto che tu desideravi. Arrivederci in pace, quando la nostra e la tua patria saranno libere.
Poi, avanti. Il cancello si spalanca, eccoci nell’atrio di S. Vittore. Militi, SS, gendarmi armati fino ai denti (persino i marescialli si degnano di portare un mitragliatore ciascuno in spalla) ci fanno ala.
La parte posteriore di un grosso e sgangherato camion è stata infilata nella porta e noi vi saliamo, mentre i tedeschi, nervosi, irritati, urlano «Loss loss! Fondo fondo!» e spingono 45 persone ad entrare in una gabbia che ne potrà ricevere, normalmente, 20, finché uno dei marescialli entra egli stesso nel camion e a calci e urtoni spinge i primi entrati a stiparsi in modo inverosimile, bestiale, nel buio assoluto del fondo.
Compressi in posizioni inverosimili, aggrappati come si può, sostiamo un tempo che ci pare eterno, nel buio, nel caldo soffocante; poi, come Dio vuole, con grande fracasso, la colonna di camion si avvia e una mezz’ora dopo, colle ossa rotte, sbarchiamo nei sotterranei della stazione centrale, dove colla solita gentilezza veniamo introdotti e subito rinchiusi - sempre in 45 - in un vagone merci dove, anche se non fossimo al buio, non è possibile trovare né un fiasco d’acqua né un bugliolo o alcunché di simile. Ci accoccoliamo, si può ben dire, gli uni sugli altri e, nel calore soffocante, e nel tanfo, attendiamo.
Le ore non passano mai, in compenso passa un ferroviere e audacemente apre tre finestrini, protetti da grate, sulle testate del vagone. Dopo complicate manovre, spostandosi sui binari lateralmente, anche il nostro vagone raggiunge il grande ascensore, e viene issato alla stazione centrale, dove i tedeschi si accorgono dell’apertura dei finestrini e li richiudono. Siamo desolati, il senso di soffocazione aumenta. Ma una mezz’ora dopo troviamo il modo di riaprirne uno. Finalmente, alle 5 del mattino il treno si muove, e... riusciamo ad aprire un secondo finestrino.
Dire delle «gioie del viaggio»? È un po’ difficile. Siamo come i pesci che friggono: non troviamo mai la posizione giusta. Anche alzarsi in piedi è un’impresa notevole. Malagodi e Martello litigano tra di loro per una questione di piedi collocati in faccia; qualcuno riesce a dormire. Manzi, conosciuto in montagna e ritrovato qui, mi comunica che l’avv. May, a Bergamo, è stato condannato a morte. Martinelli mi fa bere del caffè e latte, ho perduto il soprabito, l’aria si è rinfrescata, ho un caldo terribile, mi fa male la gola, non mi abituo a tanto movimento. Così passa la notte, poi un chiarore tenue froda i tedeschi e si insinua nel vagone.
Passano infinite stazioni; è giorno. Passa Parma, effetti disastrosi dei bombardamenti. Passa Reggio: «Qui erano le Officine Reggiane», si potrebbe dire. Siamo a Modena, Carpi. Siamo fermi su un binario morto, nel caldo e nel puzzo, perché abbiamo tutti un corpo, e qualcuno ha dovuto ingegnarsi senza un bugliolo.
L’allenamento della cella ci dà la forza di attendere; viene il momento in cui si apre il vagone. Abbacinati dalla luce ci proiettiamo sul marciapiede, raggiungiamo un bell’autobus nel quale ci stipiamo, ma in modo sopportabile. Notiamo l’assenza di fucili mitragliatori; tedeschi anziani, dall’aspetto più trattabile di quelli fin qui incontrati.

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LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
25 aprile 2017