domenica 21 giugno 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Areopolis, la città di Marte)


LA CITTÀ DI MARTE (AREOPOLIS)

La via per il mondo superno era una stradicciola sassosa traversata da lame di roccia, per dar presa ai piedi dei muli che portano carichi su ad Areopolis dal torrido porticciolo di Limeni. Ogni pianta d’olivo, immobile nell’aria immota, era trasformata dagli insetti in un gigantesco sonaglio, un vorticoso asilo di limatura di ferro. Ma quando di curva in curva sassosa salimmo più in alto il fragore si smorzò e la strada, spazzata da un fresco venticello, si appianò per due miglia di un nudo altopiano, che a ovest cadeva precipite al mare e a est tornava a salire a prosecuzione del Taigeto; e là davanti a noi, mezzo fortificata e con i tetti sormontati da un paio di torri e da cupola e campanile di un piccolo duomo, ecco la capitale dell’Alto Mani. Le viuzze di Areopolis ci attorniarono.








Come tutte le città d’altopiano aveva un che di arioso, e verso il golfo di Messenia le stradine finivano nel cielo come trampolini. Nell’entroterra l’anfiteatro incombente si ingentiliva dall’asprezza pomeridiana in una serie di coni ombrosi color malva. In questo ambiente solenne la piccola capitale aveva un’aura di solitudine e di lontananza. Ma le vie acciottolate, in pendenza, traboccavano di vita sociale, come se i manioti si adunassero là fuggendo dal vuoto di fuori infestato dai cactus.





















In fondo alla via principale una cattedrale primitiva, più piccola di una piccola chiesa parrocchiale inglese, stava in mezzo a un grappolo di gelsi. Tutta imbiancata a calce, aveva una cupola bizantina di laterizio sorretta da un tamburo ad archi e pilastri ed era affiancata da un candido campanile a punta. Una modanatura dipinta di giallo chiaro cingeva l’abside a coste. Guarnita alternativamente di rosette rosa e di foglie verde vivo, avrebbe potuto essere la decorazione di una chiesa maya barocca sulle montagne del Guatemala. Nella parte alta dei muri lesene color malva sostenevano colonnette racchiudenti riquadri color albicocca, e goffi serafini con sei ali spiegavano le piume in un rilievo bitorzoluto. Due puerili dischi solari avevano una corona di petali puntuti adorni di occhi simili a uva passa e di larghi sorrisi, e i segni dello Zodiaco, eteroclito e amabile serraglio, ruzzavano attraverso il bianco calce. La decorazione sopra la porta principale era un vero rompicapo: un grande riquadro con lo stesso rilievo bitorzoluto era dipinto di giallo, nero e verde. Rose Tudor e foglie e rosette e soli da filastrocca infantile facevano da sfondo a due angeli, uno in vesti scanalate, l’altro in armatura e coturni; e tra loro, sorretta da due piccoli e rudimentali leoni rampanti, un’aquila bicipite ad ali spiegate recava sul petto un complicato stemma con strani emblemi talmente dipinti e ridipinti che anche stando in piedi su una seggiola di caffè era difficile decifrarli. Le due teste dell’aquila erano aureolate, e lo stemma era sormontato da una sorta di corona, mentre sopra le teste del rapace una corona imperiale, simile a quella dell’Austria-Ungheria o dell’Impero russo, spiegava i suoi due nastri come una mitra. Un cartiglio sottostante recava la data 1798.







L’aquila a due teste, emblema di Bisanzio e in certo modo della Chiesa ortodossa, è un simbolo che ricorre di frequente nella decorazione ecclesiastica; la formula della sua rappresentazione sui muri e sul pavimento delle chiese è poco mutata da quando all’aquila imperiale di Roma crebbe una seconda testa con la fondazione costantiniana dell’Impero d’Oriente nel 330. Ma l’elaborazione araldica del rapace di stucco sopra la porta non le somigliava affatto. Nonostante la grossolanità, il disegno - le aureole, l’assetto di ali, artigli e coda - echeggiava la sofisticatezza e il formalismo della moderna araldica occidentale. Mi chiesi se non fosse stato copiato, arbitrariamente e a puro scopo decorativo, dal blasone di un tallero di Maria Teresa; ma tranne le fasce (o strisce) nel capo destro, vagamente simili a una parte dello stemma ungherese, la somiglianza è nulla. Che fosse stato ispirato dallo stemma della Russia? Improbabile, a causa della data, posteriore di un ventennio alla fallita campagna di Orlov nel Peloponneso, che di fatto screditò la Russia come protettrice dell’Ortodossia. L’unico fatto importante della storia locale nel 1798 è l’avvento di Panagioti Koumoundouros come quarto bey del Mani. Ma per quanto i bey fossero grandi potentati locali, non mi risulta che si fregiassero di un blasone. Questi emblemi, con data annessa, sembravano (e sembrano tuttora) problematici come una statua dell’Isola di Pasqua nelle Ebridi. Accludo una copia fedele di questo stemma semiobliterato, caso mai qualcuno riuscisse a identificarlo e forse a disseppellire un capitolo perduto di storia maniota.



Dopo la conquista franca della Grecia il Mani era stato una tempestosa oligarchia feudale di potenti famiglie. Il clan di gran lunga più forte, ricco e numeroso era quello dei Mavromichalis, ai quali sono state attribuite varie origini. Una tradizione li dice famiglia originariamente tracia di nome Gregorianos, fuggita qui quando i turchi varcarono per la prima volta l’Ellesponto nel 1340. È certo che nel XVI secolo essi erano ormai stanziati nella parte occidentale dell’Alto Mani. Nelle cronache dei secoli successivi il nome ricorre di frequente. Secondo una leggenda ben radicata la loro grande bellezza fisica derivava dallo sposalizio di un Giorgio Mavromichalis con una sirena; allo stesso modo, nel folklore celtico chiunque si chiami Connolly discende da una foca. Pari alla bellezza era il loro coraggio e intraprendenza, e Skiloianni Mavromichalis - Giovanni il Cane - fu nel XVIII secolo uno dei grandi paladini contro i turchi. Suo figlio Petro fu capo di questa vasta famiglia a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, quando i Mavromichalis erano all’apice della loro prosperità e potenza, dovute principalmente all’importanza commerciale e strategica della loro roccaforte ereditaria nella fortezza naturale di Tzimòva con il porto annesso di Limeni. Questa controlla il solo valico che attraverso il Taigeto porta a Githion e al resto della Laconia; ed è anche l’ingresso all’Alto Mani. Molto prima della sua nomina a bey l’autorità e influenza territoriale di Petro superava d’assai quella dei predecessori, e il conferimento nel 1808 della carica fu la ratifica di un potere già assoluto. La figura bella e dignitosa e la cortesia dei modi erano i segni esteriori di un’indole retta e onorevole, di alta intelligenza, abilità diplomatica, generosità, patriottismo, coraggio e forza di volontà incrollabili: qualità convenientemente intensificate dall’ambizione e dall’orgoglio di famiglia e deturpate talvolta dalla crudeltà. Anche lui negoziò con Napoleone (ma senza gran frutto, essendo quest’ultimo troppo occupato altrove) e riconciliò i clan guerreggianti, imponendo una tregua alle faide. Pacificò in particolare i clan Troupakis e Grigorakis, i quali, aizzati dai turchi nella speranza che i dissidi interni facilitassero l’invasione del Mani o almeno lo neutralizzassero nella lotta imminente per la liberazione della Grecia, erano aspiranti rivali al rango di bey.
Fu il Mani a colpire per primo. Petrobey e tremila manioti insieme a Kolokotronis e a una schiera di grandi clefti di Morea mossero contro la guarnigione turca di Kalamata. Dopo la resa di questa, egli diramò alle corti d’Europa una dichiarazione delle aspirazioni greche firmata «Petrobey Mavromichalis, Principe e Comandante in capo». I vessilli della libertà si alzavano intanto in tutta la Grecia, e l’intera penisola divampò in un incendio che dopo quattro secoli di schiavitù abbatté per sempre il potere turco nel paese e fece rinascere la splendente fenice della Grecia moderna. Petrobey, alla testa dei suoi manioti, combatté battaglie e battaglie in quegli anni feroci, e fu uno dei giganti della lotta. La sua figura si staglia ben al di là dei limiti rocciosi di queste pagine, in quelle della storia moderna europea. Non meno di quarantanove suoi familiari perirono nel conflitto e la sua capitale Tzimòva fu ribattezzata in suo onore Areopolis: la città di Ares, dio della guerra. Nell’intrico di contrasti ideologici che seguì la liberazione Mavromichalis venne in urto con il nuovo capo dello Stato, Giovanni Antonio conte di Capodistria, e fu imprigionato nella nuova capitale Nauplia. Il Mani insorse; Petrobey fuggì ma fu ripreso e rimesso in carcere, e due suoi turbolenti nipoti, infuriati per l’ingiuria, uccisero in un agguato Capodistria. Durante il regno del re Ottone, Mavromichalis ebbe alti onori, e morì, circonfuso di gloria, nel 1848. In seguito i suoi discendenti hanno avuto sempre una parte di rilievo nei vari governi e gabinetti di guerra, anche se nessuno di loro - e come sarebbe stato possibile, nel mondo ateniese della politica di partito? - ha eguagliato la statura del grande avo.










sabato 20 giugno 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Anavriti, Kambos e Sotirianika)


Le montagne erano alle nostre spalle, e le colline pedemontane digradavano in dolci ondulazioni verso il mare punteggiate di villaggi e di aie biancheggianti. Al di là degli ultimi colli erano la placida distesa del golfo di Messenia e la penisola più occidentale del Peloponneso, dove si trovano Methoni e Koroni. A nord una grigia spalla del Taigeto celava la parte più interna del golfo, dove friggeva Kalamata. A Galtes, il primo villaggio, ci fermammo per un bicchiere di vino sotto una pergola in compagnia del prete e di alcuni paesani con quei grandi cappelli manioti, poi continuammo a scendere. La strada si snodava in agevoli sinuosità. Il sole del tardo pomeriggio ammorbidiva ogni cosa, e insieme al sollievo di essere sfuggiti alla prigione dei monti caricava l’aria di un senso di benessere e di vacanza. Arrivati a una piccola pianura ci imbattemmo in una schiera di muli, tre dei quali montati da giovanotti. Uno era un compagno di battesimo di Chrisanthos, sicché potemmo subito issare le nostre stanche membra su una sella.
«Da Kalamata?» chiese il compagno di battesimo.
«No, da Anavriti».
«E dov’è?».
«Dall’altra parte del Taigeto».
Era chiaramente incredulo, finché Chrisanthos non gli assicurò che era vero. La sua compassione fu immediata «E la signora... mi scusi, non conosco il suo nome...?».
«Ioanna».
«E la kiria Ioanna anche? Po, po, po! Sarete morti! Quelle rocce da capre ammazzerebbero chiunque. Sono una disperazione, ti fanno sputare l’anima».
Fece un viso grave. «C’è solo un rimedio, quando uno è tanto stanco». Parlava con la serietà di un diagnosta. «Un caffè medio ben bollito. Poi, dopo mezz’ora,» chiuse e alzò il pugno, e col pollice teso fece il gesto di versare in bocca «vino. Vino buono. Molto vino». La sua fronte corrugata divenne ancora più grave, e per evitare ogni equivoco decise di riformulare la frase. «Quando arrivate a Kambos» indicò la cittadina davanti a noi, di cui sentivamo da qualche minuto le campane «dovete bere molto vino».
Passavamo per un oliveto che cresceva da una terra rossa sparsa di pietre. I rami contorti erano striduli di cicale. I muli trottavano svelti, e nell’eccitazione di avvicinarsi a casa ruppero quasi in un galoppo. La piccola cavalcata sollevava un polverone che i raggi del sole mutavano in una trasfigurante nuvola rosso-oro. Tirammo le redini ai margini di Kambos, perché i muli andavano a Varousia a prendere dei sacchi per il grano trebbiato durante la giornata. Il sole era tramontato ma gli alberi e le prime case di Kambos splendevano ancora della luce immagazzinata dall’alba. Sembrava che ardesse dal di dentro col fulgore particolare, interiore, dell’estate greca, che dura per un’oretta dopo il tramonto, di modo che i muri bianchi e i tronchi degli alberi e le pietre svaniscono infine nell’oscurità come lampade che si spengono lentamente.
«Non dimenticate il mio consiglio» disse il mulattiere, e con un tamburellare di zoccoli la vispa truppa di muli si allontanò tra gli olivi nella sua strana aureola di polvere.

La ricetta era eccellente. Seduti dopo cena nell’umile platia di Kambos, convenientemente narcotizzati dal vino, tutta la stanchezza della lunga scarpinata diurna si risolse in un torpore piacevolmente nebuloso. Di là dai tetti e dal fogliame, nel baluginio delle stelle e di un esile fantasma di luna nuova, la mole del Taigeto appariva più che mai dirupata e impervia. Sembrava impossibile che solo quella mattina fossimo partiti dalla remota pseudo-Giudea dell’altro lato... La nostra fierezza, peraltro, si sgonfiò alquanto al pensiero di Iorgo che in quello stesso istante attraversava i monti a gran passi... Un’alta figura, dandoci la buonasera e sedendosi su una sedia accanto, ruppe il filo della nostra sonnolenta conversazione. Era un tipo magro, donchisciottesco, con guance infossate e foltissimi sopraccigli. Mise sul tavolo un ekatostáriko di vino e riempì i bicchieri. Gli chiedemmo notizie sulla cittadina di Kambos.
«Un posto miserabile,» disse «praticamente un sobborgo di Kalamata, anche se ci corrono ore di strada, e gli abitanti sono un branco di buoni a nulla. Sono valacchi».
«Valacchi? Nel Peloponneso?».
«Noi li chiamiamo così».
Dissi che non avevo mai sentito che ci fossero valacchi a sud del golfo di Corinto, e mai pensavo di trovarne nel Mani.
«Qui non è il vero Mani,» disse lui «è quello che chiamano l’Exo Mani, il Mani Esterno. Dovete arrivare al Mesa Mani, il Mani Centrale o Alto Mani, a sud di Areopolis, per trovare dei veri manioti. Loro sono tutta un’altra cosa. Gente onorata, alti, di bell’aspetto, ospitali, patriottici, intelligenti, modesti...».
«Sicché lei non è di Kambos?».
«Dio mi guardi!».
«E di dov’è?».
«Dell’Alto Mani».


Kambos di giorno era un paesotto torrido e anonimo, e fummo lieti di andarcene. Mentre aspettavamo la corriera sulla piazza del mercato, l’alto-maniota dal volto dolente venne verso di noi a lunghi passi, sotto la paglia del suo gigantesco elmo di Mambrino. Tirò fuori un lindo fazzoletto azzurro in cui erano annodate susine e regine Claudie. Le sbucciò per benino con un coltello a serramanico, le gettò a rinfrescare in bicchieri di retsina e ce le offrì a turno infilzate in una forchetta. Ci sono momenti in Grecia in cui sembra di poter vivere al modo di Elia, senza preoccuparsi del cibo: il pasto ti compare sotto il naso come portato dai corvi. Il nostro benefattore era in preda a un’acuta malinconia. Detestava vivere a Kambos fra quegli scimuniti valacchi. Tornò a parlare dell’Alto Mani come di una Canaan bramata e irraggiungibile. E perché non viveva là? «Non me lo chiedete» disse, e fece con la mano aperta quello stanco gesto circolare che allude a un cumulo di complicazioni sulle quali è tedioso e irritante diffondersi. «Problemi...» disse.
Mi balenò che si trovasse coinvolto in una delle faide per cui il Mani è famoso, e fosse venuto a rifugiarsi in questi alieni bassipiani.
«Dovreste essere là in autunno,» disse «quando le quaglie passano a milioni. Noi stendiamo reti e mettiamo trappole, e le arrostiamo allo spiedo... Se mi date il vostro indirizzo di casa e se Dio mi dà vita fino all’autunno potrei mandare laggiù mia nipote a riempire un bel barattolo di quaglie sott’olio, e ve le mangerete a Londra come mezé... Il coperchio potremmo chiuderlo col saldatoio...».

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI






Agioi Theodoroi






























SOTIRIANIKA
Agios Nikolaos