lunedì 6 luglio 2015

Picasso a Céret, 1911


Da un po di tempo Manolo e sua moglie Totote chiedono a Picasso di raggiungerli a Céret, un villaggio catalano nei Pirenei orientali francesi, ai piedi del Canigut, ultima sosta prima di Puigcerda e della Spagna.
Per Manolo - che non essendosi presentato alla chiamata di leva ...e non aver sborsato l’importante cifra utile ad assicurarsi l’esenzione, cosa che per Picasso fece lo zio Salvador versando 1200 pesetas - tornare in Spagna significa finire diritto diritto nelle fauci della galera. E adesso questo villaggio di confine per lui rappresenta la terra promessa, dove può tranquillamente lavorare alle sue sculture. In verità, la scultura è una forma d’arte non molto apprezzata dai collezionisti, quindi economicamente poco redditizia, ma lui riesce a sopravvivere grazie all’aiuto di Frank Haviland e, soprattutto, del fisso garantito che ogni mese gli passa Kahnweiler, il suo mercante a Parigi. Per casa e studio a Céret Manolo dispone delle parti abitabili di un monastero del XVIII secolo, da lui ristrutturate e rese vivibili.

All’inizio di luglio del 1911 Picasso decide di raggiungerli. Quando arriva è solo: la sua compagna, Fernande - che da tempo non nasconde di essere diventata insofferente alla vita di coppia con un artista tutto dedito al lavoro - ha deciso di restarsene a Parigi, nel decoroso appartamento che Pablo, per accentuare il contrasto tra un passato ricco di fame, di gelo invernale e di bollori estivi e l’agiatezza pian piano guadagnata, ha preso in affitto al numero 11 di Boulevard de Clichy - una proprietà di Delcassé, ministro per gli Affari esteri. Lo raggiungerà più tardi, promette, scendendo a Céret in compagnia di Georges Braque. Nel frattempo Picasso alloggia all'Hôtel du Canigou.

Braque e Fernande arrivano a Céret verso la metà di agosto e subito i due pittori si buttano a capofitto nel loro gioco preferito, quello che occupa la loro vita giorno e notte: il lavoro. Per i due, questo di Céret è un periodo ricco di invenzioni creative (cubismo ermetico, scriveranno i critici), quali la composizione piramidale e l’inserimento di lettere dipinte o ritagliate dai giornali nei loro quadri. «Ero molto felice a Céret; Fernande anche, io credo» fa dire a Picasso Jacques Perry nel suo Yo Picasso, biografia edita nel 1982 da J.C. Lattès, Paris, che aggiunge poche righe più avanti: «La sera, tutti noi andavamo al Grand Café de Céret di Michel Justafré, dove i ballerini dell’austera sardana, come a dire metà del paese, guardavano con difficoltà e rimprovero le nude gambe delle nostre donne.»

1911 - Amics, cantem la ceretana...

1911 - Paesaggio di Céret

Il cielo comincia a rabbuiarsi il 23 agosto. Seduto coi suoi amici sotto i grandi platani del Gran Café di Céret Picasso legge sull’Indipendent di Perpignan la notizia del furto della Gioconda di Leonardo, facilmente trafugata dal Louvre. Scherzando, Braque propone di rimpiazzarla con il Busto di Madame Putman, una contadina da loro conosciuta anni prima a La-Rue-des-Bois, la cui testa, sempre secondo Braque, assomiglia ad una forma di camembert e il naso ne sarebbe una porzione. «Noi tutti abbiamo riso di questo sacrilegio». Tutto qui? No, il peggio ha ancora da venire: #staiserenopicasso avrebbe cinguettato un circoncelliano (o parabolano, che è poi lo stesso) dei nostri tempi.
Il primo di settembre i quotidiani rendono nota la scomparsa dalle sale del Louvre di alcune preziose teste iberiche, sculture che pochi giorni dopo tale Géry Piéret porta alla sede del Paris-Journal, dimostrando la fragilità in fatto di sicurezza di quel museo. Ne nasce un nuovo scandalo - e Géry Piéret prudentemente fa sparire le sue traccia.

In data incerta - il 5 settembre per la maggior parte dei biografi, attorno al 25 per Josep Palau I Fabre - Fernande e Picasso lasciano Céret e in treno raggiungono Parigi. Per lui è un viaggio tribolato e ne ha ragione: a suo tempo, nella redazione della Guide de Rentiers Guillaume Apollinaire aveva conosciuto Géry Piéret, un uomo dal passato fumoso che pare avesse vissuto quattro anni in Brasile prima di rientrare a Parigi. Un bel giorno questo Géry Piéret arriva con due sculture - due teste tipiche di quell’arte iberica che tanto aveva scosso Picasso al tempo in cui lavorava alle Demoiselles d’Avignon - e generosamente le regala al poeta (alcuni scrivono che vennero pagate 50 franchi l'una: vai a sapere...) e questi a sua volta ne fa dono al pittore. Ora, dopo i recenti fatti del Louvre, Picasso ha intuito che quel dono a suo tempo gradito è diventato un pericolo.

A Parigi Picasso si mette subito in cerca di Apollinaire, che trova in angoscia - «sembrava aver perso la sua rotondità, come se si fosse sgonfiato», dirà in seguito - e ne ha ben donde: non contento di quanto già fatto, ora Géry Piéret ha pure scritto una lettera ai giornali auto-accusandosi di essere il ladro della Gioconda. I nostri due artisti sono letteralmente presi dal panico: e se la prossima mossa di questo pazzo farneticante fosse quella di rivelare ai quotidiani che Picasso ha in casa due sculture iberiche rubate al Louvre?

Il panico è sempre un pessimo consigliere. Ormai nel pallone, i due decidono che devono assolutamente liberarsi delle due statuette e per farlo scelgono una strada tortuosa: portarsi in piena notte sulle riva della Senna e far scivolare le sculture nelle acque del fiume. Fosse facile: dopo aver camminato avanti e indietro sui lungosenna per una notte intera, macinando chilometri e chilometri col loro fardello sotto braccio, all’arrivo della luce del sole i due non trovano altra soluzione che non recarsi alla sede del Paris-Journal, dove lavora il loro amico André Salmon, affinché fosse il giornale a restituire al Louvre, in forma anonima, le due statuette. Questo gesto non passa inosservato e un loro nemico, un detrattore della poesia e del cubismo, li denuncia alla polizia. Il 7 settembre Guillaume Apollinaire viene arrestato e portato alla Santé.

Pur tra tanti errori, il giorno dopo tutti i quotidiani scrivono di questo arresto:
«Lindividuo arrestato per complicità nel furto, in qualità di ricettatore, è di origine russa. Si chiama Guillaume Hostrowsky [anziché Kostrowitsky, il vero cognome di Apollinaire]. Il ladro sarebbe un certo V., che ha già varcato la frontiera.»
«Pare confermato il fatto che ci sia una correlazione tra i diversi furti di statue fenice e la sparizione del dipinto la Gioconda.»
«Si ha limpressione, presso il palazzo, che ci si trovi di fronte a una banda di ladri internazionali, arrivati in Francia per smantellare i nostri musei.»

Picasso è sempre più in preda al terrore: lui è straniero in Francia e quindi teme l’espulsione, che ai suoi occhi equivale all’esilio. Un’onta, un disonore, soprattutto per la sua famiglia e per i suoi parenti che vivono in Spagna, ancorati ai principi morali e sociali tipici di quella terra.

Un mattino all’alba suona il campanello di casa Picasso. Lui è ancora a letto, addormentato, uso come è a lavorar di notte e dormire fino a mezzogiorno e oltre. Un ispettore di polizia gli chiede di vestirsi e di seguirlo. No, non è in arresto, ma un giudice istruttore vuole un confronto diretto tra lui e Apollinaire. Messi faccia a faccia, i due amici piagnucolano, vaneggiano, pronunciano frasi insulse, si comportano come due perfetti idioti. Del resto non è questo che la gente si aspetta dagli artisti, tutta arte e follia? Stranamente, il giudice non è uno sciocco: comprende il giusto e li manda liberi.

Per dimenticare in fretta questo terribile momento ai due non resta che rituffarsi nel lavoro. Picasso fa di tutto per liberarsi dalla struttura piramidale che ha dominato l'estate 1911 a Céret, Apollinaire lascerà traccia di questi giorni nei sui Calligrammes:

Avant d’entrer dans ma cellule
Il a fallu me mettre nu
Et quelle voix sinistre ulule
Guillaume qu’est-tu devenu




© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri

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