Porto Kagio è una
baia molto bella ma un po’ triste, una profonda insenatura scavata nella
pendice orientale della penisola, in corrispondenza di Marmari sulla sponda
opposta, e la ripida sella tra i due forma l’istmo che collega Capo Matapan al
Mani. Sulle alte rupi tra qui e il Capo sorgeva una volta il tempio di
Poseidone, sul sito di un tempio di Apollo di età micenea. Era il santuario
centrale degli spartani, asilo inviolabile di chi vi si rifugiava e sede di un
oracolo. Era anche un grande luogo d’incontro dei notabili delle città
laconiche, e uno dei vari templi di Grecia dove le anime dei morti potevano
essere evocate dai loro uccisori e placate con sacrifici. Lapidi di marmo
trovate fra le rovine dimostrano che i sacrifici umani non erano ignoti.
Pausania - non lo storico e geografo ma il vincitore di Platea - fu rinchiuso e
fatto morire di fame in questo tempio quando gli spartani scoprirono le sue
intese segrete con Serse.
Nelle vicinanze, al margine del golfo, sorge una scogliera dalla quale Petrobey ordinò fosse gettato un prete delinquente. Legato mani e piedi, questi fu lasciato perire sulle rocce dove si era schiantato. Entrambi i fatti hanno lasciato una maledizione sulle rispettive località.
Nelle vicinanze, al margine del golfo, sorge una scogliera dalla quale Petrobey ordinò fosse gettato un prete delinquente. Legato mani e piedi, questi fu lasciato perire sulle rocce dove si era schiantato. Entrambi i fatti hanno lasciato una maledizione sulle rispettive località.
Come abbiamo visto,
il tempio fu probabilmente distrutto dai pirati della Cilicia. Poco ne resta, e
molti frammenti di lapidi commemorative di qui e del Kiparissos sono sparse nei
villaggi vicini. Sul ripido fianco settentrionale si stendono i ruderi di una
gigantesca fortezza turca, costruita al culmine negativo delle fortune maniote,
contemporaneamente a quella di Kelefa. Il luogo fu teatro di dure battaglie
vittoriose dei manioti contro i turchi durante il regno di Zanetbey: azioni
comandate dal grande Lambros Katsonis e dal padre di quell’Odisseo Androutzos
che più tardi condivise una grotta vicino a Delfi con Trelawny, mentre a
Missolungi, sulla costa, Byron giaceva in agonia.
Il nome Porto Kagio deriva o dal veneziano Porto Quaglio o
dal francese Port aux Cailles, perché le rupi circostanti sono l’ultimo luogo
dove le quaglie, migranti a sud a migliaia, sostano prima di spiccare il volo
per Creta e l’Africa.
Sulla mappa la parte
meridionale del Peloponneso sembra un dente deforme appena strappato dalla
gengiva, con tre penisole protese a sud come scheggiate e cariate radici. Il
rebbio centrale è formato dalla catena del Taigeto, che, dalle colline
pedemontane a nord nel cuore della Morea alla punta di Capo Matapan battuta
dalle tempeste a sud, si allunga per un centinaio di miglia. Per circa metà
della sua lunghezza - settantacinque miglia sul lato occidentale e
quarantacinque sull’orientale, per una larghezza di cinquanta miglia - il
Taigeto si spinge affusolandosi in mare. Questo è il Mani. Dato che la catena
supera i 2400 metri nella parte centrale, calando a nord e a sud di balza in
balza, queste distanze a volo d’uccello si possono tranquillamente raddoppiare
e triplicare, e a volte, calcolando via terra, decuplicare. Come il Taigeto
dell’entroterra divide la pianura messenica dalla laconica, il suo
proseguimento, il Mani immerso nel mare, divide l’Egeo dallo Ionio, e il suo
capo selvaggio, il Tenaro, l’ingresso nell’Ade degli antichi, è il punto più
meridionale della Grecia continentale. Nulla se non il vuoto Mediterraneo, che
s’inabissa a profondità enormi, giace tra questo sperone di roccia e le sabbie
africane, e da questo punto l’immensa muraglia del Taigeto, le cui cime più
alte sbarrano i confini settentrionali del Mani, innalza un nudo e arido
inferno di roccia.
«Eccola» disse. «L’entrata
dell’Ade».
Temeva di arrestare
il motore, dichiarò, perché riavviarlo era un’impresa, ma avrebbe girato in
cerchio finché fossi tornato. Così mi tuffai e mi diressi alla grotta che
sbadigliava come la sbilenca mascella superiore di una balena (quella inferiore
è sott’acqua) per una diecina di metri sopra il mare. Mentre entravo a nuoto ne
uscì uno stormo di rondini, e vidi i loro piccoli nidi attaccati alle pareti
della grotta e ai fianchi delle stalattiti. La grotta diventava molto più buia
penetrando nella montagna, e un paio di pipistrelli che probabilmente stavano
appesi al soffitto svolazzarono squittendo verso la luce. Il soffitto si
abbassava, e nuotando lungo le pareti viscide trovai una diramazione a destra e
la seguii per un breve tratto; ma cessava quasi subito. Girai tutt’intorno e
nuotai sott’acqua per vedere se ci fosse un ingresso sommerso a un’altra grotta
marina; ma non c’era niente. Adesso avevo il soffitto a meno di mezzo metro
sopra la testa, e potevo toccarlo con la mano. L’aria era buia ma sotto la
superficie l’acqua brillava di un magico azzurro luminoso, e con una sola botta
della mano o del piede si suscitavano sciami di bolle fosforescenti.
Stranamente, il luogo non era affatto sinistro, ma, a parte la freddezza dell’acqua
mai raggiunta dal sole, silenzioso, calmo e bellissimo. La luce sottomarina
proveniente dalla lontana imboccatura della grotta fa sì che all’intruso,
quando si immerge infiorato di fosforo nelle gelide profondità, sembra di
nuotare nel cuore di un colossale zaffiro.
Non avevo immaginato
che tutto il pavimento della grotta stesse sott’acqua. Nessuna leggenda ne
parla, sebbene non vi sia ombra di dubbio che questa è la grotta usata per
quelle famose discese agli Inferi. Quando Afrodite, adirata, mandò qui la
povera Psiche perché le riportasse il misterioso scrigno della bellezza, la
fanciulla fu così consigliata da una torre benevola (divenuta capace di parola
alla vista di lei che stava per gettarsi dalla sua sommità): «Non lontano da
qui sorge la famosa città greca di Lacedemone. Va’ subito là e chiedi che ti
indichino la via per il Tenaro. È un luogo fuori mano non facile a trovarsi,
situato in una penisola a sud. Quando vi giungerai troverai uno dei ventilatoi
degli Inferi. Infilaci la testa e vedrai una strada in discesa, dove non passa
nessuno. Imboccala subito, e ti porterà direttamente al palazzo di Plutone. Ma
non dimenticare di portare con te due focacce d’orzo inzuppate in acqua di
miele, una in ciascuna mano, e due monete in bocca».
Che qui la terra si
sia ribaltata? Che abbia immerso sott’acqua una di quelle smisurate caverne
tanto comuni nelle montagne greche, che si addentrano serpeggiando scivolose
nel buio minerale per lunghi e lunghi tratti, nelle quali, con improvvise e
strane correnti d’aria che ti spengono il moccolo, si passa carponi accanto a
canne d’organo, a baratri, a favi di pietra, e tra stalattiti e stalagmiti
simili a molari e a denti del giudizio di un mostro tremendo sul punto di
serrarli, per arrivare infine, nel cuore profondo senz’aria del monte e
grondando sudore come nel più caldo dei calidaria, al soffocante
santuario di un qualche santo locale, trogloditico e semiselvaggio (come quello
di san Giovanni Cacciatore sull’Akrotiri a Creta), installato per neutralizzare
gli antichi demoni ctonii che ivi dimoravano prima dell’avvento del
cristianesimo? Una grotta sterminata dalla quale i lacedemoni, sapendo dove
conduceva, si ritraevano terrorizzati? La sua bocca poteva trovarsi sommersa e
allagata nel diafano abisso sotto i miei piedi che pestavano l’acqua; forse l’aveva
obliterata una frana o sigillata un macigno. Le umide pareti circostanti erano
massicce e compatte. Fortunatamente la mitologia è di rado così letterale, e il
fatto che Caronte potesse non essere il primo barcaiolo che Psiche dovette
pagare il giorno della sua discesa è senza importanza. Laggiù era la via per il
fiume popolato di spettri e l’orribile cane a tre teste (le due focacce per
lui, come le due monete per il traghettatore, erano un biglietto di andata e
ritorno), per i campi oscuri e le lunghe tristi sale di Persefone; il grigio
mondo dove il fantasma della madre svanì più volte tra le braccia di Odisseo
come l’ombra di un sogno. Fu sotto questa stessa grotta che il misero Orfeo,
nel terribile viaggio alla ricerca della perduta Euridice, addormentò l’odioso
Cerbero con la dolcezza della sua lira; e fu qui che Eracle trascinò su all’aria
superna il cane infernale schiumante e ringhiarne (e, a me pare, bagnato fino
al midollo), tenendolo per la triplice collottola.
C’è sempre qualcosa
che incute una timorosa reverenza in queste terrestri identificazioni con l’Ade.
Il Lete, dicono, fluisce con le sue acque d’oblio vicino alle Sirti in Africa.
La sorgente dello Stige manda la sua cascatella giù per le rupi del monte
Chelmos in Arcadia, e io ho seguito le funeste sinuosità di Cocito attraverso
le pianure tesproziane in Epiro, non lontano dalla profonda forra sotto l’indomabile
Sufi dove l’Acheronte cade con rombo di tuono. (Per ragioni letterarie io l’ho
attraversato vittoriosamente a nuoto tre volte). È da queste parti che Odisseo,
per ordine di Circe, scese tra le ombre. Più sinistra di tutti, a poche miglia da
Napoli, accanto al cupo laghetto d’Averno, è la galleria scavata nel tufo
vulcanico dove abitava la Sibilla Cumana, e dove alla luce tremolante delle
fiaccole si può vedere, tanto lontano dalla sua sorgente achea, un affluente
dello Stige. Qui Enea compì la sua facile discesa. Nei prati vicino a Enna i
contadini siciliani indicano ancora la sorgente di Ciane, dove Plutone aprì la
terra con un colpo di tridente per portare Persefone giù nel suo tetro regno.
Con poche bracciate
girai l’angolo di roccia, il soffitto si alzò e l’imboccatura assolata della
grotta si aprì in un semicerchio luminoso dove ancora roteavano e cinguettavano
le rondini. Fuori, nel sole sfolgorante, il caicco, sebbene vicino, sembrava
molto piccolo e distante. Viaggiava ancora in cerchio, solcando e risolcando la
sua scia circolare. Joan sedeva al timone, Panagioti, appoggiato all’albero, si
accendeva una sigaretta. Com’era chiara la luce del giorno, e splendenti i
colori! Mi attaccai all’ancora al giro seguente della barca, e afferrata l’asta
e messo un piede sull’unica marra rugginosa presi la mano tesami da Pangioti e
salii a bordo. Joan tirò a sé la barra del timone e la scia si spiegò in una
linea diritta verso sud. Panagioti mi offrì una sigaretta e l’accese col suo
mozzicone.