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domenica 15 marzo 2015

Picasso a Vallauris - di Antonello Trombadori


Inserisco uno scritto di Antonello Trombadori
che integra il mio post
Picasso a Vallauris

Parlo con la pittura[1]

Queste notizie e questi pensieri ci sono stati trasmessi dal critico Antonello Trombadori, che sull’argomento aveva già scritto in precedenza due articoli: il primo sul settimanale «Vie Nuove», Roma, 25 gennaio 1953; il secondo sul quotidiano «l’Unità», Roma, 9 luglio 1958.[2] Di particolare interesse, per la loro rarità, sono i riferimenti che Picasso fa alla sua pittura di paesaggio.

Nel giugno del 1958 andai a trovare Picasso alla «Californie». Si sarebbe dovuto inaugurare il Tempio della pace con la definitiva collocazione nella vecchia cappella a cunicolo di Vallauris dei due grandi pannelli La Guerra e la Pace, dipinti nel 1952, e della lunetta terminale quasi ancor fresca di colore.
Con pretestuosi motivi di «sicurezza» (la cappella non aveva doppia uscita), un’ordinanza di polizia impedì che la cerimonia si svolgesse secondo le previsioni. Finimmo così in pochi amici per festeggiare ugualmente Picasso nel giardino della «Californie», dove egli stesso sistemò a terra gli elementi della lunetta: quattro figure sagomate, bianco, giallo, rosso, nero, le quattro razze umane, sollevanti, da una base verde contro un mondo azzurro, la colomba della pace. Lo stesso insieme che si può oggi ammirare nell’abside della cappella di Vallauris, priva ancora di doppia uscita. Il motivo della proibizione disposta dal ministro gollista Berthoin fu, infatti, nel 1958, stupidamente politico.[3]
«Io non faccio discorsi» disse Picasso. «Io parlo con la pittura. È per questo che oggi hanno voluto impedire l’apertura del Tempio della pace. Le guerre condotte contro il popolo sono sempre gravide di fascismo. Così accadde nel ’36 con Franco. Mi viene in mente che ai tempi in cui la Spagna perdeva le Fiandre, i Paesi Bassi e tutto il suo impero, un pittore di blasoni eseguì per il monarca, a guisa di emblema araldico, un sistema con secchia e verricello. Il cartiglio sentenziava: Plus on lui enlève - plus il est grand».
È un tipico esempio dell’ironia di Picasso, sempre polivalente, mai ambigua. Alludeva a se stesso, a quel monarca della pittura che più riceve colpi e più è trionfatore, ovvero al popolo inesauribile fonte di energia, ovvero, con amarezza, al pozzo senza fondo della stupidità umana? Tutte le versioni dell’apologo funzionano egregiamente, come in un ritratto di Picasso dove l’orrido e il bello, il normale e l’anormale, sono intercambiabili e formano una compiuta ma sempre aperta unità. A me tornano a mente le parole pronunciate da Picasso sei anni prima, quando mi mostrò, nel capannone di Vallauris che gli era servito da luogo di lavoro, Il massacro in Corea e le pitture, appena terminate, de La Guerra e la Pace.
«Per raffigurare il volto della guerra» mi disse in quella occasione «non ho mai pensato ad alcun attributo particolare, salvo quello della mostruosità. Tanto meno all’elmetto o alla divisa del soldato americano, o di qualunque altro esercito. Io non ho nulla contro gli americani. Io sto dalla parte degli uomini, di tutti gli uomini. Per questo non ho saputo immaginare il volto della guerra separato da quello della pace. Anche la pace non m’è venuta in mente con altri attributi che quelli dell’assoluto appagamento dei bisogni umani e della piena libertà degli uomini sulla terra. L’arte deve porre un’alternativa. Vorrei che la mia opera aiutasse gli uomini a scegliere dopo averli obbligati a riconoscersi, secondo la loro autentica vocazione, in una delle mie immagini. Tanto peggio per chi, essendo costretto a riconoscersi nei mostri della guerra, sarà ancora tanto debole da non saper cambiare strada».
Il giorno dopo andammo a colazione sulla collina di Mougins. Da quell’altezza riappare in natura lo stesso paesaggio della baia di Cannes che Picasso ha più volte iperbolizzato sulla tela. Mi disse:
«Bisogna tornare a dipingere il paesaggio con gli occhi. Per vedere una cosa occorre vederle tutte. Il paesaggio si deve dipingere con gli occhi e non con i pregiudizi che stanno nella nostra testa. Magari con gli occhi chiusi,» corresse per timore di avere esagerato «ma con gli occhi».
A quel punto due piccoli aerei volteggiarono tra le sponde delle colline.
«Sono farfalle in amore» commentò Picasso. «Ricordo due versi di Apollinaire per un mio vecchio disegno, un disegno di pecore e capre che brucavano. Apollinaire scrisse: “Mes enfants si vous ne serez pas sages / vous ne mangerez plus du paysage. Davvero l’uomo non mangia che paesaggio, e se è un fatto che il paesaggio muta nel tempo non è detto che esso debba forzatamente mutare per le follie degli uomini, le guerre, le brutture edilizie. L’avvertimento di Apollinaire era perfetto: figli miei, se non sarete buoni...».
Poi, tornando al tema del paesaggio dipinto con gli occhi e puntando il dito in direzione di un’enorme tazza di porcellana isolante all’incrocio dei fili dell’alta tensione, disse: «Sarebbe bello dipingere quel solo particolare. Ma per capirlo e trasformarlo in immagine occorre dipingere l’intera veduta che lo fa esistere così. Non è possibile dipingerlo direttamente senza tutte le sue infinite relazioni. Una volta dipinsi un paesaggio interminabile: colline, terrazze, mare, alberi e non so più che cosa. A un certo punto trovai sul mio cammino una pesca. La dipinsi con attenzione ed evidenza, con avidità. Alla fine mi accorsi che di tutto il resto non m’importava nulla. Volevo dipingere proprio quella pesca. Ma la pesca da sola non avrei nemmeno saputo vederla».


Queste note a pie' di pagina sono di Giancarlo Mauri


[1] Estratto da: Pablo Picasso. Scritti, a cura Mario de Micheli, SE 1998.
[2] L’articolo, pubblicato domenica 6 luglio e non il 9 come scritto nella presentazione, si legge qui:
Ve ne propongo l’incipit:
CANNES, luglio - Nei giorni stessi in cui il ministro gollista Berthoin vietava l’inaugurazione del «Tempio della Pace» di Vallauris, il governo francese riammetteva in patria, a piede libero, l’ex ministro dell’Educazione Nazionale di Vichy, Abel Bonnard, condannato a morte per intelligenza col nemico nel 1945 e vissuto tredici anni in Ispagna sotto la benevola protezione di quei vescovi e di Francisco Franco.
I lettori conoscono la storia del sorpruso di Vallauris ma non è male ricordarla alla luce di questa eloquente coincidenza. Come non è male sapere che la motivazione della Direzione dei Musei di Francia per impedire l’apertura del «Tempio della Pace» («la vecchia cappella non ha una uscita di sicurezza») è una sciocca menzogna: poco lontano da Vallauris, a Villefranche, un’altra vecchia cappella priva di doppia uscita, ma tuttora consacrata e decorata dagli affreschi religiosi di Matisse, è da tempo aperta al pubblico senza avere mai attirato la vigilanza delle autorità. […]
[3] L’Unità, venerdì 4 luglio 1958, pagina 8:
PARIGI, 3 - Il governo De Gaulle, con un nuovo gesto arbitrario, ha proibito la grande manifestazione repubblicana che il comitato di resistenza contro il fascismo aveva deciso di organizzare in Piazza della Repubblica il prossimo 14 luglio, 169. anniversario della presa della Bastiglia.
Proprio ieri, nel corso della sua conferenza stampa, André Malraux aveva detto: «Noi vi chiediamo di giudicarci in base in base alle nostre azioni né più né meno». Dopo di che, avendo De Gaulle congedato il Parlamento, sequestrato recentemente i settimanali «France Observateur» e «l’Express», interdetto l’accesso al Tempio della pace di Picasso e messo in soffitta il 14 luglio (il tutto in poco più di un mese d’attività), si può dedurre che il generale ha il più sovrano disprezzo della democrazia e delle tradizioni democratiche francesi. […]