lunedì 15 luglio 2019

Picasso. Segreti d'alcova di uno studio


Segreti d’alcova di uno studio
Editori Riuniti, Roma 1966.

Titolo originale: Le peintre et son modèle
Editions Cercle d’Art, Paris 1965

Il giorno in cui Picasso chiamò Segreti d’alcova di uno studio quel vivo miscuglio di opere d’ogni tempo, di oggetti, di materiale, di arnesi disposti tutt’intorno a un pittore che dipinge e che fanno l’atmosfera nella quale l’opera si sviluppa, non sapeva quanta ragione avesse.
Qualcuno si è detto sorpreso, persino indignato per una definizione siffatta. Come se la virtù della pittura fosse messa in discussione.
Ma non è affatto vero che tutti i segreti siano scandalosi. Né è vero, d’altra parte, che le alcove siano ghiotte dei peggiori bocconi dell’amore.
Anzi.
E se io scrivo che Picasso non sapeva quanta ragione avesse, è perché, quando andiamo ad alzare un poco le tende dell’alcova della pittura, ahimé, cerchiamo vanamente i segreti che non ci sono più. Qualche cosa è accaduto, ma noi non c’eravamo. Però ecco lì tutte le prove: il colore ancora fresco, la tela ancora sgualcita, e il disordine del processo… Il solo corpo del reato che abbiamo, la pittura, non prova né dimostra niente. All’infuori del suo tumultuoso svolgersi…


Quando a Vallauris ha dipinto la bambina che salta con la corda, prima ha fatto una tela. Il terreno vi è accennato con un breve tratto. L’ombra, per dir meglio.
Tempo fa ha ricevuta fusa nel bronzo la scultura tratta dallo stesso dipinto che è a Notre Dame de Vie.
Al tempo in cui ne metteva insieme gli elementi, la scultura diventava la maggior ricerca del reale. Quel problema della bambina sospesa per aria non esasperava la pittura.
Ma la scultura doveva trovare il modo di uscirne. Come?
Un giorno Picasso compare tutto felice. Ha lavorato intorno al problema della bambina che salta con la corda sospesa nello spazio.
«Ho trovato - dice - su che riposa la bambina quando è per aria. Sulla corda, naturalmente! Ma come ho fatto a non pensarci prima?»


Nell’alcova dello studio a Notre Dame de Vie, mescolate insieme con tutte le altre, ci sono tre tele con dei colombi. Sono i colombi dipinti alla California. (Non so dove siano le altre tele, ne ha fatte molte.) Alla California, Picasso dipingeva Les Ménines in una camera al terzo piano. Sul balcone aveva costruito da sé la piccionaia. I colombi volavano, tubavano, facevano le uova, le covavano, si ammazzavano fra loro, lì accanto intorno in mezzo a Picasso che dipingeva Les Ménines. Ma anche Les Ménines erano la realtà. E nient’affatto perché le finestre erano le sue o perché il bassotto Lump era al posto del grande cane di Velazquez, così come il dalmata Perro entrava nelle tele dei buffè di Vauvenargues e l’afgano Kaboul nelle tele di Notre Dame de Vie.
Picasso costringeva Velazquez a esprimere una realtà che il suo secolo non poteva concepire. Con la realtà delle Ménines, egli dipingeva la sua realtà del XX secolo.
La pittura è realtà, ma anche una qualunque parte della realtà. Propone al pittore che guarda un quadro lo stesso problema che gli propone il mondo intero. Con l’aggiunta di qualche cosa di più difficile, che è l’anima dell’altro pittore raffigurata in quella realtà.




La realtà, la realtà, la realtà…
Se ne parla tanto che si direbbe non esista. O che la sua esistenza non abbia poi tanta importanza, giacché bisogna battere e ribattere sempre il medesimo chiodo per porvi rimedio.
Tuttavia tante pitture si richiamano alla realtà… Tutte, direi. Si dice che la realtà interiore può astrarre dalla realtà generale ed essere ugualmente una. Quando si parla dell’opera di Picasso, si parla irresistibilmente della realtà, del suo Toson d’oro, del suo Graal.
Una volta egli ha detto: la realtà è una parola che porta dappertutto. La si cucina in tutte le salse.



Il 5 aprile 1960 ha dipinto un piccolo picador tutto nero e un piccolo toro tutto nero che fa impennare il cavallo tutto nero davanti a un piccolo torero tutto nero che agita la cappa. Sono soli nell’arena che si avvolge su se stessa come una chiocciola. Sopra e intorno, un gran cielo e tutti quei puntini sulle gradinate (senza gradinate) che sono la folla. È la corrida. La piccola scena del picador, del matador e del toro tiene col fiato sospeso. L’arena tiene lo spazio.
«Mi piacerebbe - dice Picasso - dipingere una corrida proprio com’è.»
Qualcuno gli risponde: ogni volta che dipingi un toro, un banderillero, una folla, un cavallo, forse non è la corrida proprio com’è? Anche sul fondo di una piccola coppa di terra o di un grande piatto.
«Vorrei farla come la vedo», dice Picasso.
Ma non è così che lui la vede quando la dipinge? Goya, non è così che ha fatto, che ha visto le sue tauromachie?
«Sì. Ma non tutta la corrida, - dice Picasso: - io vorrei farla mettendoci tutto; tutta l’arena, tutta la folla, tutto il cielo e anche il toro com’è e anche il torero e tutta la quadrilla, il banderillero e la musica e poi anche il venditore di cappelli di carta…»
Una vera corrida.
Certo, bisognerebbe fare il toro a grandezza naturale (e lo ha fatto). E l’arena, tutta l’arena intorno?
«Ci vorrebbe una tela grande come l’arena… Spaventoso non poterlo fare… Sarebbe magnifico…»


Tutti i tratti di un volto o di un corpo possono apparire agli occhi dello spettatore anche se sulla tela nessun segno delinea un naso, una bocca, un seno.
Il segno, la macchia, la sua forma, il suo colore, e i rapporti fra loro, hanno «una carica» di realtà. Picasso, in questo inverno 1964, sembra in cerca di una presenza del volto senza desrizione senza enumerazione senza trasposizione senza deformazione, senza niente di ciò che fa il volto, ma che porti tuttavia la carica di un volto.
È ciò che gli fa dire:
«In questo momento, su quelle tele là, dipingo sempre meno».


Quale verità? Dice Picasso. La verità non può esistere.
Se io cerco la verità nella mia tela, posso fare cento tele con questa verità. Allora qual è quella vera? Qual è la verità, quella che mi fa da modella o quello che dipingo? No, è come per tutto il resto. La verità non esiste.
«Ricordo - dice Paulo Picasso - che quand’ero piccolo ti sentivo continuamente dire: “La verità è una menzogna”…»



Si conversa sulla libertà di ricerca, che dà all’artista una tecnica splendida.
«Sì - dice Picasso - ma a una condizione: averne tanta e poi tanta da farla cessare completamente d’esistere. Farla scomparire. A questo punto, ecco, è importante averla. Perché mentre lei fa il suo lavoro, tu ti puoi occupare di ciò che cerchi.»






La libertà, dice Picasso: bisogna stare attenti! In pittura e in tutto il resto. Fate come volete, ma alla fine vi trovate con le catene addosso. La libertà di non fare una cosa, ecco: ciò esige che se ne faccia un’altra, in maniera imperativa. Allora, ecco le catene. Mi viene a mente la storia di Jarry; sapete, quando i soldati anarchici fanno le esercitazioni. Dice: fianco destro! e quelli, perché sono anarchici, fanno tutti fianco sinistro. La pittura è così. Prendi la libertà e ti rinchiudi con la tua idea, proprio la tua e non un’altra. E rieccoti con le catene addosso.



Ancora sulla libertà e sulle catene. Picasso se n’esce fuori:
Vi spiegano che bisogna lasciare ai bambini la loro libertà. In effetti s’impone loro di fare i disegni da bambini. Direi che s’insegna loro a farne. Si è insegnato loro a fare persino disegni astratti da bambini.
Insomma, come di consueto, con il pretesto di lasciare ai bambini la loro libertà, di non ostacolarli, si finisce per imprigionarli nel loro genere, con le loro catene.
Curioso, dice Picasso, io non ho mai fatto disegni da bambini. Mai. Neppure quando ero bambino.
Ricordo uno dei miei primi disegni. Forse avevo sei anni, forse meno. In casa di mio padre, nel corridoio, c’era un Ercole con la clava. Bene. Mi sono messo lì nel corridoio e ho disegnato quell’Ercole. Ma non era un disegno da bambini. Era un vero e proprio disegno che raffigurava Ercole con la clava.




A Mougins nevica. È domenica. Jacqueline si mette al volante e porta via Picasso, a caso, tra quelle montagnole subito là fuori, appena voltate le spalle alla costa. Sono belle, con quei ripidi declivi, quelle gole, quei colli, quelle radure, quelle macchie.
A Picasso e a Jacqueline capita un’avventura. C’è un velo di ghiaccio sotto le ruote; c’è un cielo intensamente azzurro sopra le loro teste. Si divertono a sentirsi soli nel mondo, a non sapere dove vanno. Si perdono. Sono contenti, pazzi, innamorati, avventurosi. Forse stanno per rompersi il collo, e non ci vuole molto, in quella natura magica e nevosa che pare oro ciò che di più bello v’è al mondo. E di più solitario.
(La penna, come si dice, cerca di seguire il filo del loro racconto.)
Perché di questa passeggiata essi parleranno a lungo, come di un viaggio nel paese delle meraviglie, come di un’avventura della quale conserveranno nella mente il piacere dell’imprevisto, della libertà, e il rimpianto. (Per fare più bello il racconto, fu tirato in ballo persino un castello sorto improvvisamente dalla strada, e dalla mente di Picasso. Essi guardano il cortile attraverso il buco della serratura; ed ecco che c’è una festa; ed entrano tutti coperti di neve, con i loro scarponi, nella festa del Grand Meaulnes.)
Tornano felici a Mougins.
Perché raccontare questa passeggiata? I Guerrieri dormivano in sospeso come il loro signore. I pittori e le modelle non erano ancora nati. Ma il 26 dicembre 1962 venne al mondo quella tela blu. Una tela unica, con quelle montagne, quei fianchi di ghiaccio, quei blu di neve, quegli occhi di lago.
Orgoglioso, Picasso annunzia: «Ho fatto un paesaggio».
Cinque giorni dopo è l’ultimo dell’anno. Pomeriggio del 31 dicembre. Picasso dipinge un enorme sonatore di zufolo seduto a gambe larghe, con i gomiti alzati, su una tela per metà blu (il cielo) e per metà verde (l’erba). L’uomo spande la sua musica sull’universo. È una tela carica di felicità, singolarmente ispirata. Un profeta suonava il flauto. Era grande come il mondo. Annunziava tempi nuovi.



A gennaio si possono vedere nello studio tutti i Guerrieri, tutti i loro cavalli e tutte le loro teste, tutte le donne e tutti i bambini, il gatto, il cane crudele e l’aragosta; e, dietro, dei blu che non si sa di dove scappino fuori. E Picasso dice che è proprio curioso, che ha fatto cose piuttosto strane quell’inverno… Dice a Pignon:
«…tu che sei pittore, tu lo sai come succede. Si può durare una fatica da morire, strapparsi la pelle per fare tele che nessuno ti costringe a fare. Anzi, tutti se ne infischiano, non importa niente a nessuno che tu lavori intorno a questa o a quella cosa. Il fatto è che si sceglie sempre il peggio, anche se si sa che a quelli là piacerebbe molto di più un bel mazzo di fiori. Ad ogni modo non gli piacerà. E anche se gli piace, sta sicuro che non sarà affatto per merito della pittura. Però tu, tu pittore, hai lavorato, ed è già molto, ti senti contento. Così te ne vai a passeggio e fai un paesaggio o un brav’uomo che suona lo zufolo. Perché? Perché questo e non Notre Dame? O il ritratto del pappagallo? Te lo dico io perché. Mentre lo fai, ti dà piacere, ti conforta. E l’essenziale è questo.»
Sulle pagine bianche di una «serie nera», quella sera stessa, nella mia camera, ho annotato tutte queste cose perché non volevo dimenticare una frasetta sulla libertà che serviva di conclusione. «Bisogna stare molto attenti a quello che si fa. Perché proprio quando si crede di essere meno liberi, accade che lo si sia di più. E non lo si è affatto quando ci si sentono ali grandissime: quelle ali ci impediscono di camminare.»