giovedì 31 ottobre 2019

Arrampicare ai Corni, 1969-2019 (1/7)


Da un po’ di tempo le Grigne ci stavano strette. Arrampicare accompagnati dai coretti dei gitanti della domenica - tipo: “guarda quelli là in parete”, oppure “quèj lì in màtt” - non rientrava nel nostro Dna. Confesso: sia io che il Beppe soffrivamo di quella forma di timidezza (“due orsi” si diceva) che ci portava alla ricerca di luoghi nascosti dove dar sfogo alla nostra voglia di arrampicare. Fossimo nati vent’anni dopo, non avremmo di certo sfondato nel rutilante mondo dei free-climbers. E fu nella ricerca di altri campi di gioco che un bel giorno capitammo ai Corni di Canzo. Era il 24 marzo 1968, domenica. Il cielo era blu, la neve abbondante.






Due sera prima, al Cai avevamo consultato la guida del Saglio per cercare qualche via da fare e la scelta era caduta, genericamente, sulla Parete Fasana. Ne seguiamo la gengiva in salita. Sopra di noi un chiodo si staglia contro il cielo: la nostra prima via sui Corni ci ha scelto. Inizio a salire su placche, con qualche strapiombino di tanto in tanto. Il cielo è chiuso da un piano inclinato “roverso” che promette giochi d’equilibrio nel vuoto.



Non sappiamo niente di questa via: né chi l’ha aperta, né quale difficoltà presenti, ma in tasca abbiamo le certezze dei vent’anni, quindi niente ci può preoccupare. Trovo lo strapiombo terminale chiodato a pressione. Dopo quattro o cinque, uno di questi chiodi decide di uscire dal suo buco e per la prima volta in vita mia esperimento la goduria del volo. La buona sicurezza del Beppe mi blocca; le mie mani, che automaticamente si sono strette alle corde per frenare la discesa, sanguinano. Buttiamo giù le doppie. Non male come esordio. I Corni ci hanno sfidato. Ritorneremo.[1]






Il 21 del mese dopo siamo di nuovo a Canzo. Stavolta abbiamo ben chiaro in mente cosa fare: la Dell’Oro-Maggi al Corno Centrale, versante sud-est. Da quel che si legge sulla guida di Saglio dovrebbe essere una via tosta, un “sesto grado” dice l’autore. Il primo tiro, con il suo attacco in spaccata, è decisamente non usuale per dei grignaioli: là si trovano appigli e fessure, qui tutto ha forme tondeggianti (appigli a mammelloni scrive da qualche parte il Saglio; che sia stato questo ad attirarci?). Altri due tiri e la via è archiviata.[2]






Stupidamente considerate di “rango minore” rispetto alle Grigne, in quegli anni i Corni offrivano un ambiente silenzioso. Nessun picnic ai piedi delle pareti, nessun cicaleccio sovrapposto al gracchiare delle radioline sintonizzate su “tutto il calcio minuto per minuto”. Troppo bello!
Tutto questo per dire che il 20 luglio siamo di nuovo qui. Tre mesi prima, cercando l’attacco della Dell’Oro-Maggi avevamo “scoperto” uno spigolo evidentemente già salito. Sulla guida del Saglio (stampata nel 1948) non ne esisteva traccia, quindi ancora una volta seguiamo l’istinto. Sarà la prima di una serie di salite (anche in solitaria, per me) del divertente Spigolo Tessari-Riva al Pilastro.[3]


Ma il vero motivo di questa gita è un altro: vogliamo conoscere il Corno che precipita sotto i nostri piedi, l’Orientale. Visto dalla SEV mostra soltanto la sua parte terminale, con un grosso strapiombo a botte, chiuso all’orizzonte dal profilo di un “naso”. Dalla Bocchetta di Luera scendiamo alla sua base e ne cominciamo l’esplorazione. Una larga fessura che sale verso sinistra attira la nostra attenzione: domani la saliremo. Per la notte, il sacco a pelo steso sull’erba e le stelle come soffitto.




L’inizio della via [4] non è male: la fessura è formata dalla parete strapiombante e da una scheggia arrotondata che butta in fuori. Dopo una trentina di metri, in parte fatti col piede destro nella fessura e l’altro nel vuoto, arrivo a un terrazzino dove trovo un chiodo. Sopra vi è uno strapiombino e più in alto il chiodo di sosta. Il Beppe mi raggiunge e mi preparo a ripartire. Nelle manovre tipiche del momento (passaggio dei moschettoni ricuperati, corde da sbrogliare) la mia Pentax Spotmatic trova il tempo per volare (e dai che l’è un vizio su ’sti Corni …). Atterra una quarantina di metri sotto, esplodendo. Giù la doppia. Ricupero l’obiettivo intatto e il rotolino delle diapositive. Torno a casa mesto, il portafogli alleggerito (allora il corpo macchina costava 80 mila lire in Svizzera, 105 mila a Milano …e per me 80 mila lire valevano un mese di lavoro).





[1] Schizzo della parete alla mano (cfr: L’isola senza nome, pp 408-409), oggi posso affermare che fino allo strapiombo terminale abbiamo seguito la Via Elvezio - aperta nel maggio 1965 da Pierlorenzo Acquistapace, Piero Ravà e Angelo Canali; difficoltà d’insieme: TD sostenuto, difficoltà max V, A2 - e di essere volato sui chiodi della Via Direttissima Città di Cantù.
[2] Nota anche come Via dei Tre Tetti, è opera di Darvino Dell’Oro e Dante Maggi (11 agosto 1947). Oggi è data per TD superiore, con difficoltà max di VI, A2.
[3] Nota tecnica: Pilastro Maggiore o Gian Maria, spigolo SE, prima ascensione Giorgio Tessari, Alfonso Riva, 1965; difficoltà max A1, IV.
[4] È il primo tiro della Don Arturo Pozzi - salita nel luglio 1964 da Giorgio Tessari e Antonio Rusconi; V+, V, A1.

giovedì 17 ottobre 2019

Arte e Moda. La Leopolda nel 1996


Torna la Leopolda - quest’anno per la sua decima edizione - dal 18 al 20 ottobre, a Firenze, come sempre. Iscriviti qui e sarai tra i primi a ricevere informazioni sull’evento e sulle possibilità di dare una mano a renderla possibile. L’evento del decennale sarà un momento unico, e servirà l’aiuto di tutti per renderlo indimenticabile. Ci vediamo a Firenze!

Con queste parole i Comitati Azione Civile presentano Leopolda 10, una kermesse politico-economica utile a finanziare un altro gruppo politico di stampo padronale.
In realtà, per i vecchi fiorentini che ne hanno memoria, il nome Leopolda riporta alla prima stazione ferroviaria costruita a Firenze - e chi fosse interessato a conoscerne la storia sul web trova buone informazioni.

* * *

La Stazione Leopolda entra nella mia vita nell’ormai lontano 1996, quando decisi di far visita alle installazioni della Biennale di Firenze, un evento ottimamente descritto da Paolo Vaghezzi per La Repubblica del 20 settembre 1996, che qui riprendo.

La moda entra nel museo
La Biennale di Firenze dedicata agli stilisti.
Gli Uffizi, l’Accademia, l’antica stazione Leopolda
diventano teatro delle loro creazioni.
Una manifestazione che divide i critici

“Tagliare è pensare e vedere”. Questa frase di Germano Celant, un vero doppio senso, dovrebbe essere incisa sull’altare dell’arte dove ora si celebrano i riti della moda. L’altare di cui si parla, e dove officiano decine di artisti e di stilisti, è di un’ampiezza spaventosa perché è quello che ha messo a disposizione la Biennale di Firenze: è formato da musei carichi di storia come gli Uffizi e la galleria dell’Accademia, nonché da luoghi restaurati, come l’antica stazione Leopolda, o costruiti per l’ occasione come i sette padiglioni che Arata Isozaki ha innalzato nel prato del Forte di Belvedere, cubi e cilindri di legno, con il giallo, il verde dell’autunno, che si confrontano con il panorama di Firenze e la cupola del Brunelleschi.
È dunque un viaggio infinito quello della Biennale, vivace ed eccitante, zeppo anche di lustrini, di appuntamenti mondani, di stilisti come Armani o Valentino che dichiarano di essere “onorati” per l’accoglienza che gli hanno riservato i musei del capoluogo toscano, un viaggio che ridisegna i rapporti tra Firenze e l’ arte contemporanea, sempre negletta e dimenticata in questa città, a conclusione del quale si dovrebbe trarre una lezione: la moda è ormai entrata a pieno titolo tra i linguaggi dell’espressività contemporanea. Lo sottolinea Celant, che con Luigi Settembrini e Ingrid Sischy è il curatore della Biennale. E comunque, come dice la Sischy, è “una provocazione a tempo determinato perché durerà solo tre mesi”: la manifestazione inizierà domani e si concluderà il 15 dicembre.
La provocazione è sicuramente riuscita perché storici e critici sono divisi dalle tesi della manifestazione e lo saranno ancor di più dopo la visita alle mostre, presentate alla stampa fin da ieri, cariche di luci ma anche di qualche ombra. Le esposizioni sono sette: quattro monografiche e tre tematiche, giocate sull’incontro scontro arte e moda. Una Visitors, occupa l’intero territorio dei musei essendo coinvolte, tra il capoluogo toscano e Prato, ben sedici istituzioni, da palazzo Vecchio al museo del Bigallo. Sì, gli stilisti sono entrati nelle cattedrali della cultura con i loro abiti. Il risultato? Chi ha puntato sull’ironia, come Jean Paul Gaultier alla Specola, o Philip Treacy al museo degli argenti di palazzo Pitti, ha centrato l’obiettivo. Chi invece, come Valentino, s’è scontrato con un mito rinascimentale è rimasto sconfitto. I suoi abiti da sera, diciotto, tutti rosso fuoco, sono ben poca cosa di fronte al David di Michelangelo.
Si è salvato Armani con quattordici abiti dai colori tenui, piazzati all’ inizio del corridoio di levante degli Uffizi, che si confondono tra i dipinti della serie gioviana e le sculture romane della collezione medicea. Ferré invece ha scelto la via dell’architettura, ha lavorato sulla struttura delle antiche crinoline e le ha sospese all’ interno della cappella dei principi delle cappelle medicee. Sembrano macchine misteriose, splendidamente illuminate, dai colori che contrastano con l’austerità della cappella. Hanno provocato uno shock a Licia Bertani, che è la direttrice. Ma, sostiene Gae Aulenti, è un’esperienza unica, esemplare per la sperimentazione. E non sono gli unici luoghi dove è atterrata questa “nave spaziale”, come la definisce Celant, e gli sconfinamenti sono più forti in altre zone. Cominciamo dal Forte di Belvedere. La palazzina offre la storia: gli artisti che si sono ispirati al tema dell’abito, dai costruttivisti russi alla canadese Jana Sterbak, che vuol proporre un abito formato da sottili fette di carne (in difficoltà perché il taglio della bistecca fiorentina è diverso da quello del Canada), a Fontana, a Beuys, al gigantesco strascico di Beverly Semmes.
I padiglioni di Isozaki ospitano la contemporaneità: abiti e installazioni, con qualche piccola provocazione come quella di Damien Hirst che con le borse di Miuccia Prada espone un pony, una capretta tibetana, conigli, galline. Gli animali guardano i visitatori che guardano lo stilista. Ma al Forte i due mondi, quello dell’arte contemporanea e degli stilisti, come è ben chiaro anche nel padiglione Versace-Lichtenstein, restano divisi. Diventano un unico universo, una sola galassia alla stazione Leopolda perché qui non ci sono abiti, ma creazioni, installazioni: una stanza per l’artista e una per lo stilista, che liberato dai problemi industriali ha un proprio linguaggio, che non è quello della passerella.
E l’intervento minimal di Armani, pannelli di stoffa, quasi si confonde con il reggiseno gigante di Acconci, mentre le foto di Cindy Sherman e l’installazione di David Bowie si mischiano con le colonne colorate di Missoni, il cuore labirinto di Moschino o i manichini di legno di Yamamoto, che sembrano scheletri scarnificati. Intorno le quattro monografiche: lo splendido omaggio di palazzo Pitti a Emilio Pucci, le foto di Bruce Weber nel museo Ferragamo, Pistoletto al Pecci di Prato, gli occhiali e gli abiti folli di Elton John nella sala delle Regie Poste degli Uffizi. È questa la Biennale di Firenze di cui, sicuramente, si discuterà ancora a lungo, occasione unica perché al prossimo appuntamento probabilmente cambierà tema.

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Il connubio tra Arte e Moda mi era sembrato interessante e, se positivo, da utilizzare per il mio annuale calendario fotografico, stampato in 1000 copie e distribuito in ogni continente. Una volta a Firenze, mi sono trovato all’interno di ambienti bui, rischiarati da luci artificiali di ogni genere e l’avere un solo corpo macchina e pellicole diapositive 50 Asa mi ha reso tutto più complicato, quindi più interessante.
La scarsità di luce - detesto l’uso del flash, il grande falsario - mi ha costretto a lavorare per lo più con 1 secondo di posa a diaframma 1,4, un’apertura che rende immagini prive di profondità di campo, problema risolto decidendo di volta in volta quale punto mettere a fuoco, lasciando sfocato tutto il resto. Inoltre, la pellicola per luce diurna cattura tutte le dominanti gialle, cyan e verdi tipiche delle luci artificiali; una bella gatta da pelare, ma ho usato il difetto per trarne fotografie veritiere: mostro quello che i miei occhi hanno visto, senza alterazioni.
In tempi recenti ho passato le diapositive in uno scanner e così, grazie alla tecnologia digitale, ho dato una nuova vita alle immagini scattate nella Palazzina del Belvedere, in Palazzo Pitti, negli Uffizi, alla Specola, nelle Cappelle Medicee e alla Leopolda, la dismessa stazione ferroviaria che nel 1996 mi si era presentata come un tunnel buio con postazioni visibili solo grazie a tante luci artificiali, una metafora che mi pone qualche riflessione.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Firenze, ottobre 1996