martedì 20 febbraio 2018

Picasso visto da André Lhote (N.R.F. 1921)


La Nouvelle Revue Française. N.F.R., Gallimard, Paris 1964 - Edizione italiana: La Nouvelle Revue Française. Antologia critica. Scelta e note a cura di Marco Fini e Mario Fusco. Lerici editori, Milano 1965, pp. 152-155.


Picasso e il rispetto per la natura
di André Lhote
1° agosto 1921

Nessun artista esige attenzione e ha bisogno di essere studiato quanto Picasso; nessuno è più di lui adatto a scoraggiare le analisi sommarie che il pubblico preferisce. All’inaugurazione della sua mostra, un poeta, avvezzo a riconoscere a prima vista in una galleria le opere dell’amico, sconcertato dalla loro varietà, incominciò a chiedere: «Ma dove è Picasso in tutto questo?». È opinione generalmente condivisa che il pittore degli Arlecchini non abbia ancora «trovato se stesso»; che egli sia tormentato dai dubbi; che un’intelligenza eccessiva e un occhio troppo esclusivamente rivolto verso se stesso gli impediscano di acquistare quella personalità, alla quale oggi, per la prima volta nella storia dell’arte, pubblico e artisti attribuiscono un’importanza decisiva. La ragione principale di questa incomprensione, pressoché universale, di cui Picasso soffre, risiede probabilmente nella straordinaria potenza fantastica dell’inventore del cubismo; e per fantasia, intendo la fantasia tecnica, che è, in fondo, il solo tipo di fantasia che realmente conti. Infatti, mentre un altro tipo di fantasia (del quale I tre moschettieri e La zattera della Medusa sono i prodotti tipici) seduce facilmente le folle, niente è meno adatto a interessarle di questa rarissima facoltà, che porta a un rinnovamento continuo dei mezzi d’espressione.
L’impressionismo, reagendo all’aneddoto pittoresco e riportando in onore l’oggetto comune, liberò il pittore da mille preoccupazioni di carattere letterario. Eppure, prima dell’avvento del cubismo, troppi insistevano ancora nel trattare i temi più semplici da un punto di vista sentimentale e, quindi, aneddotico. Un’eccessiva compiacenza nel registrare un gioco di luce, il particolare di un tappeto, le pieghe di un materiale, minacciava di allentare e limitare le qualità puramente pittoriche dell’artista. Ma Picasso decise di lavorare sugli stessi temi sino all’esaurimento non delle sue facoltà inventive, ma della sua fantasia, dando così di ogni tema tante interpretazioni quanti erano i motivi d’invenzione che egli poteva in esso trovare. Una chitarra o una ciotola su un tavolino gli fornirono per due anni una fonte inesauribile di idee plastiche. In questa mostra, possiamo vedere due diversi esempi di questa sorta di fotografia, in parte emotiva e in parte intellettuale, da lui applicata alla natura morta.
Un pittore d’altri tempi e di diversa scuola, disorientato da tanto arbitrio, mi domandò alla mostra per quale ragione il pittore cubista si era permesso di rendere così imperfettamente gli oggetti. «Che cosa rimane di quella tazza? - disse. - Una vaga rotondità e una base informe. E i frutti sono ridotti a tre piccoli cubi». Dopo di che, esplose indignato contro le inenarrabili libertà che quel pittore si prendeva con la natura.
Colsi l’occasione per scagliarmi contro il tenero rispetto che per la natura tanti critici professano. Essi dimenticano che anche la pittura ha diritto al loro rispetto, e che gettare uno sguardo distratto sulla superficie delle cose non sarà mai sufficiente a determinare le leggi dell’arte. Perché tanta insistenza nel limitare il campo naturale in cui il pittore può decidere di affermare il proprio dominio?
In questo caso, la natura veniva limitata all’oggetto materiale: una ciotola di porcellana bianca, piena di frutta e dai contorni ben precisi. Ma per il pittore, il solo e unico soggetto, quale egli lo vede, è l’armonia fra il tono della ciotola, quello delle frutta e lo sfondo. Tutto il resto è letteratura. Le tele di Picasso, risultati di un’indagine attenta, molteplice ed esauriente, costituivano la miglior risposta possibile al mio interlocutore. L’immaginazione di costui è limitata, monolitica, e riesce a intravedere soltanto un modo per esprimere la realtà. Una volta dipinto il «ritratto» della natura morta, non c’è più posto nella sua mente per una variazione.
Questo significa che un esercizio così esclusivo permette una completa raffigurazione degli elementi che la sua adorata natura gli ha posto davanti agli occhi? No di certo. La pittura è soprattutto una scelta fra gli elementi contraddittori che uno spettacolo ci presenta. Nessun artista, per quanto fedele ai canoni classici, può creare un’opera senza sacrificare una grande quantità di forze potenziali a quelle che l’abitudine lo induce quasi automaticamente ad adottare. Di conseguenza, quel mio amico, compiendo una scelta premeditata fra le moltissime forme vive possibili, serve una causa contraria a quella che egli esalta. E se anche noi adottiamo l’atteggiamento da lui assunto, non manifestiamo forse una certa mancanza di rispetto per la natura, che invece continuamente si rinnova?
Picasso e, sulla sua scia, i pochissimi artisti che non sono soltanto degli intellettuali, hanno imparato a variare il proprio angolo di visuale, e, trascurando sia le vecchie prospettive sia le forme classiche di espressione, hanno portato alla luce mondi insospettati, irriconoscibili all’occhio opaco di quei pittori che si assoggettano alle direttive della scuola, sia essa ufficiale o libera.
Chiunque dipinga una ciotola nel suo aspetto più consueto, ne riproduce la materia, limitando la sua visione all’anatomia dell’oggetto stesso. Questo metodo è buono, e ci ha dato, fra i tanti maestri, l’ammirevole Chardin. Ma quando, all’osservazione visiva, si aggiunge un nuovo e sensibile approfondimento, e si arriva a esprimere, con tutto il cuore, non soltanto il profumo del frutto, ma quello del giardino dietro la finestra; quando si osa prendere come tema non la ciotola, materiale e palpabile, una forma bianca e ovale nel grigio rettangolo della finestra, ma in essa la verde vegetazione degli alberi oltre il ferro del balcone, nonché lo splendore del cielo azzurro, non .si dà forse prova di un eguale rispetto per la natura?
Vorrei chiedere ai miei cortesi obiettori di lasciar da parte per un momento le proprie prevenzioni e di guardare la grande tela luminosa, di una freschezza impressionistica tale da fare invidia a Matisse, in cui la tovaglia riversa la sua bianchezza sulla parete, il verde di invisibili alberi sguscia fra le sbarre del balcone, e la finestra, infine, permette l’ingresso improvviso di un enorme e aereo globo di blu. Tra la meticolosa enumerazione delle frutta che la ciotola contiene (metodo classico) e la descrizione plastica dell’atmosfera in cui la ciotola è immersa, esiste davvero una grande diversità di intenzioni?
In ambedue i casi - la rappresentazione dell’oggetto (liberato dalle forze circostanti che cospirano contro la sua integrità) e la rappresentazione del suo ambiente pittorico - la Natura viene insieme rispettata e violentata. È impossibile sfuggire a questa alternativa. Esiste infatti un contrasto irrimediabile fra l’oggetto in quanto tale, nella sua materialità, purezza e integrità, e la luce, l’atmosfera che lo qualificano - per non dire di quelle forze psicologiche, di cui un giorno bisognerà tener conto, e che modificano il soggetto per quella che io definirei una reazione della Sensazione.
Picasso deve essere elogiato sotto molti aspetti, ma secondo me egli è soprattutto da elogiare per aver avuto, dopo Cézanne, il coraggio di esprimere, non gli oggetti come abitualmente li vediamo, ma le mille qualità plastiche che li accompagnano, pure restando invisibili agli occhi di osservatori distratti.

PICASSO
UNA SELEZIONE DI OPERE
DAL 1910 AL 1920
in ordine cronologico