mercoledì 28 gennaio 2015

Santa Mustiola, a Chiusi


mail inviata il 10 luglio 2009

Oggi, passando all’esterno di un bar ho raccolto una copia di Vicenza Città “il quotidiano gratuito”. Non lo faccio quasi mai d’estate, più sovente d’inverno: la carta su cui sono stampate le notizie è la più adatta per pulire il vetro del mio caminetto. Il Corriere, La Repubblica, La Stampa, Il Giornale - per citare alcuni dei più noti quotidiani italiani - non funzionano altrettanto bene; noblesse oblige.
Ne sfoglio le pagine velocemente, tanto son sempre le solite balle: i No Dal Molin, il verbo del vescovo, le bugie dei politicanti, la Finanza che ogni tanto “scopre” gente che da decenni vive e prospera esentasse sotto gli occhi di tutti. E poi tanta pubblicità, il sostegno economico di questa stampa “gratuita”. Insomma, si arriva in fretta alla fine. Oggi no: a pagina 20 un riquadro in grigio e arancio sgargiante attira la mia attenzione: “IL SANTO DEL GIORNO. Santi Ireneo e Mustiola, martiri del III secolo”. Fino a otto giorni fa quest’informazione sarebbe passata inosservata, ma non oggi, e se avete pazienza vi dico il perché.

* * *

2 luglio 2009. Lascio Firenze diretto a Tarquinia ma poi - come spesso mi accade - “qualcosa” mi spinge a deviare verso altre mète ed io non oppongo mai resistenza al mio sprogrammato destino. Se adesso “sento” che devo uscire al casello di Chiusi-Chianciano, così faccio. Cerco un posteggio - tanto poi riparto, mi dico - e mi avvio verso il centro. Poco prima del Museo Nazionale, a destra c’è la cattedrale di San Secondiano. Avrei tirato dritto per la mia strada se non che, davanti al campanile, eccoti un’ottagonale fonte battesimale. Mi fermo, le giro attorno, scatto delle foto. Alzo gli occhi: Ufficio del Turismo. Entro. Il ragazzo è gentile e mi dice che oggi è il mio giorno fortunato. Dopo anni e anni di chiusura causa restauri (un periodo di tempo pari a quello impiegato per costruire l’intera cattedrale di Chartres!), adesso la Tomba della Scimmia è stata riaperta al pubblico, visitabile in piccoli gruppi guidati e solo di giovedì. E oggi è proprio giovedì! M’interessa? Certo che sì! Subito lui telefona al vicinissimo Museo e chiede se vi sono posti liberi. Affermativo. Mi consiglia di andare subito a pagare il biglietto, transazione necessaria per entrare nel club dei privilegiati.
Prima di uscire m’informa che oggi iniziano le festività dedicate a santa Mustiola, con tanto di Messa alle ore 18 concelebrata da più sacerdoti; il vescovo, no: lui arriverà domani. Me ne farò una ragione.

Al Museo mi dicono che la visita guidata alla Tomba della Scimmia prevista per le ore 11 non è possibile: un inatteso Ispettore è appena arrivato da Firenze per una visita tecnica. Se voglio, una guida mi potrà accompagnare alle ore 16. Inutile combattere contro il destino: se “ha” deciso così, un motivo ci sarà. Mi adeguo e cerco un albergo per la notte. L’unico aperto in città esibisce una sola stella ma chiede 85 euro a notte, cappuccino e cornetto sotto plastica incluso; a Firenze per 75 euro ho alloggiato in un tre stelle: una suite con 48 mq di terrazza, parco alberato, piscina e prima colazione inclusa... Sento un certo non so che là dove di solito non mi batte il sole…

Dopopranzo rientro al Museo e lì ci resto fino alle 16, anche perché fuori fa un caldo torrido mentre qui è di un fresco... Conosco la signora che mi accompagnerà a visitare tre tombe e nell’attesa chiacchieriamo di arte, di etruschi e di quel ehm ehm arrivato da Firenze. Poi di nuovo: “oggi alle 18 ci sarà la messa.... etc etc”. E allora che mi si spieghi di questa santa e del suo rapporto con Chiusi, dico io. Lei mi racconta che in tempi romani, la giovin fanciulla aveva dedicato la sua verginità a Cristo. Tutto procede bene per la sua intonsa virtù finché dei perfidi Romani decidono che è giunto il tempo di toglierle le ragnatele. Decisa a tener fede al suo voto, Mustiola fugge, inseguita da quei maschiacci in fregola. Come da copione - sempre uguale, del resto, né più né meno lo stesso dei porno: visto uno... - ecco l’intoppo: davanti alla vergine vi sono le acque del Lago di Chiusi, alle sue spalle s’avvicinano gli imbranati predatori. Tutto è perduto, incluso l’onore? Certo che no: all’improvviso appare il terzo incomodo, che suggerisce un trucco alla sua pecorella: “Stendi il tuo mantello sulle acque e mettiti a camminare”. Lei esegue: appena toccata l’acqua il flaccido mantello s’indurisce - non è una mia insolente interpretazione: proprio con queste precise parole mi è stato raccontato - permettendo a Mustiola di porsi in salvo e questo perché man mano che lei camminava verso l’altra sponda anche il mantello si spostava sotto ai suoi piedi, creando un ponte mobile (o il tappeto navigante).

Un paio di altre signore si aggiungono a noi - non ci sono turisti, oggi, e il Museo è deserto. Aggiunge una: in periodo medievale - dunque un migliaio di anni dopo il miracolo - un vescovo “trovò” uno scheletro. Forte delle sue altolocate frequentazioni non ebbe dubbi e dichiarò: “è la vergine traghettatrice!”. Le ossa vennero solennemente introdotte in chiesa e poste sotto l’altare, nascoste da un pannello di legno affinché i fedeli potessero ammirare queste sante reliquie per tre giorni all’anno, giusto in occasione della Sua festa.
E oggi è il giorno dell’apertura. In chiesa. Alle 18.

* * *

Visito le tombe (quella della Scimmia è una patacca: il restaurato affresco si vede meglio in cartolina) e ritorno in città. Manca mezz’ora alle 18. Entro in chiesa. Il primo pilastro attira subito la mia attenzione: ad un’altezza “giusta” vi è un buco dai bordi lucidi. Vi infilo le dita della mano: lo stesso gesto che nel 1989 avevo fatto a Santiago de Compostela, imitando centinaia di migliaia di miei predecessori...
L’interno è a tre navate. Le pareti sono interamente ricoperte da mosaici che vorrebbero riportare all’epoca bizantina. Ma l’occhio allenato vede subito che qualcosa non quadra. Scopro infatti che è un finto mosaico, ma ci fa la sua bella figura. Ai lati del portale centrale due pietre ricordano forme leonine, ma coi leoni-tarasca - animali sovente raffigurati mentre mangiano uomini e per questo incaricati di proteggere l’ingresso dei templi, impedendo l’accesso ai demoni - questi non c’entrano proprio per niente: sono solo gli stipiti dell’antica facciata.
A sinistra del portone centrale vi è una colonna nera con un serpente arrotolato “a drago”; a destra, sempre su nera colonna, una croce. Un dejà-vu, per un milanese uso a spingersi in direzione di “quel vecchio là fuori di mano” più noto alle masse come Basilica di Sant’Ambrogio. A Milano il serpente-drago pare sia arrivato direttamente da Bisanzio. Temo che questo abbia fatto meno strada.

Sono lì che giro tra le colonne, annusando tempi e stili ed ecco che suonano campane e campanelle. Sono le 18. Il rito ha inizio. Dalla sacrestia escono quattro sacerdoti e quattro chierici bianco-rosso vestiti (i due colori della fecondità, poco adatti per una vergine), ma non si dirigono verso l’altare. Puntano invece all’ingresso; qui girano a destra per poi scendere restando nel mezzo della navata centrale. La classica circumnavigazione “oraria” vista fare (e fatta) migliaia di volte in India, Nepal, Tibet, Indonesia, Malaysia. Anche al Tempio di Gerusalemme i Leviti usavano girare intorno all’Arca. I musulmani lo fanno alla Mecca. I vescovi cattolici quando inaugurano una chiesa. Un rito arcaico (come le rogazioni) che riporta all’apparente girare del Sole intorno alla Terra: un rito solare per il culto di un dio solare.
Mi sposto in avanti, fino alla colonna più vicina all’altare. A poca distanza ho le autorità: i carabinieri e il sindaco. I quattro celebranti sono compresi nel loro sacro lavoro e non mi degnano d’attenzione. Ergo, pur sempre evitando di invadere il campo altrui, prendo a scattare foto. Il rito prevede l’iniziale scopertura della facciata dell’altare. Un paio di uomini staccano il pannello e davanti al suo pubblico si manifesta la cerulea vergine del lago. Inevitabile lo scroscio d’applausi, così tanto di moda in Italia che non lo si fa mancare neppure ai funerali; a me pare una bestialità, a meno che ...con l’applauso non si intenda manifestare la propria gioia nel vedere il caro estinto avviarsi alla tomba.
Sono preparato: al Museo le donne mi avevano raccontato di come un tempo si mostravano ai fedeli le sante ossa: “Da bimbetta mi facevano così tanta paura!”. Ma dal 2002 il teschio è ricoperto da una maschera che una luce azzurrina rende ancor più cadaverico: “Adesso fa ancora più impressione”.
Segue la messa, caratterizzata da continue elevazioni di braccia, una posa che riporta alle “figure oranti” graffite fin dai tempi remoti. Utilizzata dagli israeliti, questa ieratica postura trovò la sua naturale continuità nei riti cristiani; toccherà a Tertulliano e ad Origene richiamare i fedeli ad un uso più moderato, evitando di esasperare il gesto per dare maggior senso d’intimità alla preghiera. Qui, temo che i quattro concelebranti non abbiano confidenza con gli scritti dei citati Padri della loro Chiesa...

Tutto ha un principio, tutto ha una fine. Anche la Messa. Dopo un attimo di raccoglimento davanti all’incerato scheletro, gli otto lasciano l’altare dando via libera alla devozione locale. Ma devono affrettarsi, i fedeli, perché ai sacerdoti tocca l’impegno della cena con le autorità, seguita da un’altra fatica professionale: spostarsi di pochi chilometri e raggiungere le sponde del Lago, dove, ma solo dopo la loro benedizione, avranno inizio i fuochi artificiali.
Non volendo in nessun modo disturbare la devozione altrui, mi metto in disparte ed attendo che tutti i presenti portino il loro omaggio alla santa. Ad altare libero mi avvicino e vedo quel che da lontano mi era stato negato: a sinistra vi è un mosaico - questo si che è vero - resto di una pavimentazione romana. Ci giro attorno e trovo, proprio dietro l’altare, la scritta fatta apporre dal probabile proprietario della villa che qui sorgeva: Partenio Macario.
Faccio appena in tempo a scattare qualche immagine del pavimento che subito la cattedrale precipita nel buio: i sacerdoti, uscendo, spengono sempre le luci. Non mi resta che accodarmi a loro verso la porta. Solo la fioca luce emessa dalla teca con lo scheletro della santa illumina il mio cammino. È il momento di dirle addio: al ristorante ho prenotato un tavolo per le ore venti.

PS: il giorno dopo ho raccolto un dépliant illustrativo della cattedrale e del miracolo della santa. Vi leggo:

CATTEDRALE DI S. SECONDIANO
Chiesa paleocristiana (VI secolo)

Per illuminare la Cattedrale è possibile usufruire della gettoniera
all’entrata della porta laterale sinistra. Attenzione agli scalini!!!

CRISTIANESIMO A CHIUSI
E NASCITA DELLA CATTEDRALE

Il cristianesimo è presente a Chiusi fin dal sec. III come risulta dalle due catacombe dette di S. Mustiola e di S. Caterina, che risalgono a tale epoca. La comunità cristiana chiusina, probabilmente fin dal tempo delle per­secuzioni, si riuniva per la celebrazione dei divini miste­ri nelle catacombe e nella casa di qualche fratello di fede. Di quella antica “domus ecclesiae” e rimasta una traccia nel pavimento di un antico edificio ritrovato nei recenti scavi. Parte del pavimento ritrovato e posto adesso intorno all’altare maggiore, porta il nome del probabile proprietario “Partenio Macario”.
Questa primitiva basilica cristiana fu distrutta durante la guerra gotico-bizantina (535-553) che non risparmiò tanti altri edifici della città di Chiusi. Passata la bufera il vescovo chiusino Florentino, tra il 554 e il 560, fece ricostruire la basilica-cattedrale che fino ad oggi conser­va sostanzialmente l’originaria architettura. Lo stile della cattedrale è sicuramente paleocristiano, ultima espressione dell’arte romana con gli influssi dell’arte bizantina che negli stessi anni costruì a Ravenna le chiese di S. Apollinare e S. Vitale. La facciata, come oggi la vediamo, è il risultato dei restauri effettuati tra il 1881 e il 1894. Infatti il vescovo Pannilini fece una serie di interventi per adattarla al suo tempo. Tra questi fu aggiunta una nuova orchestra che ha obbligato a tra­sformare la facciata con l’aggiunta del Pronao. Del por­tale centrale rimangono solo gli stipiti laterali.
La dedica a S. Secondiano, nobile romano martirizzato a Centocelle, il cui corpo fu trasferito a Tuscania, non è chiaramente spiegabile se non con una particolare devozione a questo martire da parte del vescovo Florentino.
Diciotto colonne, di cui poche in travertino e le più in marmi pregiati, sorreggono le arcate dividendo la nava­ta centrale da quelle laterali. Provenienti da vari edifici della città distrutta, queste colonne sono di diversa altezza e dimensione e sormontate da capitelli di ordine ionico e corinzio. Sopra i capitelli vi sono i pulvini di adattamento e in alcuni di essi vi è la presenza di rudi­mentali bassorilievi che hanno un alto valore di simbo­lismo cristiano (per maggiori informazioni, consultare il testo di Onedo Meacci). In un pulvino posto sotto la terza colonna di sinistra, è la memoria del vescovo Florentino che fece costruire la cattedrale. Nelle pareti delle navate laterali sono murate varie iscrizioni e collo­cati alcuni frammenti di antichi sacri monumenti.
Sull’abside e sulle pareti della navata centrale e del transetto si trova un finto mosaico eseguito nel XIX sec. dal pittore senese Arturo Viligiardi che per la decorazio­ne fu coadiuvato dal un altro senese, Loli Piccolomini. Il dipinto dell’abside, ispirato ai mosaici della Basilica di S. Maria Maggiore in Roma, porta la data 1892; quello a destra, raffigurante la martire Orsola, fu eseguito due anni più tardi.
Ai lati della navata centrale ci sono due Cappelle. A destra la Cappella della Madonna e S. Caterina da Siena (con affresco raffigurante la Santa senese che impara miracolosamente a leggere e scrivere). L’affresco è sempre del pittore A. Viligiardi, mentre la cappella fu costruita agli inizi del sec. XVII dal Vescovo Alfonso Petrucci che sotto il pavimento volle la sua tomba.
Altri vescovi hanno avuto sepoltura in questa cappella. L’ultimo che vi ha trovato riposo è il vescovo Mons. Carlo Baldini.
A sinistra c’è la cappella del SS.mo Sacramento, eretta dal Vescovo Mons. Pannilini agli inizi del sec. XIX. Interessante il quadro sull’altare con la Natività di Cristo tra i santi Secondiano e Girolamo, opera del pit­tore senese Bernardino Fungai nato nel 1460 e morto nel 1516.

LA SPIRITUALITÀ NELLA COMUNITÀ
DI CHIUSI HA UN NOME: S. MUSTIOLA

Oltre l’arte e la sua antica origine, la Cattedrale di Chiusi è illuminata dalla presenza dello spirito e del corpo di una santa che, agli albori del cristianesimo, ha testimoniato con il sangue la fede e l’amore per Cristo: Mustiola. La storia di questa giovane nobile romana è interessante perché testimonia l’impatto che i primi cristiani dovettero affrontare con il paganesimo e la presunta divinità attribuita agli imperatori romani. Mustiola, infatti, fuggita da Roma a causa della perse­cuzione dell’imperatore Aureliano, si rifugiò, attraverso varie peripezie, nella vicina Chiusi dove esisteva già una viva comunità cristiana. Essa divenne, per questa comunità luce e conforto sia spirituale che materiale poiché si prodigava nella carità soprattutto verso i biso­gnosi e i carcerati. Scoperto dai suoi nemici il luogo dove si era rifugiata, venne catturata, processata e ucci­sa con le piombate nella piazza di Chiusi nell’anno 274. Fu sepolta nella catacomba che dista 2 chilometri dal centro storico e che in seguito prese il suo nome. La venerazione per questa Santa Martire non si è mai interrotta durante tutti questi secoli. Anzi si è estesa in tante parti d’Italia, da Milano a Pescara dove esiste anche oggi la cattedrale intitolata a lei. Tante Chiese, sparse nel territorio italiano, sono dedicate a lei e por­tano i segni della sua presenza nelle pitture e nelle scul­ture. Il suo corpo, dopo la traslazione fatta dal Vescovo Pannilini nel 1784 dalla omonima basilica cimiteriale al Duomo, adesso è posto sotto l’altare maggiore e viene esposto al pubblico una volta all’anno in occasione dei festeggiamenti che vengono fatti in suo onore il 3 di luglio. Durante l’ultima ricognizione avvenuta il 16 marzo 2002, è stato fatto un intervento sul teschio della santa martire, ricostruendo il suo volto con la probabi­lità del 90% di come lo hanno veduto i suoi contempo­ranei. Questa tecnica di ricostruzione è stata ideata e realizzata dal prof. Mallegni, paleoantropologo dell’Università di Pisa. Chi desiderasse avere maggiori informazioni su questa ricostruzione, può usufruire dell’opuscolo “Santa Mustiola, martire cristiana del III secolo” che illustra l’intervento eseguito sul suo corpo.

* * *

Come si vede, l’attuale interpretazione ecclesiastica del “miracolo” della santa è totalmente diversa da quella raccontatami a voce dalle popolane.
Come scrisse George Bernard Shaw (1856-1950), “esistono cinque tipi di bugie: la bugia semplice, le previsioni del tempo, la statistica, la bugia diplomatica e il comunicato ufficiale”.

© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
















martedì 27 gennaio 2015

Santa Maria alla Fontana, Milano


Mail inviata nel 2007

Una frase presente in una mia mail ha creato un certo movimento di posta elettronica.

Ecco la vera ragione perché sulle antiche tombe si usava incidere una sola data - quella della morte - tralasciando l’altra data, quella in cui si è stati partoritimorti” a causa del peccato originale.

Chiarisco: la Chiesa che si rifà al Cristo è una Chiesa fondata sulla Resurrezione, dottrina che obbligatoriamente prevede la morte del corpo e la trasmigrazione dello spirito nell’Aldilà.
Solo all’Unto o Messia e alla sua vergine madre si è concessa l’ascensione del corpo in cielo.
In altre parole, è una Chiesa fondata sul controllo della morte - momento ambito dai primi seguaci, che “cercavano” il martirio. Per tale ragione la sua ritualistica iniziò presso i cimiteri (le catacombe, intese come grotte-utero dove “morire” e “rinascere”; in termini tecnici, il processo è noto come regresso in utero, molto praticato ancor oggi in molti luoghi o templi dell’India, ma anche ben presente negli ambienti mesopotamici, persiani, hittiti, palestinesi, egiziani...). Divenuta religione tollerata, si lasciarono le grotte per costruire le chiese - evoluzione stilistica della grotta-utero: si entra nel grembo della madre-chiesa - e le prime furono erette nei pressi dei cimiteri; queste basiliche fuori città racchiudevano fra le loro mura le tombe dei cristiani morti, meglio se in odore di “martirio”, un termine utilizzato con troppa generosità e la storia insegna che tutto non andò proprio come raccontato... Ma tant’è: ognuno vende la propria mercanzia cercando di trarne il maggior profitto.

Il “controllo” del morto - meglio: del morente - pervadeva (e pervade tuttora) la politica del clero. Per loro, l’essere umano è un morto deambulante fin dalla nascita, macchiata da un presunto “peccato originale”. Una prima “resurrezione” terrestre si ha col rito del battesimo, termine derivato dal greco baptìzein = immergere, ovvero il rito di iniziazione celebrato con l’acqua. Lo stesso rito è celebrato quotidianamente dalle masse indiane con le loro abluzioni nei fiumi sacri. L’immergersi - o farsi aspergere - nell’acqua è ovunque simbolo di iniziazione, morte e rinascita, rigenerazione, rinnovamento, così come il riemergere dall’acqua è rinascita e resurrezione. È dunque un rito di passaggio dalla materia allo spirito. Per i cattolici, infine, è il sacramento che lava dal peccato compiuto da Adamo e (soprattutto) da Eva.
Nel battesimo antico l’acqua divenne la metafora teologica più importante: le acque del battesimo erano la tomba dove era sepolto l’uomo peccatore e l’ambiente vivificante in cui veniva generata la nuova creatura. Sintetizzò Cirillo di Gerusalemme (Catechesi): “Questa acqua salutare diveniva insieme vostra tomba e vostra madre”. Oltre a questa di Cirillo, numerose altre citazioni patristiche chiariscono il ricco simbolismo del battesimo, a cominciare da Ireneo da Lione (Contro gli eretici) che aveva già chiamato il battesimo “il bagno dell’immortalità”, per finire a Cromazio di Aquileia (Commento a Matteo) che spiega: “Rimanendo immersi nell’acqua del battesimo, si otterrà con certezza la vita eterna”.

In principio, la “resurrezione terrestre” o “rinascita” (visto come questi termini ci avvicinano alla religiosità orientale?) richiedeva “acqua viva”, dunque le rive dei fiumi. Siccome ogni vescovo - come i brahmana dell’India - erano “padroni di se stessi”, in mancanza di una teologia e di una Chiesa unificata ognuno impostava i propri riti secondo convenienza. E qui nasce il teologico problema del “battesimo degli eretici”, espressione che può intendere il battesimo ricevuto da un eretico convertito, ma che nella Chiesa romana del III e IV secolo indicava il battesimo amministrato da ecclesiastici aderenti a una dottrina diversa, dunque “eretica”. Tertulliano (220 ca) e Clemente Alessandrino (m. 215 ca) ritenevano che il battesimo amministrato da “eretici” fosse invalido e che coloro che intendevano essere ammessi alla Chiesa romana dovevano essere ribattezzati, parificando quel che facevano i Donatisti, che già ribattezzavano coloro che dalla Chiesa romana passavano all’eresia.
I desiderata di Tertulliano e di Clemente rimasero tali: il battesimo amministrato dagli “eretici” fu sempre riconosciuto dalla Chiesa romana e il IV concilio Lateranense (e siamo all’anno 1215!) chiuse la discussione affermandone la validità “purché il ministro abbia l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa”.

Non esiste religiosità senza i pagani “numeri sacri”. Da brava costola del giudaismo, il cristianesimo portò in dote l’Uno, il Tre, il Cinque, il Sette, il Nove.... Di questi, il più utilizzato è certamente il Tre, celebrato dagli anni pubblici del Cristo: nasce in una famiglia di tre persone, predica per tre anni (circondandosi di dodici apostoli: 1+2=3), muore dopo tre giorni di passione, alle tre del pomeriggio, su di un monte su cui sono erette tre croci (e solo lui, dei tre condannati, sarà inchiodato con tre chiodi di ferro, un metodo riservato solo agli schiavi); una volta assunto in cielo si unisce al Padre e allo Spirito Santo, formando la Trinità...
Anche la vita del mortale è suddivisa in tre parti: il primo periodo porta dalla nascita al battesimo; il secondo, conseguenza del primo, permette al “rinato” di poter accedere ai sacramenti celebrati dal vescovo nella cattedrale; il terzo si conclude nella basilica, la chiesa costruita per custodire il corpo dei morti, meglio se a ridosso della tomba di un martire.

Per controllare (leggi: sottrarre adepti agli “eretici”) il passaggio dal primo al secondo stadio s’inventò un apposito edificio, che prese il nome dal bacino dei bagni privati nelle case romane: baptisterium. In origine aveva una pianta quadrata o circolare, con vasca centrale; solo a partire dal IV secolo si videro i primi ottagoni, forma amata dal “barbaro” sant’Ambrogio, originario di Treviri. La zona centrale era generalmente sovrastata da una cupola, sotto la quale si trovava il fonte battesimale, delimitato talora dal ciborio - reminescenza, quest’ultimo, del giudaico tallit, come pure giudaica è l’usanza di chiudere gli spazi fra le colonne con tende allo scopo di impedire agli astanti, raccolti nel deambulatorio oltre le colonne, di assistere al sacramento.

In principio, i battisteri furono costruiti presso un fiume o in posti dove era facile canalizzare l’acqua, in modo da riportare la “corrente vitale” all’interno delle mura. Ma non sempre questo era possibile: a Milano, i due battisteri costruiti da Ambrogio godevano dell’acqua deviata da una fiumicella che passava non molto lontano. La scomparsa naturale dei fiumi o la ristrutturazione della geografia cittadina portarono alla necessità di ricorrere al più simbolico rito dell’aspersione - ecco la ragione per cui molti battisteri hanno il solo tubo di scarico dell’acqua ma non quello d’ingresso! - e quando il rito dell’aspersione diventò dominante, le costruzioni di grandi dimensioni risultarono superflue.
In seguito la Chiesa cattolica trovò più utile ai suoi interessi passare dal battesimo dell’adulto al battesimo obbligato del neonato. Un fatto che mise fine alle imponenti strutture esterne, sostituite dalle più economiche fonti all’interno della chiesa. All’ingresso e a sinistra, ovviamente.

Una domanda sui fonti battesimali “All’ingresso e a sinistra, ovviamente.”
Perché sono lì situati? Sono così già nelle chiese medievali. Non ricordo se ne avevi già scritto. Saluti e grazie. RV

Con l’invenzione dell’inferno, la Chiesa definisce nel lato sinistro il lato impuro.
Nella geografia del sacro all’interno delle chiese medievali i posti erano così riservati: senatorium e viri a destra; presbiterium, sanctuarium e schola cantorum al centro; matroneum e mulieres a sinistra.
Eliminando il battesimo degli adulti, il nuovo spazio all’interno della chiesa viene riformato. Al battezzando, ancora impuro, da “limbo”, viene concesso di accedere al tempio, previo sosta purificatrice alla fonte battesimale, pacifica inner line.
Dopo il concilio Vaticano II, tutto è di nuovo cambiato. In tempi più recenti, Giovanni Paolo II ha dichiarato che il limbo non esiste. Ora i neonati sono battezzati in gruppo, direttamente sull’altare, riservando il battesimo alla fonte ai privilegiati.

A Milano, lo scorso mese di dicembre [2006], ho assistito casualmente ad un battesimo privato - ovvero non di gruppo - presso Santa Maria alla Fontana, struttura nata nel Cinquecento come ospedale per la cura delle malattie della pelle, con grande piscina utilizzata per l’immersione nelle acque “taumaturgiche” che qui scaturivano in abbondanza. Una Lourdes d’altri tempi e come tale stravolta da un’orrida chiesa “superiore” che ha relegato “in cantina” l’ex ospedale - opera di Giovanni Antonio Amadeo - e i suoi affreschi. Oggi le originarie acque sorgive sono state sostituite da una volgare “acqua del sindaco”, che sgorga dai cannelli previa apertura dell’apposito rubinetto.

© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri
























Santa Maria della Fontana, a Vigadore



Invitato dalla locale Pro Loco, la sera del 24 febbraio 2012 a Varano de’ Melegari (Parma) ho tenuto una conferenza illustrata da diapositive sul tema: Tre vallate dell’Himalaya indiano. Come sempre, le mie argomentazioni si fondano sulle esperienze etno-antropologiche, con mirata attenzione agli arcaici culti rituali.
Commentando l’area del Nag Tibba, non mi ero scordato di illustrare e commentare l’uso di costruire dei templi sopra le polle d’acqua sorgiva, un metodo che ha due giustificazioni: 1) conservare integra la purezza dell’acqua alla fonte, un dovere per chi non dispone di un acquedotto e di una distribuzione capillare controllata; 2) far guadagnare quanto più denaro possibile alla casta clericale che ha in esclusiva gli affari del tempio.
In un'altra vallata, invece, le giovani madri mi venivano appresso e si slacciavano le vesti per mostrarmi i loro seni carichi di latte, chiedendomi di toccare con mano. Un segno d’orgoglio per loro: ho il latte per nutrire mio figlio.

Qui aggiungo il testo della mail da me inviata il 12 agosto 2000:

Panthwari. Il cielo è ingrigito dalle nuvole monsoniche, quindi passo alcune ore gironzolando per le stradine della parte più antica del villaggio, quella a valle della strada sterrata. È molto, molto interessante, con le sue tipiche case di legno ornate d’intarsi. Come da contratto, sono subito circondato da un gruppo di bambini e tutti vogliono una loro foto ricordo.
Poco dopo mezzogiorno rompo gli indugi e m’incammino verso il Nag Tibba, il monte sulla cui vetta - a 3048 metri - vi è un arcaico tempio dedicato al culto del Naga, il serpente-padre degli umani, esportato nei paesi vicini - Cina, Birmania, Thailandia e altri - sotto forma di dragone. Procedo veloce. Il sentiero sale in direttissima verso l’alto, senza andirivieni inutili. Sui 2500 metri di quota entro nella zona della pioggia, ma ormai ci ho fatto il callo. Pochi minuti prima delle 15, avvolto dalle nebbie arrivo al tempio, una costruzione di pochi metri quadrati circondata da un bianco muro di cinta. Nel mezzo del cortile (il tempio occupa l’angolo sinistro, in fondo) sgorga dell’acqua sorgiva, elemento prezioso sia per gli umani sia per abbeverare (incanalata e portata all’esterno del recinto sacro) le mandrie di bufali che i Gujjars - nomadi musulmani provenienti dai lontani monti pakistani - portano fin qui ogni anno da tempo immemore.
Scattate le foto esco dal recinto del tempio, dove trovo ad aspettarmi un giovane pastore Gujjars con una grossa roncola in mano. Mi fa cenno di seguirlo, io esito a farlo. Forse intuendo l’origine del mio disagio, il ragazzo posa l’attrezzo su di un sasso; adesso possiamo andare, e insieme valichiamo un costone erboso. Un centinaio di metri più in basso vi sono le tende nere dei nomadi. Tolgo le scarpe infangate ed entro in una di queste. Il tempo di adattare la vista al buio e mi ritrovo - seduto per terra, su di un tappeto - a bere latte appena munto in compagnia di uomini, donne e bambini. Alla faccia di chi, in India, mi aveva sempre dipinto i Gujjars come un’efferata banda di ladri e di assassini.
Più scendo a valle e più apprezzo il sole e il caldo. I contadini - sembra che nessuno ti veda, ma non fai un passo senza essere sotto il loro controllo - mi vengono incontro e tutti vogliono offrire qualcosa allo straniero che si è fatto oltre 1500 metri di dislivello per rendere visita al “loro” tempio. Chi mi porta del latte cagliato, chi delle pannocchie di mais abbrustolite, chi una tazza di the. Rientro a Panthwari giusto in tempo per la puja al tempio dedicato a devta Nag e a sua moglie devi Tilka. All’interno, le loro statue si trovano in due stanze separate, ai lati di un’impetuosa sorgente d’acqua. In queste valli è uso che tutte le strutture religiose dedicate ai Naga siano erette a protezione delle sorgenti, e questo perché mantenere la purezza dell’acqua alle sue origini è una ricchezza per la vita collettiva. In altre parole: gli spiriti degli antenati sono messi a difesa della vita futura.

* * *

Il giorno seguente, tornando da Varano de’ Melegari ho introdotto una deviazione, uscendo dall’autostrada al casello di Lodi per raggiungere una sua frazione, Vigadore. Il perché è subito detto: da tempo raccolgo materiale inedito su Giovanni Gavazzi Spech, l’uomo che ha firmato il primo articolo inerente un’ascensione alpinistica nel Gruppo delle Grigne - (L’Alpinista, anno 1875, n. 6) - la cui vita chiuderà la serie di libri sul tema Scienziati e Letterati Esploratori del Gruppo delle Grigne, una collana da me ideata e di cui ho già pubblicato le monografie dedicate a Leonardo da Vinci, Paride Cattaneo della TorreNiccolò Stenone, Lazzaro Spallanzani, Mario Cermenati e al Parlaschino.
L’articolo di GGS, possidente che agli affari di famiglia preferì la letteratura, è scritto con taglio giornalistico e risente delle frequentazioni da lui avute con la Scapigliatura milanese e con gli autori che ronzavano attorno alla Cronaca bizantina dell’editore Sommaruga.
Apriti cielo. Letto l’articolo di GGS, nelle Sedi delle prime Sezioni del giovane Club Alpino Italiano - provinciale imitazione dell’Alpine Club di Londra - immediata s’innalza al cielo la domanda-protesta: Carneade, chi è costui!
Da Lecco, il politicante socialista Mario Cermenati, già membro di un reale governo, lancia la sua dolorosa frecciatina contro il Gavazzi sotto forma di nota inserita a piè di pagina in uno dei suoi troppi scritti.
L’onere di dare una solenne risposta ufficiale all’incauto GGS se l’accolla il botanico Vincenzo Cesati - al tempo docente universitario presso l’ateneo di Napoli, uomo che si fregia del titolo acquisito di barone di Vigadore – anch’essa pubblicata sulla rivista del C.A.I. (L’Alpinista, anno 1875, n. 11).
La carriera alpinistica di GGS – sempre che lui avesse inteso di darle un seguito – è definitivamente stroncata: che ogni uccello svolazzi pure nello spazio a lui destinato, ma che lasci liberi i cieli più alti, più tersi, più blu, area di competenza degli aquilotti C.A.I.ni.

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Oggi come allora, Vigadore è una frazione prettamente agricola, che così ho descritto in una mail:

[…] Stamattina, strada facendo, ho fatto una deviazione per visitare la cascina Vigadore, un tempo baronia dei Cesati, di cui uno, Vincenzo, è coinvolto nella mia storia dell’esplorazione delle Grigne. [...] Prima di salutarci, mi è stata indicata una vicina chiesa dedicata a Santa Maria della Fontana: come da me raccontato e dimostrato parlando del Nag Tibba, anche questa chiesa “inferiore” è stata costruita a custodia di una sorgente. L’interno e l’esterno è tutto affrescato, e un cameo pare riprodurre, con molta fantasia, le due Grigne ed i Corni di Canzo. Sopra l’altare, vi è una vergine che allatta, chiaro legame al culto del latte materno, la prima fonte nutriente, come sopra ricordato parlando dell’Har-ki-dun. Ai suoi piedi, un tombino copre la fonte d’acqua. Migliaia di km di distanza, ma stessi culti e stessi simboli. La conferma di ciò che affermo da una vita: studiare i popoli tribali per capire noi stessi.

© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri