domenica 22 gennaio 2017

Metti una sera a Guwahati


Questa storia è datata 1982, l’epoca di mezzo del mio periodo indiano. A Roma, il Consolato della Repubblica indiana mi aveva assicurato che avrei potuto mettere piede nel Nagaland, lo Stato ai confini con la Birmania-Myanmar. Anzi, erano andati oltre la promessa, autorizzandomi ad acquistare in Italia il biglietto del volo interno che mi avrebbe portato in quei luoghi da me tanto desiderati … perché interdetti ai turisti stranieri.
Una volta a Delhi, una visita al Ministero degli interni subito mi raggela gli ardori: per loro il Nagaland è e resta forbidden area, terra proibita. Mostro i biglietti aerei acquistati in Italia, il burocrate fa spallucce: qui la musica la scrivono e la suonano loro.
Non demordo: il 21 dicembre sono all’aeroporto di Delhi, voli nazionali. Al momento del chek-in il funzionario ha dei dubbi e chiede l’intervento di un suo superiore e questi, per non creare inciampi alla sua carriera, altro non sa fare che negarmi l’imbarco. Io non sono d’accordo e chiedo ed ottengo un colloquio col responsabile più alto in grado, dal cui ufficio esco solo dopo aver raggiunto un compromesso: niente Nagaland, ma potrò viaggiare fino e non oltre Guwahati, la capitale dell’Assam. Di natura pragmatico, faccio buon viso a cattivo gioco: dopo tutto non mi è andata poi male, visto che in quegli anni Guwahati e l’Assam non erano posti facilmente concessi agli stranieri. Aggiungo: a Guwahati sorge l’unico tempio tantrico esistente al mondo e questo è già un fatto di notevole importanza.

A Guwahati, presa una stanza in un sordido albergo nel cuore del bazaar - col pavimento e le pareti ricche di piccola fauna locale - decido di non perdere tempo e subito m’incammino in direzione del Neel Parvat, la collina su cui sorge il tempio di Kamakhya, uno dei luoghi più sacri dell’India. Leggenda vuole che dal cosmo qui cadde il “reperto” più importante del sacro corpo di Satì, la dea affettata in 51 pezzi dal chakra Sudarsan, l’affilato disco lanciato da Visnu allo scopo di porre fine al dolore di Shiva, ipocritamente sconvolto per il suicidio sul rogo della sua prima moglie, la Madre Terra che da morta assume l’epiteto di Satì, Virtuosa. Di fatto, agitandosi come un folle, Shiva stava creando gravissimi problemi all’equilibrio del nostro pianeta, minacciando di portarlo alla distruzione. Sì, perché se la Terra fosse schizzata nello spazio, tutti i suoi abitanti sarebbero morti, sacerdoti inclusi. E senza i sacerdoti - gli unici capaci di mantenere in vita gli dèi tramite i riti e le offerte sacrificali - anche i divini sarebbero morti, al pari dei comuni mortali. Da qui la loro preoccupazione...
Cadendo al suolo, i 51 pezzi del corpo di Satì crearono il presupposto per la costruzione di 51 sacri luoghi di pellegrinaggio, di cui il Neel Parvat di Gauhati (oggi Guwahati) è di certo il più importante, dove si venera lo Yoni Mudra, la vulva di Satì. Altra leggenda vuole che questo tempio sia stato costruito da Kamdev, il dio della lussuria che Shiva aveva ridotto in cenere per aver ostacolato la sua meditazione nella foresta. In seguito, Kamdev venne a patti col suo distruttore: se tu mi ridai la vita io costruirò un tempio a ricordo di Satì-Parvati e questa è l’origine del nome Kamakhya o Kamrup.
Varcare la soglia del recinto sacralizzato ed entrare in un macello è tutt’uno: ovunque vi sono fedeli che tengono al laccio i capri da portare al luogo del sacrificio, dove vi sono dei rettangoli scavati nel suolo, con due legni verticali separati tra di loro quanto basta per introdurvi la testa della vittima - oggi i capri e i buoi, ma un tempo non mancavano gli uomini che si offrivano volontariamente. Un assistente del boia prende il capro per le terga, tirandolo così che il collo resti ben teso. Il sacrificante lascia cadere la mannaia e il corpo, separato dalla testa, cade riempiendo di sangue il rettangolo.
Come una catena di montaggio, appena il sangue di un capro è defluito attraverso i fori di scarico ecco pronto il suo successore: la Madre Terra deve restare sempre umida e madida di sangue e la ragione è subito spiegata. La dea primordiale - Kali (la “nera”) - è qui vista come una figura della Madre Terra e come tale (come femmina) deve essere sempre umida e mestruata, sinonimo del suo periodo di fertilità, situazione indispensabile per produrre frutti, erbe e raccolti utili a mantenere in vita le masse contadine e le caste parassite.
Più addentro, locali appositi sono dedicati al rito vero e proprio, dove i sacerdoti del Tempio - previa preparazione psicologica - usano stendersi sulla schiena permettendo così alle donne in età fertile di portarsi sopra di loro, i piedi a lato dei fianchi, per poi calarsi in modo che il sesso eretto del sacerdote officiante entri nella vagina della postulante. Il cosiddetto “smorza candela”, per intenderci. Ovviamente, il tantrismo prevede che il sacerdote non partecipi emotivamente e il rituale esclude in modo assoluto l’eiaculazione.

A margine di quanto fin qui descritto, trovo il modo di fermarmi a discutere con alcuni sacerdoti circa le origini buddhiche del tantrismo arcaico, del suo perché e dei suoi percome. In una sala il mio occhio cade sull’immagine della dea Kali che calpesta il corpo emaciato e prossimo alla morte di Shiva. Chiedo loro di spiegarmi le vere ragioni di questo simbolismo e qui nasce un vivace diverbio: chi mi dice una cosa, chi mi racconta dell’altro, ma nessuno riesce ad andare oltre i limiti dell’interpretazione sempliciotta da dare in pasto al popolo fedele. Capisco che sono di fronte a pujari che poco o nulla sanno - del resto è stato proprio un teologo indiano a scrivere che “chi non sa fare nessun mestiere ...accetta di fare il prete” ([1]) -, quindi racconto la mia versione, frutto di anni di studi e ricerche antropologiche. Ora sono i pujari a chiedermi una cortesia: adesso hanno da fare, mi dicono, non è che potrei tornare dopo cena, a tempio chiuso? Certo che posso e così è stato.
Alcune ore dopo torno a varcare la porta del tempio, dove degli uomini di bianco vestito - quindi non dei semplici pujari - mi accompagnano nella stanza col ritratto di Kali intenta a calpestare Shiva. Ci sediamo per terra in circolo e inizia il nostro colloquio. Alla fine dell’istruttivo dibattito seguito alle mie argomentazioni - e prima di accomiatarmi - chiedo se posso scattare una foto ricordo. Avuta risposta positiva, mi alzo, appoggio la fotocamera su di uno sgabello, attivo l’autoscatto e veloce riprendo la posizione.

Poi ...la mano lunga del destino è sempre in agguato: tre giorni fa sono in cantina deciso a scoprire cosa contengono alcuni scatoloni mai aperti dal tempo dell’ultimo trasloco. Due di essi si rivelano saturi di libri, documenti e fotografie. Li porto in casa e comincio a spulciare e che ti trovo? la fotografia (ricavata da una diapositiva) di quella sera a Guwahati, nel tantrico tempio di Kali. È in allegato.
In una seconda scatola, piena di libri e libretti portati dai miei tanti viaggi in India, ecco riaffiorare lo smilzo opuscolo - 12x17 cm, 37 pagine - da me acquistato a Guwahati (donation: Rs 2 only), arricchito da alcune illustrazioni.

Com’è finita questa esperienza in Assam è cosa da me già raccontata più volte. Dopo un viaggio ai confini col Bhutan, al mio rientro a Guwahati mi attende la carlinga di un vecchio Fokker ad elica. Chiusa la porta con del filo di ferro, il velivolo lascia l’Assam puntando a Calcutta (o Kolkatà, come si dice in loco). Su di un sedile trovo una vecchia rivista, la apro e mi metto a leggere. Un breve articolo è dedicato all’arcaico culto di Aiyanar. Colpo di fulmine. Metto la rivista nello zaino e una volta a casa questo “fortuito incontro celeste” darà vita ad altri viaggi e ad altre esperienze, ricercando gli ultimi seguaci di questo antichissimo culto che riporta alla prima figura antropomorfa di un dio sceso sulla Terra: il sasso nero infisso nel terreno, ovvero il fallo del dio procreatore - nero perché purificato dal fuoco - nell’atto di fecondare la Madre Terra. Nei secoli le teologie dominanti lo trasformeranno nel lingam di Shiva infisso nella yoni della sua paredra …ma anche, mutate mutandis, nelle nostrane pietre nere protettrici dalle febbri e nelle “madonne nere” di medievale retaggio. Ma questa è tutta un’altra storia - e chi vuole, su internet può trovare i miei scritti su Aiyanar, su Satì e altro ancora sull’India coi suoi miti e i suoi riti.

[1] “Normally only such person who are unable to find any worthwhile employment outside accept the job of priests.” Devender Nath Lungani, Complete Hindu Thought, Shri Krsnarpan Seva Sansthan, New Delhi, 2000.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

per le fotografie da me scattate
nel tempio di Kamakhya Kamrup
rinvio al post Tantra
del 12 febbraio 2021






Finisce qui? Certo che no. Molti anni dopo, all’interno di una libreria antiquaria di Amsterdam trovo un volume sulle popolazioni Naga, illustrato con molte fotografie scattate tra gli anni 1873 e 1947. Visto, piaciuto, acquistato. Oggi ho passato allo scanner alcune di quelle immagini, le ho ridotte in formato web …ed eccole qui, in ordine cronologico.
Aggiungo: dal mio viaggio a cavallo tra il 1982 e il 1983, di cui sopra ho succintamente raccontato alcuni passaggi, non sono tornato con le mani vuote. Anche se non ho mai amato saccheggiare i tribali che mi hanno ospitato, una coperta Naga “da uomo” si era resa necessaria per coprirmi nelle giornate più fredde. E una coperta Naga “da uomo” dal 1982 in poi rallegra la mia casa, talvolta stesa sul divano, il più delle volte sulla chaise-longue che utilizzo per la lettura. Due sue fotografie chiudono questa serie di immagini.

























giovedì 5 gennaio 2017

Elio Vittorini, Ginetta Varisco e Gregor von Rezzori




Il tempo passa e “le salve del dottor Alzhaimer” - per usare le parole di Patrick Leigh Fermor, che così definiva “i colpi di amnesia” - sono sempre più frequenti.
Sono giorni che vago fra gli scaffali di casa alla ricerca del libro in cui si racconta delle italiche vacanze estive del suo autore in compagnia di Elio Vittorini e della sua compagna Ginetta Varisco. Chissà perché, l’istinto mi conduce alla voluminosa raccolta delle Cronache mediorientali di Robert Fisk. Ricerca inutile.
Ho ripreso Edgar Morin, ma anche qui niente di niente.
Poi …forse Gregor von Rezzori? Riapro Sulle mie tracce, un libro a suo tempo raccattato “a nuovo” su di una bancarella e da me letto più volte: l’autore parla di molti suoi amici italiani, ma di Vittorini non trovo traccia.
Che dire? Me ne faccio una ragione: in fin dei conti in giro c’è gente che ha problemi ben più grandi del mio (l’amnesia, ovviamente). NOTA aggiunta il 15.12.2020: eureka! ho trovato.


Il perché di tutto questo accanimento è subito detto: Vittorini condivise parte della sua vita con Ginetta Varisco, figlia di un uomo che fu sindaco di Concorezzo e in questo paese, in gran segreto, Elio Vittorini trovò nuova sepoltura nella tomba di famiglia di Gio. Battista Varisco, il padre di Ginetta.
Ecco: mi sarebbe piaciuto trovare quelle pagine dove una terza persona racconta del tempo passato in loro compagnia, anche se ho la certezza che questo mio momentaneo insuccesso avrà un riscatto: prima o poi quelle pagine arriveranno “di loro spontanea volontà” sotto ai miei occhi. Già tante volte è successo… e mi consola [far di necessità virtù] leggere quanto scrive von Rezzori nel già citato buon libro, edito da Ugo Guanda nel 2008:

Essere sulle tracce di se stessi è un’impresa rischiosa, si mettono a nudo cose che si nasconderebbero volentieri a se stessi, e figuriamoci poi agli altri. Confessare qualcosa dinanzi a se stessi è già abbastanza imbarazzante; il decoro vieta di farlo dinanzi agli altri. Ricordo un episodio molto istruttivo che sta in un libro di Dostoevskij, non so più in quale. Dostoevskij è uno degli autori che ho letto in un’epoca in cui, tormentosamente conscio della mia ignoranza, cercavo di colmare le mie lacune leggendo a man bassa «I Cento Grandi Libri della Letteratura Universale che ognuno deve conoscere». Il compagno Fédor Michajlovič, che è uno dei più importanti della compagnia, lo consumai integralmente in un’unica seduta, e mi si perdonerà se oggi non riesco a estrarre dall’insalata russa che mi è rimasta nella memoria i singoli bocconi con tanto di denominazione d’origine.

Il libro di von Rezzori finisce con delle riflessioni che in parte si ricollegano a momenti della mia vita: Bruce Chatwin e l’India, terra da me amata e percorsa in lungo e in largo. Da solo il più delle volte, o meglio ancora: da solo, sì ...ma in compagnia di un miliardo di persone.

Scrivo queste ultime pagine il 13 maggio 1997, nel giorno del mio ottantaquattresimo compleanno. Dopo una primavera freddissima finalmente è arrivato il sole. Grazie alla severa educazione venatoria impartitami dalla buonanima di mio padre, per tutta la vita non mi sono mai curato delle condizioni climatiche: né freddo polare, né caldo tropicale mi hanno mai disturbato - neanche la scarsità del cibo degli anni durante e dopo la guerra; piuttosto la cattiva cucina delle madri di famiglia tedesche, Priska compresa. Adesso invece le mie vecchie ossa stanno bene al calduccio: il mio ideale è un sonnellino pomeridiano - in italiano un pisolino - avvolto in morbide coperte e con il mio carlino più anziano sulla pancia. Saranno abitudini dell’età. E poi ci sono i malanni della vecchiaia: da un po’ registro una difficoltà a leggere e a scrivere. Ce l’avevo avuta anche durante la mia trascurata giovinezza, ma l’avevo superata con l’esercizio. Adesso si è ripresentata, ed è una difficoltà non più psichica, cioè dovuta alla pigrizia, bensì eminentemente meccanica: nel mio campo visivo si è insinuato qualcosa che ricorda nella forma il coccodrillo delle magliette Lacoste e che precede il mio sguardo divorando le righe prima che io arrivi a decifrarle fino in fondo. Quando scrivo, non è così grave; ma io leggo volentieri, sono il migliore lettore dei miei colleghi. Così mi sono risolto ad andare dall’oculista, a Firenze. «Niente di grave» mi ha detto. «Un fenomeno dell’età.» Ma che si crede? Ernst Junger e Zsa Zsa Gabor sono molto più vecchi di me e sicuramente non sono importunati dal piccolo coccodrillo di Monsieur Lacoste. Sia opera dello «Spirito del mondo» di mia zia Hermine o della «Provvidenza» di Adolf Hitler, è un fatto che i beni della vita sono distribuiti in modo nient’affatto equo.
Non voglio certo ribellarmi, ma nemmeno farmi imporre senza protestare ciò che questo grandissimo stronzo, l’onnisciente, l’onniprevedente, l’onnigiusto rifugio di tutti i creduloni, ha deciso per me. So fino a che punto sono stato vissuto al di sopra e al di là di me - destino che, con mio grande scorno, condivido con tutti i miei contemporanei. Ma so anche quale tonalità ho dato, a questa vita vissuta, con il diapason del mio io (ma questo io era davvero io-determinato o già da subito nelle grinfie dell’onnipotente? Piccolo contributo al tema del libero arbitrio). Purtroppo, in quanto corresponsabile del mio destino, non posso accollare a quella potenza tanto citata tutto ciò che ha impedito alla mia vita di evolversi all’insegna dell’armonia (anche se avrei a disposizione ottime scuse per farlo). Comunque sia, gli acciacchi fisici non vanno certo addebitati sul mio conto personale: è il Creatore, nella sua insondabile saggezza, che me li ha attribuiti. Se fossi un uomo pio direi: «Affinché io non goda troppo le delizie della tarda età».
Io sono, come si dice, un robusto vegliardo. Tutti quelli che mi vengono a trovare si stupiscono di quanto sia ancora vivace intellettualmente. Partecipo attivamente a quanto accade intorno a me, leggo il giornale con una certa regolarità. Ogni tanto, nelle dolci ore del mattino, capita che, per rispetto della mia tarda età, invece di precipitarmi giù dal letto per mettermi subito al lavoro, io rubi al vortice degli impegni quotidiani un po’ d’ozio e mi dedichi a un gioco che richiede una concentrazione pari a quella necessaria a risolvere un dilemma scacchistico: la decifrazione della politica italiana. Di giorno in giorno cresce in me l’ammirazione per l’abilità dei politici che, fingendosi drammaticamente impegnati a lottare per la res publica, tessono in realtà tutta una trama di lotte per il potere che non ha nulla a che fare con il bene dello stato o del popolo, ma serve ad accrescere proporzionalmente la partecipazione dei singoli partiti alla spartizione del bene pubblico. Così facendo, il potere diventa una sorta di astrazione che se da un lato non favorisce certo il benessere del popolo, dall’altro non lo danneggia più di tanto. È uno straordinario esempio di democrazia che mi fa ben sperare nel futuro che non vedrò. I rieducandi di Wilton Park sarebbero dovuti venire a scuola qui. Quanto a me, non ho più bisogno di sognare utopie. Comunque non serve a molto che io mi attacchi al giornale come a un’ancora per non andare alla deriva nell’apatia della vecchiaia. Non posso più farmi carico del destino del mondo, è troppo il peso del passato che mi trascino dietro, per quanti sforzi faccia di liberarmene. Invece non mi libero della mia ironia, al contrario. L’invecchiamento è un processo pieno di seduzioni, la benedetta distanza dagli eventi, che vado conquistando, comprende anche me stesso. Con lo stesso ghigno sarcastico con cui accolgo i fatti del giorno in tutta la loro grottesca contraddittorietà, guardo anche al progressivo calo del mio interesse per queste cose. Non diventerò mai un buon lettore di giornali. Come potrei non meravigliarmi del fatto che l’Unione europea, pur essendo nient’altro che una costruzione burocratica, diventi una realtà, quando vedo sempre più chiaramente come le nazioni, una dopo l’altra, si spacchino nelle loro diverse componenti etniche, ciascuna delle quali reclama a gran voce la propria autonomia? Bossi proclama la Padania libera, la Serenissima vuole che Venezia si autoamministri, i gallesi si sciolgono dall’Inghilterra dopo che gli scozzesi lo hanno fatto già da tempo. Intanto Waigel mette a repentaglio l’economia tedesca pur di introdurre la moneta unica. Mon cul. Non dovrei scuotere il capo desolato vedendo la nazione americana che davanti al suo presidente intento, come un borghesuccio qualsiasi, a fare affari con le lobbies, compresa quella cinese, non batte ciglio, ma poi freme di sdegno se quello stesso presidente tocca il culo a una segretaria? No, l’unica cosa da prendere sul serio è la sezione del Pitaval intitolata Morte e distruzione, che interessa un numero sempre crescente di giovani. Evviva i giovani! Le piccole tragedie quotidiane: giovane disoccupato uccide per disperazione moglie e figli. Quanto è più reale questo rispetto all’angosciosa domanda se un tribunale riuscirà mai a dimostrare ciò che da cinquant’anni chiunque ritiene di sapere sul conto di Andreotti!
La distanza tra me e il presente diventa ogni giorno più grande: davanti a un computer sono come l’asino in mezzo ai suoni. Il compagno Kasparov è stato battuto agli scacchi da una macchina, una macchina che in un secondo è in grado di elaborare non so quanti calcoli. Evviva! Sarà più facile calcolare la potenza esplosiva della bomba al cobalto, o la possibilità di clonare soldati (come il mio amatissimo «fratello tedesco» con la coccarda nera, bianca e rossa sul chepì), o cose del genere. Quello che, personalmente, potrebbe riguardarmi un po’ di più è il tramonto della civiltà orientale nel gorgo del progresso occidentale. Mi dispiace. Lo so: al cospetto della televisione la giovane lepre di Dürer si allontana a balzelloni, rassegnata. Non piangerò per lei, di cultura mi sono occupato fin troppo. J’en ai soupé.
Con Beatrice questa mia moderna barbarie devo nasconderla: lei appartiene alla schiera abbastanza nutrita di quelli che mi agitano sotto il naso l’insegna dell’arte, e dunque, discorsi di questo genere è bene che io li eviti. L’importante è che io sia avveduto e obbediente sotto altri riguardi: per esempio, scorpacciate di India. È naturale che, in qualità di contemporaneo, abbia dato anch’io il mio contributo al turismo mondiale. Bruce Chatwin era nostro amico; non abbiamo mai fatto un viaggio con lui, ma in compenso abbiamo introiettato scrupolosamente le avventure di viaggio di tutti i suoi illustri predecessori, da Richard Burton a Robert Byron. Ne sono venuti fuori giri turistici dall’Etiopia all’Alaska, dal Giappone al Kashmir, prima che anche laggiù cominciassero a sparare. Il mondo era più romantico senza le piramidi di teschi della Cambogia e le sparatorie dell’Afghanistan e con minore traffico di autobus a Katmandu. Più variopinto e più folkloristico. Ormai non è più quasi da nessuna parte quello che era stato prima di me. Le mandrie di zebre della pianura del Serengeti erano state cento volte più numerose, il cielo di Kyoto non era stato livido di smog. Per questo è diverso il senso di colpa collettivo che porto in me.
Non amo la mia razza, la razza bianca che più di tutte ha colpa se il nostro tempo è diventato un non tempo. Dappertutto progresso, e la giovane lepre di Dürer ne è morta soffocata. Eppure, l’odio mi ha abbandonato. Vedo i miei poveri contemporanei più giovani piegati sotto una grandine di informazioni che ha il solo scopo di ricordare loro che la fine è vicina. Meritata, immeritata, provocata... Che vuol dire? Noi veniamo vissuti. Il Dio degli eserciti saprà quello che fa. Quanto a me, sono un Epochenverschlepper, pratico il «differimento epocale» e mi accontento di una piccola vita biedermeier. Amo questa casa in Toscana, amo la mia Beatrice. Insieme guardiamo pieni di fiducia e di speranza al futuro, e al mio prossimo libro: finalmente una vera biografia.

 LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

Ortigia (Siracusa)
la casa natale di Elio Vittorini






Concorezzo (MB)
La tomba di Elio Vittorini e di Ginetta Varisco