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lunedì 15 luglio 2019

Picasso. Segreti d'alcova di uno studio


Segreti d’alcova di uno studio
Editori Riuniti, Roma 1966.

Titolo originale: Le peintre et son modèle
Editions Cercle d’Art, Paris 1965

Il giorno in cui Picasso chiamò Segreti d’alcova di uno studio quel vivo miscuglio di opere d’ogni tempo, di oggetti, di materiale, di arnesi disposti tutt’intorno a un pittore che dipinge e che fanno l’atmosfera nella quale l’opera si sviluppa, non sapeva quanta ragione avesse.
Qualcuno si è detto sorpreso, persino indignato per una definizione siffatta. Come se la virtù della pittura fosse messa in discussione.
Ma non è affatto vero che tutti i segreti siano scandalosi. Né è vero, d’altra parte, che le alcove siano ghiotte dei peggiori bocconi dell’amore.
Anzi.
E se io scrivo che Picasso non sapeva quanta ragione avesse, è perché, quando andiamo ad alzare un poco le tende dell’alcova della pittura, ahimé, cerchiamo vanamente i segreti che non ci sono più. Qualche cosa è accaduto, ma noi non c’eravamo. Però ecco lì tutte le prove: il colore ancora fresco, la tela ancora sgualcita, e il disordine del processo… Il solo corpo del reato che abbiamo, la pittura, non prova né dimostra niente. All’infuori del suo tumultuoso svolgersi…


Quando a Vallauris ha dipinto la bambina che salta con la corda, prima ha fatto una tela. Il terreno vi è accennato con un breve tratto. L’ombra, per dir meglio.
Tempo fa ha ricevuta fusa nel bronzo la scultura tratta dallo stesso dipinto che è a Notre Dame de Vie.
Al tempo in cui ne metteva insieme gli elementi, la scultura diventava la maggior ricerca del reale. Quel problema della bambina sospesa per aria non esasperava la pittura.
Ma la scultura doveva trovare il modo di uscirne. Come?
Un giorno Picasso compare tutto felice. Ha lavorato intorno al problema della bambina che salta con la corda sospesa nello spazio.
«Ho trovato - dice - su che riposa la bambina quando è per aria. Sulla corda, naturalmente! Ma come ho fatto a non pensarci prima?»


Nell’alcova dello studio a Notre Dame de Vie, mescolate insieme con tutte le altre, ci sono tre tele con dei colombi. Sono i colombi dipinti alla California. (Non so dove siano le altre tele, ne ha fatte molte.) Alla California, Picasso dipingeva Les Ménines in una camera al terzo piano. Sul balcone aveva costruito da sé la piccionaia. I colombi volavano, tubavano, facevano le uova, le covavano, si ammazzavano fra loro, lì accanto intorno in mezzo a Picasso che dipingeva Les Ménines. Ma anche Les Ménines erano la realtà. E nient’affatto perché le finestre erano le sue o perché il bassotto Lump era al posto del grande cane di Velazquez, così come il dalmata Perro entrava nelle tele dei buffè di Vauvenargues e l’afgano Kaboul nelle tele di Notre Dame de Vie.
Picasso costringeva Velazquez a esprimere una realtà che il suo secolo non poteva concepire. Con la realtà delle Ménines, egli dipingeva la sua realtà del XX secolo.
La pittura è realtà, ma anche una qualunque parte della realtà. Propone al pittore che guarda un quadro lo stesso problema che gli propone il mondo intero. Con l’aggiunta di qualche cosa di più difficile, che è l’anima dell’altro pittore raffigurata in quella realtà.




La realtà, la realtà, la realtà…
Se ne parla tanto che si direbbe non esista. O che la sua esistenza non abbia poi tanta importanza, giacché bisogna battere e ribattere sempre il medesimo chiodo per porvi rimedio.
Tuttavia tante pitture si richiamano alla realtà… Tutte, direi. Si dice che la realtà interiore può astrarre dalla realtà generale ed essere ugualmente una. Quando si parla dell’opera di Picasso, si parla irresistibilmente della realtà, del suo Toson d’oro, del suo Graal.
Una volta egli ha detto: la realtà è una parola che porta dappertutto. La si cucina in tutte le salse.



Il 5 aprile 1960 ha dipinto un piccolo picador tutto nero e un piccolo toro tutto nero che fa impennare il cavallo tutto nero davanti a un piccolo torero tutto nero che agita la cappa. Sono soli nell’arena che si avvolge su se stessa come una chiocciola. Sopra e intorno, un gran cielo e tutti quei puntini sulle gradinate (senza gradinate) che sono la folla. È la corrida. La piccola scena del picador, del matador e del toro tiene col fiato sospeso. L’arena tiene lo spazio.
«Mi piacerebbe - dice Picasso - dipingere una corrida proprio com’è.»
Qualcuno gli risponde: ogni volta che dipingi un toro, un banderillero, una folla, un cavallo, forse non è la corrida proprio com’è? Anche sul fondo di una piccola coppa di terra o di un grande piatto.
«Vorrei farla come la vedo», dice Picasso.
Ma non è così che lui la vede quando la dipinge? Goya, non è così che ha fatto, che ha visto le sue tauromachie?
«Sì. Ma non tutta la corrida, - dice Picasso: - io vorrei farla mettendoci tutto; tutta l’arena, tutta la folla, tutto il cielo e anche il toro com’è e anche il torero e tutta la quadrilla, il banderillero e la musica e poi anche il venditore di cappelli di carta…»
Una vera corrida.
Certo, bisognerebbe fare il toro a grandezza naturale (e lo ha fatto). E l’arena, tutta l’arena intorno?
«Ci vorrebbe una tela grande come l’arena… Spaventoso non poterlo fare… Sarebbe magnifico…»


Tutti i tratti di un volto o di un corpo possono apparire agli occhi dello spettatore anche se sulla tela nessun segno delinea un naso, una bocca, un seno.
Il segno, la macchia, la sua forma, il suo colore, e i rapporti fra loro, hanno «una carica» di realtà. Picasso, in questo inverno 1964, sembra in cerca di una presenza del volto senza desrizione senza enumerazione senza trasposizione senza deformazione, senza niente di ciò che fa il volto, ma che porti tuttavia la carica di un volto.
È ciò che gli fa dire:
«In questo momento, su quelle tele là, dipingo sempre meno».


Quale verità? Dice Picasso. La verità non può esistere.
Se io cerco la verità nella mia tela, posso fare cento tele con questa verità. Allora qual è quella vera? Qual è la verità, quella che mi fa da modella o quello che dipingo? No, è come per tutto il resto. La verità non esiste.
«Ricordo - dice Paulo Picasso - che quand’ero piccolo ti sentivo continuamente dire: “La verità è una menzogna”…»



Si conversa sulla libertà di ricerca, che dà all’artista una tecnica splendida.
«Sì - dice Picasso - ma a una condizione: averne tanta e poi tanta da farla cessare completamente d’esistere. Farla scomparire. A questo punto, ecco, è importante averla. Perché mentre lei fa il suo lavoro, tu ti puoi occupare di ciò che cerchi.»






La libertà, dice Picasso: bisogna stare attenti! In pittura e in tutto il resto. Fate come volete, ma alla fine vi trovate con le catene addosso. La libertà di non fare una cosa, ecco: ciò esige che se ne faccia un’altra, in maniera imperativa. Allora, ecco le catene. Mi viene a mente la storia di Jarry; sapete, quando i soldati anarchici fanno le esercitazioni. Dice: fianco destro! e quelli, perché sono anarchici, fanno tutti fianco sinistro. La pittura è così. Prendi la libertà e ti rinchiudi con la tua idea, proprio la tua e non un’altra. E rieccoti con le catene addosso.



Ancora sulla libertà e sulle catene. Picasso se n’esce fuori:
Vi spiegano che bisogna lasciare ai bambini la loro libertà. In effetti s’impone loro di fare i disegni da bambini. Direi che s’insegna loro a farne. Si è insegnato loro a fare persino disegni astratti da bambini.
Insomma, come di consueto, con il pretesto di lasciare ai bambini la loro libertà, di non ostacolarli, si finisce per imprigionarli nel loro genere, con le loro catene.
Curioso, dice Picasso, io non ho mai fatto disegni da bambini. Mai. Neppure quando ero bambino.
Ricordo uno dei miei primi disegni. Forse avevo sei anni, forse meno. In casa di mio padre, nel corridoio, c’era un Ercole con la clava. Bene. Mi sono messo lì nel corridoio e ho disegnato quell’Ercole. Ma non era un disegno da bambini. Era un vero e proprio disegno che raffigurava Ercole con la clava.




A Mougins nevica. È domenica. Jacqueline si mette al volante e porta via Picasso, a caso, tra quelle montagnole subito là fuori, appena voltate le spalle alla costa. Sono belle, con quei ripidi declivi, quelle gole, quei colli, quelle radure, quelle macchie.
A Picasso e a Jacqueline capita un’avventura. C’è un velo di ghiaccio sotto le ruote; c’è un cielo intensamente azzurro sopra le loro teste. Si divertono a sentirsi soli nel mondo, a non sapere dove vanno. Si perdono. Sono contenti, pazzi, innamorati, avventurosi. Forse stanno per rompersi il collo, e non ci vuole molto, in quella natura magica e nevosa che pare oro ciò che di più bello v’è al mondo. E di più solitario.
(La penna, come si dice, cerca di seguire il filo del loro racconto.)
Perché di questa passeggiata essi parleranno a lungo, come di un viaggio nel paese delle meraviglie, come di un’avventura della quale conserveranno nella mente il piacere dell’imprevisto, della libertà, e il rimpianto. (Per fare più bello il racconto, fu tirato in ballo persino un castello sorto improvvisamente dalla strada, e dalla mente di Picasso. Essi guardano il cortile attraverso il buco della serratura; ed ecco che c’è una festa; ed entrano tutti coperti di neve, con i loro scarponi, nella festa del Grand Meaulnes.)
Tornano felici a Mougins.
Perché raccontare questa passeggiata? I Guerrieri dormivano in sospeso come il loro signore. I pittori e le modelle non erano ancora nati. Ma il 26 dicembre 1962 venne al mondo quella tela blu. Una tela unica, con quelle montagne, quei fianchi di ghiaccio, quei blu di neve, quegli occhi di lago.
Orgoglioso, Picasso annunzia: «Ho fatto un paesaggio».
Cinque giorni dopo è l’ultimo dell’anno. Pomeriggio del 31 dicembre. Picasso dipinge un enorme sonatore di zufolo seduto a gambe larghe, con i gomiti alzati, su una tela per metà blu (il cielo) e per metà verde (l’erba). L’uomo spande la sua musica sull’universo. È una tela carica di felicità, singolarmente ispirata. Un profeta suonava il flauto. Era grande come il mondo. Annunziava tempi nuovi.



A gennaio si possono vedere nello studio tutti i Guerrieri, tutti i loro cavalli e tutte le loro teste, tutte le donne e tutti i bambini, il gatto, il cane crudele e l’aragosta; e, dietro, dei blu che non si sa di dove scappino fuori. E Picasso dice che è proprio curioso, che ha fatto cose piuttosto strane quell’inverno… Dice a Pignon:
«…tu che sei pittore, tu lo sai come succede. Si può durare una fatica da morire, strapparsi la pelle per fare tele che nessuno ti costringe a fare. Anzi, tutti se ne infischiano, non importa niente a nessuno che tu lavori intorno a questa o a quella cosa. Il fatto è che si sceglie sempre il peggio, anche se si sa che a quelli là piacerebbe molto di più un bel mazzo di fiori. Ad ogni modo non gli piacerà. E anche se gli piace, sta sicuro che non sarà affatto per merito della pittura. Però tu, tu pittore, hai lavorato, ed è già molto, ti senti contento. Così te ne vai a passeggio e fai un paesaggio o un brav’uomo che suona lo zufolo. Perché? Perché questo e non Notre Dame? O il ritratto del pappagallo? Te lo dico io perché. Mentre lo fai, ti dà piacere, ti conforta. E l’essenziale è questo.»
Sulle pagine bianche di una «serie nera», quella sera stessa, nella mia camera, ho annotato tutte queste cose perché non volevo dimenticare una frasetta sulla libertà che serviva di conclusione. «Bisogna stare molto attenti a quello che si fa. Perché proprio quando si crede di essere meno liberi, accade che lo si sia di più. E non lo si è affatto quando ci si sentono ali grandissime: quelle ali ci impediscono di camminare.»





mercoledì 25 giugno 2014

Picasso a Mougins


Parigi, 1936. Ai Deux Magots Picasso incontra Henriette Theodora Markovitch, in arte Dora Maar, fotografa, ed è (quasi) subito amore. Piccola, capelli scuri, intellettuale, Dora è l’esatto contrario di Marie-Théresè Walter, l’alta, bionda e giovanissima donna con cui vive dopo essersi separato da Ol’ga Kholkhova, la madre di Paul. Poi arriva l’estate e Dora Maar lascia Parigi per Saint-Tropez, dove i suoi hanno una casa, mentre Picasso, con Marie-Thérèse e la loro figlia Maya, prende casa a Mougins.
Parigi 1937. Ol'ga e Picasso si separano ufficialmente ma non possono divorziare: in Francia valgono le leggi in vigore nel Paese del marito e la Spagna non concede il divorzio, quindi i due saranno obbligati ad essere sposati fino al 1955, l’anno della morte di lei. Ma adesso Picasso ha un nuovo problema: il tribunale ha regalato il castello di Boisgeloup a Ol’ga e lui, privato di uno studio di grandi dimensioni, sui vede costretto ad affittare dal mercante d’arte Vollard la vecchia casa da lui comperata a Le-Tremblay-sur-Mauldre. Sistemate le questioni logistico-immobiliari, Picasso e la sua nuova fiamma possono scendere al Sud e godersi l’estate a Mougins.
Prevista, ecco arrivare una nuova guerra e ogni vita ne è sconvolta. Trascorsa l’estate del 1939 ad Antibes nell’appartamento lasciato libero da Man Ray, il 1° settembre Picasso e Dora sfollano a Royan, dove scendono all’Hôtel du Tigre. Quattro mesi dopo i due cambiano alloggio spostandosi all’ultimo piano della villa Les Voiliers e qui vi restano fino a marzo, quando Picasso decide di tornare a Parigi.
1945. La guerra è finita, Dora Maar è già un ricordo. Picasso ha una nuova compagna, la pittrice Françoise Gilot, ed è con lei che trascorre l’agosto e la maggior parte dell’anno successivo a Golfe-Juan, Antibes, Ménerbes. Dalla loro unione nasceranno due figli (Claude nel 1947 e Paloma nel 1949) e un trauma: nel 1953 la paranoica Gilot lascia Vallauris e ritorna a Parigi, dove Picasso le aveva comperato due piani di un palazzo, portandosi appresso i figli. La sua relazione con un greco conosciuto nella capitale durerà solo tre mesi... poi tornerà per l'estate nel Sud, ospite di Picasso.
A lenire i primi infelici momenti del pittore provvede Geneviève Laporte, ma è un amore di breve durata perché alla Madoura Pottery Picasso ha modo di conoscere Jacqueline Roque, una donna da poco divorziata da André Hutin - chi lo dice un ingegnere, chi un modesto impiegato statale - sposato nel 1946 e al momento residente in Sud Africa, da cui ha avuto una figlia, Kathy, detta Catherine. I due s’innamorano e lei lo segue nella casa di Vallauris.
Nel 1955 all’ospedale Beau-Soleil di Cannes muore Ol’ga Kholklova, fatto che libera Picasso dal vincolo matrimoniale. Lo stesso anno, alla ricerca di un nuovo studio (una costante, questa, di Picasso: una nuova donna, una nuova casa, un nuovo studio) il pittore è sedotto da una brutta villa che include nel prezzo una sua fetta di storia: agli inizi del Novecento Eugéne Tripet, console di Francia a Mosca, regala come dono di nozze a sua figlia Alexandra un terreno sulla collina de la Californie, quella che separa Cannes da Golfe-Juan. Nel 1903 il visconte de Salignac-Fénelon, marito di Alexandra, incarica l’architetto Piquart d’Epernay di progettare una residenza invernale per la coppia, ma - anche a causa della Grande guerra - solo nel 1920 e sotto la direzione di Louis Hourlier, architetto di Cannes, sarà innalzata Villa Fénelon, altrimenti nota come Villa de la Californie. Lo stile eclettico con ricchi ornamenti sulla facciata, opera dello scultore Vidal, le tegole del tetto verniciate di colore verde e un grande giardino di cactus seducono Picasso, che l’acquista nel 1955.
L’anno dopo, complice l’intermediazione di Robert Capa, Picasso accetta di ospitare per alcuni mesi il fotografo David Douglas Duncan, inviato da Life Magazine per fotografare tutti i quadri che il pittore ha sempre voluto tenere presso di sé, molti dei quali fino ad allora sconosciuti. La simpatia subito scattata tra Picasso e Duncan ha fatto sì che il padrone di casa abbia consentito di riprendere alcuni attimi della sua vita privata, scatti pubblicati nel ricercato volume Picasso’s Picassos edito nel 1961 (coedizione italiana: I Picasso di Picasso; stampatori: Imprimerie Centrale, Lousanne, e Officine Grafiche Garzanti, Milano) e ora anche su internet digitando David Duncan Picasso's Picassos.
La presenza dell'artista attira gli speculatori e in breve tempo la collina si riempie di nuovi immobili, col risultato che nel 1959 Picasso e Jacqueline si trasferiscono in un'altra proprietà del pittore, il castello di Vauvenargues.
Il 1961 è un anno decisivo. A causa della costruzione di un condominio che gli impedisce la vista sul mare Picasso abbandona al suo destino la Villa de la Californie (ribattezzato Pavillon de Flore, l’immobile e tutte le opere e l'arredamento in esso contenute saranno ereditate nel 1980 dalla nipote Marina). Lo stesso anno Picasso sposa Jacqueline Roque e insieme si trasferiscono al Mas de Notre-Dame-de-Vie, un casolare a mezza via tra Mougins e Le Cannet, messo in vendita da Loel, il figlio di Benjamin e Bridget Guinness, industriali della birra. Ed è tra queste mura che l’8 aprile 1973, all’età di 91 anni, Picasso trova finalmente pace. La sua, ovviamente.

* * * * *

“Quando sarò morto sarà il naufragio e molti saranno aspirati dal vortice” aveva predetto Picasso.
Il primo a cadere nel vortice è suo nipote Pablo Ruiz, figlio di Paul. Stando a quanto scrive sua sorella Marina in Grand-Père - “un libro che ripercorre la vita di stenti a cui il pittore più ricco del mondo ha costretto la sua famiglia” - il giovane, straziato per la decisione di Jacqueline di estromettere Marie Thérèse Walter, Françoise Gilot e i loro figli Maya, Claude e Paloma dai funerali di Picasso, ingerisce un’intera bottiglia di eau de Javel, più volgarmente nota come candeggina. Muore dopo tre mesi d’agonia e sepolto al Cimitière du Grand-Jas di Cannes accanto a sua nonna Ol’ga. Aveva 24 anni.
Due anni dopo suo padre, Paul Joseph, figlio di Ol’ga, muore all’età di 54 anni in un ospedale di Parigi distrutto dall’alcol e da un cancro al fegato. Co-erede con Jacqueline della preziosa collezione dell’artista, “Paulo” esce sconfitto dalla battaglia legale intentata contro i suoi fratellastri, ora i principali azionisti della Picasso Spa (e a proposito di una “vita di stenti”: una buona guida per avere un’idea degli immensi guadagni commerciali realizzati dagli eredi di Picasso è l’articolo Come funziona Picasso Spa, scritto da Michel Guerrin per Le Monde, tradotto in italiano e messo in rete da Il Giornale dell’Arte numero 323, settembre 2012. Da leggere).
Il 16 luglio 1977, all’età di 90 anni, muore nella sua casa provenzale di Ménerbes, dono di Pablo Picasso, Dora Maar. Nel già citato libro di ricordi, Marina scrive che Dora è “morta in miseria in mezzo alle tele di Picasso che si rifiutava di vendere per conservare tutta per sé la presenza dell’uomo che adorava”. In effetti, che altro ci si poteva aspettare da una donna che ebbe modo di dichiarare: Dopo Picasso soltanto Dio.

Les Deux Magots
La collina de La Californie vista da Cannes
La collina de La Californie vista da Antibes
Picasso's Picassos, edizione italiana

Pochi mesi dopo, 20 ottobre 1977 è la volta di Marie-Thérèse Walter “la musa inconsolabile, impiccata nel suo garage di Juan-les-Pins”. Picasso aveva sempre sostenuto finanziariamente sia lei che la loro figlia Maya, ma sempre si rifiutò di sposarla. E lei, Marie-Thérèse, solo un sogno la teneva in vita: diventare la signora Picasso. Morto lui, morto il sogno…
Finita la saga? Certo che no. “Suicida anche Jacqueline, la compagna degli ultimi giorni, con una pallottola nella testa” sparatasi il 14 ottobre 1986 all’interno del Mas di Notre-Dame-de-Vie. Da allora i suoi resti riposano accanto a quelli di Pablo, Diego, José Francisco de Paula, Juán Nepomuceno, Maria de los Remedios, Cipriano de la Santísima Trinidad (questo il nome completo di Picasso), sepolti nel parco del castello di Vauvenargues, 30 km a nord di Aix-en-Provence.

Castello di Vauvenargues (dal libro di Duncan)

Con la morte di sua madre, Catherine Hutin-Blay eredita sia il Mas de Notre-Dame-de-Vie che la proprietà di Vauvenargues, incluse tutte le opere di Picasso in esse custodite. Ma dopo quel fatidico giorno d’ottobre la casa di Mougins è sempre rimasta chiusa (avendo Catherine scelto di abitare a Vauvenargues) e nel più completo abbandono rimane fino al 2008, quando, nel mese di febbraio, un gruppo di operai entra nella proprietà dando inizio a sostanziali lavori di ristrutturazione. Le cronache ci informano che un anonimo “mercante d’arte belga di circa quarant’anni d’età, innamorato di Picasso e di cui desidera qui conservare l’anima” (come leggo su Nice matin del 10.02.2008), ha acquistato da Catherine l’intera proprietà in cambio di una cifra valutata tra i 13 e i 16 milioni di dollari, somma a cui l’anonimo acquirente dovrà aggiungere una cifra almeno equivalente per riportare il tutto ai vecchi splendori. Come sempre, nuovo proprietario nuovo nome: adesso è L’Antre du Minotaure.

E arriviamo al 2013. Finiti i lavori di restauro, costruite due piscine e un campo da tennis, il “conservatore dell’anima di Picasso” che a Mougins nessuno ha mai visto in faccia fa scoppiare una nuova bomba: L’Antre du Minotaure è di nuovo in vendita. Scrive Marion Marten Perolin per Le Nouvel Observateur del 28.8.2013:

Un mercante d’arte belga molto ottimista mette in vendita l’ultima dimora della figura emblematica dell’arte cubista. Aveva acquistato la proprietà di Picasso situata a Mougins presso Cannes tra i 10 e i 12 milioni di euro nel 2008. Dopo dei lavori di restauro e abbellimento, il prezzo di vendita è fissato all’attraente somma di 220 milioni di dollari, circa 165,7 milioni di euro! Un prezzo astronomico per questa dimora di 800 m2 con 35 stanze distribuite su tre livelli. La proprietà che si estende su 2 ettari comporta tre case in totale, la principale, la casa degli ospiti e quella del guardiano, per 10 camere e 8 sale da bagno. […] Resta da trovare un acquirente all’altezza… Scoprite la dimora in immagini sul nostro diaporama. 

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Al village perché di Mougins, seduto davanti a un gustoso piatto di formaggi e salumi che accompagno con del buon rosè, discuto di questo “imperdibile affare” con la simpatica coppia che gestisce il minuscolo negozio di alimentari dove mi sono fermato per il pranzo. Lui, dalla vistosa barba che gli scende sul petto, è originario della Borgogna; lei, bassa e bene in carne, è spagnola; insieme hanno un sogno da realizzare: seguire a piedi il Camino francés che porta a Santiago de Compostella. Auguri sinceri (e che si mettano in tasca l’orario degli autobus).
“È in vendita per soli 167 milioni di euro?” ironizza il mio ospite. Prontamente aggiunge sua moglie: “Beh, se si pensa che qui nel villaggio un modestissimo studio non costa mai meno di 400 mila euro…”. “Un prezzo equo, che ti permette di far morire d’invidia gli amici raccontando di avere come vicino di casa Hollande…” chioso divertito. E si, anche il Presidente in carica è proprietario dal 1986 di una lussuosa villa con piscina, La Sapinière, annidata nel cuore del domaine di Saint-Basile. Argent oblige.
Il rosè è finito ed è tempo di saluti. Alle fotografie della casa che fu di Picasso pubblicate da Le Nouvel Observateur preferisco quelle esposte al Musée de la Photographie, istituzione nata dalla donazione fatta da André Villers alla municipalità di Mougins, la vera mèta di questa gita. Alle sue pareti sono appese tante immagini che riprendono Picasso al lavoro, scatti eseguiti da Clergue, Duncan, Doisneau e Lartigue – oltre che dallo stesso Villers, autore di non banali photo-collages.
Dentro fa caldo e mi affaccio alla finestra: proprio di fronte a me, sul tetto di una casa, si è fermata una colomba che tiene nel becco un piccolo legno che voglio immaginare sia d’ulivo. Che sia un messaggio del reincarnato Picasso per il “mercante d’arte belga di circa quarant’anni d’età, innamorato di Picasso e di cui desidera qui conservare l’anima?”

* * * * *

NOTA - Estraggo dal Fatto Quotidiano web del 28.08.2017: Andrà all’asta la maestosa residenza di Mougins, in Costa Azzurra, dove Pablo Picasso visse i suoi ultimi dodici anni, dal 1961 alla morte nel 1973. Con una base di partenza di 20,2 milioni di euro, come si legge nell’annuncio pubblicato su LuxuryEstate.com. Una storia travagliata quella della mastodontica proprietà immersa nel verde con vista sul mare che solo l’anno scorso la villa era stata venduta per circa 220 milioni di euro. Chissà a quanto se l’aggiudicherà il vincitore dell’asta, che si terrà il prossimo 12 ottobre.
Dopo la morte del pittore, la sua ultima moglie, Jacqueline, che non aveva più toccato nulla - neppure i suoi occhiali, rimasti dove lui li aveva lasciati - si sparò nella villa, togliendosi la vita, nel 1986. Per oltre 30 anni la casa rimase abbandonata, contenendo opere dell’artista dal valore di circa un miliardo di euro. Tra il 2007 e il 2008 la villa fu acquistata e ristrutturata a opera dell’architetto belga Axel Vervoordt. I lavori coinvolsero oltre cento operai che, sotto la sua guida, trasformarono la dimora in una proprietà di lusso contemporanea e preziosa. Oggi la villa si presenta con un arredamento moderno e ricercato, ma la struttura mantiene intatte le caratteristiche di quando Picasso trovava ispirazione nelle sue stanze.
Fu proprio l’artista a ingrandire la casa padronale con uno studio spazioso in cui lavorare, spesso di notte, senza distrazioni. Oggi gli interni contano circa 1.800 metri quadri, divisi fra l’edificio principale, quello per gli ospiti e un altro nel giardino, accanto alla bellissima piscina, dove sono ospitati un centro benessere, con sale massaggi e bagni turchi, spogliatoi e palestra. Gli otto acri di terreno che circondano la proprietà sono stati ugualmente restaurati nel rispetto dell’originale, con ulivi secolari, roseti, gradini in pietra, fontane e terrazze. La sapiente e lussuosa opera di ristrutturazione, aveva portato il vecchio proprietario a vendere la villa alla fine del 2016 per circa 220 milioni di euro a un finanziere del Brunei. Non sono note le cause per cui la proprietà sarà battuta all’asta.

Notizie più precise le fornisce Elisabetta Rosaspina (La Lettura #303, 17 settembre 2017): Allinizio di quellanno [2008] però qualcosa di era mosso: erano apparsi degli operai e iniziati i lavori di riabilitazione. Si parlava di un tycoon belga o olandese che aveva acquistato la casa per 10 o 12 milioni di euro. L'architetto Axel Vervoordt ha diretto la ristrutturazione per due anni, ma non si è mai visto insediarsi il padrone della casa, ribattezzata «LAntro del Minotauro». I costi eccessivi e un divorzio inatteso, si dice, hanno affondato il progetto fra i debiti. Ma allinizio di questanno il sindaco di Mougins annuncia che il finanziere di origini srilankesi Rayo Withanage, socio daffari del principe Abdul Ali Yil Kabier, della famiglia reale del Brunei, è il nuovo titolare della tenuta, destinata a iniziative benefiche. Nove mesi dopo casa Picasso è ancora in cerca del suo castellano.

Tutte le informazioni per lasta si trovano su LuxuryEstate.com e Residence365.com, con tante fotografie, interni inclusi. Chi è interessato si faccia avanti, ma in fretta perché ottobre s’avvicina.


LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI 















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sabato 14 giugno 2014

Picasso a Vallauris


Di Vallauris ho ricordi offuscati: la memoria proietta l’immagine di un grande piazzale assolato, dove avevo tranquillamente posteggiato l’automobile, e tutt’intorno magrebini abbigliati come si usa a casa loro. L’altra immagine che mi appare è l’interno di un museo con vasi di ceramica, che – lo confesso – è un genere d’arte che poco mi erotizza. Ma qui, nel 1947, Picasso aveva scoperto quest’arte antica e il suo prodigarsi (oltre 2000 pezzi creati in un solo anno) aveva ridato vita a un villaggio che il dopoguerra aveva condannato a morte, con le sue industrie di tegami di bassa qualità costrette a chiudere di fronte all’avanzata in cucina dell’acciaio e dell’alluminio. Introducendo il concetto di ceramica artistica – tecnicamente supportato dagli amici Ramié, titolari della Madoura Pottery - Picasso rilanciò l’industria locale, subito riconvertitasi, ricreando i posti di lavoro perduti. Una notizia, questa, da passare a colui che disse che “con la cultura non si mangia” (ma forse voleva dire “io con la cultura non mangio” e noi non abbiamo capito).

La Vallauris che ritrovo oggi è certamente diversa da allora, ma non troppo. Un grande piazzale esiste ancora, ma attrezzato a giardino pubblico e con tante statue variopinte. Il posteggio per l’auto è a pagamento, interrato sotto lo spiazzo.
Riemerso in superficie, attraverso i giardini con le statue di cui ho già detto, tutte opere di Roger Capron (1922-2006), in gran parte rappresentazione monotematica dello stesso soggetto ridipinto con colori diversi: una giovane donna con piccole ali e due grosse, cilindriche, svolazzanti mammelle.

* * * * *

Trovo nella cartella stampa fornita in occasione della presentazione della mostra Picasso, la joie de vivre, 1945-1948, questa nota di Jean-Louis Andral, conservatore capo del museo Picasso di Antibes:

A Vallauris, Picasso scopre la ceramica. […] Luglio 1946: mostra annuale dei vasai di Vallauris. In questa occasione, Picasso incontra Georges e Suzanne Ramié, proprietari della fabbrica Madoura. La coppia giovane e dinamica si dispera per la decadenza di un arte, di cui tenta, non senza fatica, di preservare la qualità. Picasso visita il laboratorio, fa mille domande e si diverte a far nascere dalla terra alcune figurine fantastiche. Promette loro di tornare, non torna… Fine della storia?
Estate 1947: un’automobile si ferma davanti alla fabbrica; i Ramié, stupefatti, ne vedono scendere Picasso. «Se mi date un operaio che si occupi dei problemi tecnici, tornerò e lavorerò seriamente», dichiara mostrando loro una decina di schizzi che ha realizzato durante l’inverno in vista di nuovi tentativi con la ceramica. I Ramié accettano con entusiasmo.
«Pochi pittori si erano interessati alla ceramica: salvo qualche rara eccezione, la consideravano nient’altro che un’attività complementare, spiega Pierre Cabanne nella sua monumentale biografia di Picasso pubblicata nel 1975. Per Picasso che, da qualche mese dipingeva poco e sembrava manifestare nei confronti del quadro una certa stanchezza, fu una rivelazione […] Ora più che mai aveva bisogno di uno stimolante e soprattutto di uno stimolante artigianale.»
Picasso si ricorda delle ceramiche che si fabbricavano a Malaga quando era bambino; fa appello a tutto quello che ha visto, a tutto quello sa delle antiche tradizioni del mondo greco e della Persia. La sua tecnica è libera, incessantemente innovativa e provoca spesso lo sbigottimento degli operai, come racconta Jean Ramié, figlio di Georges e di Suzanne, in occasione della mostra Picasso céramiste à Vallauris. Pièces uniques allestita nel 2004: «Picasso assimilò rapidamente le tecniche classiche utilizzate normalmente per la decorazione in ceramica: ingobbi o ossidi sotto coperta, ossido su smalto crudo, riflessi metallici su smalto cotto. Ne sviluppò rapidamente altri, molto meno ortodossi se non addirittura eretici, come l’ingobbo su smalto crudo o su biscuit, e ci riuscì contro ogni aspettativa, al prezzo di un’infinita pazienza e di una prodigiosa ingegnosità.»
[...] Dall’ottobre 1947 all’ottobre 1948, Picasso realizza più di duemila pezzi, recandosi alla Madoura quasi tutti i pomeriggi, «Mi domando se i collezionisti apprezzeranno mai le ceramiche di Picasso come apprezzano la sua opera in altri campi, spiega con dispiacere Françoise Gilot in Vivre avec Picasso. Dopo tutto, se si è dipinto su una brutta tela, si può sempre rintelare. In ceramica, invece, non si può separare la decorazione dalla forma su cui è applicata. A causa della fragilità del supporto, molti collezionisti si sono astenuti dall’acquistare, malgrado l’ammirazione per queste creazioni di Picasso.»

* * * * *

Mi dirigo al castello che ospita il Musée nationale Picasso e strada facendo mi colpisce il palese contrasto tra le nude statue di Capron e gli abiti degli uomini e delle donne che incontro. Oggi come allora, Vallauris ospita una numerosa comunità magrebina, gente che cammina per strada coperta da abiti tradizionali. Di tanto in tanto il colore della pelle diventa più scuro, altro ricordo del periodo coloniale francese.

I primi francesi caucasici li incontro al Musée Picasso, nel cui piccolo cortile fervono i lavori. Una signora m’informa che i locali sono chiusi alla visita perché (udite udite) “stiamo preparando l’esposizione mondiale delle opere in ceramica”. Avesse detto “internazionale” anziché “mondiale” già sarebbe bastato… Considero l’iperbole un retaggio della grandeur associata ai bei tempi in cui Picasso e Françoise Gilot tenevano casa a Vallauris (dal 1948 al 1953, data della loro separazione) e passo oltre.

Con calma, le faccio comunque presente che sul sito internet è scritto che il museo è aperto e che io per visitarlo ho fatto tanta strada, venendo appositamente dall’Italia. Touché. La signora cambia tono e malgrado sia ora di chiusura mi concede una gratuita visita a Le temple de la Paix, la cappella sulle cui pareti Picasso ha dipinto La Guerre et la Paix, l'unico, vero motivo di questa mia visita.

Scrive Antonina Vallentin in Storia di Picasso, Einaudi 1961, capitolo XVI:

A Vallauris esiste una cappella sconsacrata che un tempo era stata dei monaci di Lérins, per molto tempo ha servito da frantoio e tuttora è ingombra di blocchi di sanse. Picasso è tentato da questo stretto spazio chiuso da muri che si uniscono in una bassa volta. […] La cappella sconsacrata lo attira, e non solo come campo d’esperienze. Matisse ha appena finito la decorazione della cappella del convento delle Domenicane a Vence e questo maestro della luce ha volontariamente rinunciato al colore. Lo spirito d’emulazione che per tanto tempo ha spinto i due uomini nello slancio creativo, non gioca che in un certo senso. Picasso è così vicino al suo tempo che pensa di dare un seguito al suo Massacre en Corée, di dipingere cioè l’inferno della guerra e il paradiso della pace, questa vera religione dell’umanità, più vicina all’angoscia degli uomini che non i santi estatici. […] Dalla fine d’aprile del 1952 Picasso si raccoglie intorno alla sua grande opera. Rimane faccia a faccia con il suo doppio tema della pace e della guerra fino alla metà di settembre. Sa tuttavia come lo tratterà, come un romanziere sa già quale sarà la forma del suo romanzo, e pensa già ai cambiamenti di stile, prima di essere arrivato a costruirne interamente la trama. Picasso riempie taccuini di rapidi schizzi, di appunti di idee, non di studi così elaborati come quelli che metteva giù quando preparava Guernica. […] Nonostante questa voluta rapidità, esegue non meno di centosettantacinque tra schizzi e appunti. Vuole un racconto per così dire nudo, che indugi sui particolari per non appesantire o rallentare l’esposizione. Cerca perciò di individuare un’idea-forza e di renderla, non attraverso una lenta penetrazione di immagini, ma, contraddicendo in certo modo alle leggi della figurazione plastica, attraverso suggestioni; vuole fissare una sorta di stenogramma di ciò che inventa lì per lì per proprio uso. Il risultato di tutto questo sarà un ritorno agli incubi dell’uomo primitivo e ai simboli dei suoi terrori, e nello stesso tempo un tuffo nell’inquietudine del nostro tempo espressa per segni inediti.

Varco la soglia e mi trovo di fronte ad un grande asino seduto sopra una montagna di libri. La gentile signora – che già mi ha informato che gli eredi Picasso non permettono di fotografare la cappella (“la solita storia di chi ha cartoline e libercoli da vendere” dico io; “oui, il est vrai” risponde lei), mi dice che l’asino sui libri, opera di una giovane spagnola, è fotografabile. L’ambiente è tenuto all’oscuro, illuminato dalla luce che entra da mezza porta aperta, ma per invogliarmi all’opera fotografica madame si premura di chiudere questa mezza porta creando un semi-buio uniforme: “così non c’è contrasto tra luce e ombra” mi sussurra, aggiungendo: “sa, anche mio marito è un appassionato fotografo”. Comprendo, e per non deluderla scatto una foto a casaccio, visto che il buio (in verità, un po' di luce entra da una finestrella) m’impedisce di controllare l’inquadratura nel mirino, ma ho fortuna (oddio: se usi un 24 mm e punti al centro…). La signora vuole vedere l’immagine e sorride contenta. Stasera avrà una notizia in più da portare all’amato.

Pagato il conto alla passione, è per lei giunto il momento di riaprire la porta e far entrare quel poco di luce che mi basta per oltrepassare la porta che immette al sancta sanctorum, sulla cui parete di sinistra è fissato il lungo pannello di compensato (10,20 m per 4,70) su cui Picasso ha dipinto a olio La Paix, mentre il pannello con La Guerre occupa la parete di destra. Tra i due, al centro, vi è il vistoso pannello quadrato de Les Quatre parties du monde.

Olio su compensato? Basta riaprire il libro dell’ottima Vallentin ed ecco la risposta:

Nel barocco di Picasso, così caratteristico nella sua tonalità bruna, rientra anche il Panorama di Vallauris. A quel tempo dipinge quasi esclusivamente su tavole di compensato, che a Vallauris si trovano più facilmente che non le tele delle dimensioni volute.

Integra Daniele Giraudy ne Il Museo Picasso di Antibes, Jaca Book 1990:

È un periodo in cui, d’altra parte, i colori in tubetto scarseggiano, come testimonia la corrispondenza tra Matisse e Camoin che ho pubblicato: in essa i due artisti si rendono partecipi delle rispettive difficoltà e se si legge che Matisse aveva rimediato delle lenzuola invitando Camoin a dividerle con lui, quest’ultimo a sua volta racconta come avesse dovuto riempire di colore due vecchi tubetti di metallo vuoti, essendosi il metallo fatto raro. Picasso, da parte sua, si dimostra, come sempre, ricco di inventiva.
Tra le difficoltà della guerra, la vita nel Museo è frugale. Un giorno, durante le passeggiate che soleva compiere con Françoise Gilot, la sua compagna, sulla spiaggia, Picasso trova dei barattoli di conserva, traccia del passaggio di una nave americana, che utilizzerà per preparare i colori. Quei colori che, direttamente collegati alla vicinanza del Mediterraneo, trasformeranno le tonalità scure e pallide delle opere eseguite a Parigi, nella luminosità dell’azzurro marino e del beige della sabbia. Sono tinte queste mai mischiate tra di loro, che si ritrovano in molte delle opere di Antibes. Esse sono, tra l’altro, caratterizzate dalla quasi totale assenza del rosso e dalla scomparsa dei contrasti violenti. E poi interessante notare come la gamma dei colori impiegati dall’artista per i ventiquattro quadri e le quattordici opere su carta consti unicamente di tredici colori. Spesso Picasso utilizza la pittura per barche «Laques Ripolin», che, stesa con un pennello da imbianchino, presenta il vantaggio di essere molto resistente al tempo e ben si sposa con i materiali che egli adopera. Ecco infatti che Picasso all’inizio tenta di dipingere sulle pareti del castello, come testimoniato da Le chiavi di Antibes, ma l’umidità lo obbligherà a ricorrere a materiali differenti - nel caso de La Capra e dei Pescatori, legno compensato -, per poi scoprire il fibrocemento per opere quali il trittico Satiro, fauno e centauro, La gioia di vivere, i nudi e le nature morte. Tuttavia le risorse di Picasso non si fermano qui e, negli ultimi tempi del suo soggiorno nel castello, in mancanza di tele, dipingerà su vecchi quadri trovati nel magazzino del Museo; così, come hanno rivelato le radiografie, l’immagine di una giovane dipinta da Caroline Comanville, nipote di Flaubert, cederà il posto alla Natura morta con persiane nere, murena, seppia e tre ricci di mare.

Come dire: si fa di necessità virtù.

E ancora la Vallentin, opera citata:

Negli ultimi dieci anni la giovane donna che vive al suo fianco è molto cambiata. Picasso non se ne rende pienamente conto che lui è rimasto lo stesso, assorto nei problemi della sua opera, stretto nella tirannia delle sue abitudini. «Il tempo non è passato per noi due allo stesso modo», dirà più tardi Françoise Gilot. Gli anni dai venti ai trenta sono tutto nella vita di una donna, soprattutto se possono fiorire nella serra calda della passione. E questa passione doveva necessariamente logorarsi negli urti della vita quotidiana. Era cominciata in modo troppo splendido per poter trasformarsi in una placida felicità. Un giorno Françoise lascia Vallauris portando con sé i due bambini. Ancora una volta la solitudine si abbatte bruscamente sull’uomo che non ha mai saputo vivere solo e che sente terribilmente la mancanza di queste presenze.

È tempo di riprendere l’auto e puntare in direzione del village perchè di Mougins, nel cui territorio Picasso aveva acquistato una casa. Quella in cui morirà.


© per il testo e le foto di Giancarlo Mauri