venerdì 26 agosto 2016

Milano: il Palazzo Carmagnola, già di Cecilia Gallerani



Dopo la corte in stile bramantesco dell’ex palazzo Dal Verme ho pensato fosse cosa buona e giusta rivedere il palazzo Carmagnola, quello che oggi ospita il Piccolo Teatro, a due passi dal Broletto. Anche qui a farmi da guida è il testo estrapolato dal volume firmato da Mezzanotte e Giacomo C. Bascapè: Milano nell’arte e nella storia, a cura di Gianni Mezzanotte. Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma 1968, aperto alle pp. 145-147.

Il palazzo Carmagnola, poi Broletto

Una modesta facciata ottocentesca sostituisce la rustica fronte del palazzo, che il duca Filippo Maria Visconti donò nel 1415 al conte di Carmagnola: il quale lo abbellì o forse lo rifabbricò (ma non è certo) fra il 1420 e il 1425. Dell’edificio del Carmagnola rimanevano ai tempi del Torre alcuni «finestroni alla gottica»; nulla o quasi oggidì, salvo una targa araldica quadrilobata recante la biscia viscontea e le iniziali, in lettere gotiche, CO FR, cioè «Comes Franciscus»; descritta da Diego Sant’Ambrogio, la targa è infissa nel portico di ponente del palazzo.
Quando il Carmagnola passò al servizio di Venezia (1423), il palazzo fu confiscato, poi reso allo stesso Carmagnola (1428). Nella divisione ereditaria passò alle figlie Antonia, moglie del conte Francesco Castiglioni, e Luchina, moglie di Luigi Dal Verme. Questa riscattò la parte della sorella e divenne unica proprietaria. Caduti in disgrazia i Dal Verme e dichiarati ribelli (1485), il palazzo nuovamente confiscate passò alla Camera ducale, e subì diversi trapassi, finché nel 1494 Ludovico il Moro ne rivendicava la proprietà, per farne poi dono alla sua favorita Cecilia Gallerani, che sembra vi albergasse anche il marito, il conte Ludovico Bergamini.
La casa fu rifatta a nuovo nelle delicate forme del primo rinascimento con l’assistenza dell’architetto Giovanni di Busto, mentre al proprietario spodestato, tale Antonio Saronno, fu dato in compenso un reddito sul dazio della macina.
L’edificio conobbe allora tempi di splendore: feste, trattenimenti intellettuali, concerti, richiamavano il ceto eletto della città nelle sale dove splendeva la grazia, il brio, la bellezza di Cecilia. Ivi fu probabilmente ospite anche Leonardo (C. Amoretti, Memorie storiche di Lionardo da Vinci, 1804, p. 39). Vi ebbe stanza lo storico Giorgio Merula dal 1491 fino al sopraggiungere degli eserciti di Francia. Ludovico XII diede altra destinazione all’edificio, che per concorde testimonianza dei contemporanei doveva essere fra i più ricchi della città.
Nel 1505 apparteneva a Francesco Beolco, maestro delle entrate regie e ducali, che ne trattò la cessione, per 25.000 lire imperiali, al governatore Carlo d’Amboise; se non che sorgevano da parte dei confinanti numerose contestazioni per pretese o reali usurpazioni d’aree da parte del Moro; contestazioni appianate nel 1507, sicché nel 1509 il palazzo dal Beolco poteva essere ceduto al senatore Sebastiano Ferreri, il quale a sua volta lo cedette al Comune di Milano. La proprietà del Comune fu poi contestata più volte: innanzi tutto i Dal Verme, nel 1540, mossero lite alla Città, adducendo che il palazzo fosse stato indebitamente confiscato al loro antenato; la lite durò fino al 1633 (A. Cavagna-Sangiuliani, Il Broletto e i Dal Verme, Milano, 1870).
Frattanto, nel 1618, il Magistrato Ordinario moveva un’altra lite, dichiarando l’edificio spettante alla R. Camera come parte delle regalie ducali. Ma nel 1637 il Senato pronunciò sentenza favorevole al Comune.
Nel 1605 ai piani superiori furono costruiti vasti granai per la scorta del grano da smaltire in tempi di carestia. Nei cortili si teneva il mercato dei grani, delle farine e delle vettovaglie.
L’anno 1714 fu trasportato in questo palazzo il Banco di S. Ambrogio e furono adattati all’uopo diversi locali; in una sala G. B. Parodi dipinse il Santo protettore.
Finalmente nel 1770 il conte Giorgio Giulini, lo storico di Milano, che abitava il palazzo sulla via omonima (demolito nella seconda metà dell’Ottocento) provvide ad un radicale restauro e vi fece sistemare l’archivio civico. Fu l’inizio della rinascita dello storico edificio. Poco dopo, nel 1786, il Comune abbandonava il vetusto Broletto di piazza Mercanti e si trasferiva in questa sede, ove risiedette per quasi un secolo.
Ai tempi della Cisalpina e del Regno Italico il Broletto fu rimaneggiato e sistemato; nel 1848 qui fu costituita la Guardia Civica e si formò uno dei centri del movimento di liberazione della città.
Ma nel 1861 l’edificio fu ceduto in cambio del palazzo Marino, dove il Comune trasferì la sua sede. Divenuto sede dell’Intendenza di Finanza, il Broletto fu in parte rifabbricato fra il 1890 e il 1892, quando fu allargata la via del Broletto. Il cortile maggiore, nonostante le proteste di qualche solitario, fu mutilato e il corpo di fabbrica verso questa via fu ricostruito più addentro. Nuovi rimaneggiamenti e nuove mutilazioni subì il palazzo nelle opere di riforma condotte fra il 1938 e il 1939.
L’organismo sforzesco, parzialmente scomposto, appare integro in un disegno del tardo Cinquecento nel tomo I della raccolta Bianconi: è un vasto edificio raccolto intorno a due cortili, il minore, volto verso la via Rovello, è quello ancora conservato, di pianta quadrata, girato da portico di sei arcate su ciascun lato. Il maggiore, provvisto su tre lati di portici, ciascuno di 8 arcate, uscì mutilato e irriconoscibile dalla riforma del 1891.
I portici andarono sommersi nelle murature della ricostruzione. Nel disegno della Bianconi è ancor visibile una scala esterna che portava al piano superiore ed un pozzo in angolo al cortile, con una vera di pianta quadrata. Rimangono del primo cortile, a testimonianza del senso d’arte di Ludovico il Moro, le svelte colonne di perfetta misura e i mirabili capitelli marmorei di squisita esecuzione che strapparono accenti di ammirazione incondizionata al Mongeri, non alieno dallo scorgervi l’influsso del Bramante. «Noi vi vediamo, ci sia lecita cotesta illusione, una creazione sua (del Moro) di predilezione, uno di quei lavori in cui mise più che altrove a contributo l’alta virtù del maestro d’Urbino e dove tutta la pleiade luminosa degli artisti che in quel momento illustravano l’arte dello scalpello, i Mantegazza, i Cazzaniga, i Busti, i Solari, i Caradosso, il Dolcebono, il Fusina, il Briosco, e soprattutto l’Omodeo, si erano dato convegno per gareggiare d’operosità e di fantasia...». Ricordava il Beltrami che in epoca non remota un ingegnere dell’Intendenza, preposto alla conservazione dell’edificio, proponeva, per «purgare» i capitelli della patina del tempo, una opportuna ripassatura alla martellinatura (il principale nemico dei monumenti non è l’erosione del tempo, ma l’ignoranza dell’uomo).
La targa araldica attesta che il Carmagnola si valeva di un privilegio, dai Signori di Milano concesso a poche famiglie fedeli, di fregiare il proprio stemma della biscia Viscontea. (L’insegna araldica gentilizia dei Bussone da Carmagnola era la banda coi tre caprioli).

Gli architetti Mezzanotte e Bascapè citano due autori: l’abate Amoretti e Antonio Cavagna-Sangiuliani. Quel che scrive il primo - tutto da prendere con le pinzette - è già da tempo in rete. Il Cavagna-Sangiuliani è invece una novità, e siccome nella mia rifornita biblioteca di casa non manca una copia del suo Studi storici, edito dalla Tipografia Letteraria di Milano nel 1870, non mi resta che aprire il volume e riportare quel che leggo alle pp. 119-129.

IL PALAZZO DEL BROLETTO IN MILANO
E I CONTI DAL VERME
Lettera diretta al D.r G. Fortis, direttore del Pungolo.

Chiarissimo Signor Direttore,
Avendo letto nella Cronaca cittadina del N. 71, 1869, del suo pregiato giornale, l’annunzio della collocazione d’iscrizioni che rammentano alcune obliate nostre glorie, rinvenni una inesattezza storica riguardo al conte di Carmagnola e al palazzo del Broletto.
Mi faccio quindi un dovere di sottoporle poche osservazioni e alcuni schiarimenti, appoggiati a documenti autentici.
Là, dopo aver discorso delle altre iscrizioni commemorative, parlando di quella che deve essere collocata su duplice marmo all’ingresso del Broletto in via Giulini, e verso la corsia intitolata dal nome stesso di Broletto, e dopo accennato come il palazzo avesse appartenuto a Francesco Bussone, conte di Carmagnola, celebre capitano di ventura, e avesse a lui servito d’abitazione dal 1413 al 1425; forse con la scorta di Andrea Biglia e del rapporto della Commissione incaricata dal nostro Municipio di proporre le iscrizioni commemorative di fatti e d’uomini illustri di Milano, è detto che, «tutti i beni del Carmagnola, furono confiscati, allorché egli passò al servizio della Republica Veneta», e dopo «il palazzo, confiscato pure al Carmagnola, fu donato alla città di Milano...», il che dai documenti ci è pienamente contrastato, e in quella vece dimostrato che il palazzo del Broletto passò alle due figlie del Carmagnola, Antonia e Luchina, indi in proprietà ereditaria alla famiglia Dal Verme, e solo alla fine del XVI secolo pervenne al Comune di Milano; ed ecco in qual modo:
Il conte Francesco Bussone di Carmagnola s’avea per moglie Antonietta Visconti, parente del duca di Milano Filippo Maria; e lasciava quattro figlie, cioè: Margherita maritata a Bernabò Sanseverino; Elisabetta condotta in moglie da Francesco Visconti, consigliere ducale; Luchina sposata al conte Luigi Dal Verme, e Antonia moglie del magnifico dottor in legge Garnerio de Castiliono.
Carmagnola fece il suo testamento alli 8 settembre 1429, per rogito di Martino de Gavastis de Claris, notaio publico, e per esso il palazzo suo, esattamente indicato con particolare descrizione e colla precisa indicazione delle coerenze, che lo addimostra identificato nell’attuale palazzo chiamato Broletto, toccò in eredità alle figlie sue Luchina Dal Verme e Antonia de Castiliono; il palazzo era stimato 19,000 fiorini, e la somma divisa rispettivamente fra loro in giusta metà, e così egli trasmetteva questo ente, non confiscato, alle due figlie, come loro quota ereditaria.
È pur vero che il conte Luigi Dal Verme, genero del Carmagnola, cadesse in disgrazia della Veneta republica, ciò che si ha dall’atto con cui il doge Foscari confisca al suddetto il feudo di Sanguinetto dandolo a Gentile Leonessa; ma per contrario il duca di Milano investiva con privilegio del 23 maggio 1436 il conte Luigi Dal Verme dei feudi di Bobbio, Voghera e Castel S. Giovanni, e poi nel 1451 Francesco Sforza, fattosi signore di Milano, riconfermava a Luchino Dal Verme e alla sua famiglia tutti i beni del defunto genitore; e più ancora: nell’anno 1464, con atto conchiuso il 19 di marzo, la proprietà del palazzo del Broletto venne riunita nelle mani della contessa Luchina Dal Verme, mediante il pagamento alla sorella Antonia Castiglioni di 9,500 fiorini, rispettiva metà di valore dell’intiero palazzo.
Con quest’ atto si viene a conoscere che la contessa Luchina era obbligata a pagare la detta somma nel corso di otto anni o in denaro o in beni immobili o in livelli , alla sorella sua Antonia; che si era scelto arbitro fra esse un Giovanni Corio, e che concorsero la madre Antonietta Carmagnola Visconti, le altre sorelle e un Matteo Carmagnola, altro delli eredi o legatari del celebre condottiero, e rimane confermato che il palazzo del Broletto continuò ad appartenere agli eredi del Carmagnola.
In seguito per successione ereditaria passò nella assoluta proprietà del figlio di Luigi e Luchina Dal Verme, il conte Pietro, che moriva avvelenato in Voghera nel 1485. Lui vivente, si ha documento che negli anni 1476, 77, 78, 79, col mezzo del suo cancelliere Beltramino de Castelletis, riceveva da Battista e Luigi Castiglioni il fitto livellano annuo della casa quæ vocatur magnifici Comitis Carmagnolæ, vel Broleti.
Alla morte del conte Pietro Dal Verme, Ludovico il Moro ne confiscava i beni e faceva dono del palazzo a Cecilia Gallarani sua amante, moglie a Ludovico Bergamini; in seguito passò a Giorgio Merula; poi nelle mani di Carlo d’Amboise de Chaumont, maresciallo di Francia e supremo capo delle truppe di S. M. Cristianissima in Italia; indi a Francesco Bebuleno; dipoi a Sebastiano de Ferrari, che lo vendette al magnifico Battista Visconti , e lo riebbe da questo, per cederlo poscia con suo arbitrio al comune di Milano. Senonchè il conte Federico e il fratello suo conte Marcantonio Dal Verme ne rivendicarono la proprietà; e nel 1513, quando vennero cacciati d’Italia i Francesi, la famiglia Dal Verme poté ritornare nel libero possesso dei suoi vasti feudi e delle proprietà sparse nel ducato e sui primi colli dell’Appennino a Voghera, Bobbio e Castel S. Giovanni, e riebbero eziandio il palazzo del Broletto, e a tale effetto v’ha appunto un atto autentico esistente nell’Archivio dei conti Dal Verme e da me esaminato, con il quale vien fatta la debita presa di possesso del nominato palazzo al 28 novembre dell’anno 1513 per parte del conte Marcantonio Dal Verme, a nome anche del fratello Federico.
Nel volgere degli anni successivi fino allo scorcio del XVI secolo la famiglia Dal Verme patì varie confische, interpolatamente ritornando nel possesso del palazzo; finché questo passò al Governo spagnolo, e da Filippo III nell’anno 1605 venne donato alla città di Milano, che vi collocò il mercato dei grani, e dopo altre vicissitudini li uffizii municipali sino al 1861.
La cappella fatta erigere dal Carmagnola nella chiesa di S. Francesco, ove veniva deposto colla moglie, rimase invece in patronato della famiglia Dal Verme fino alla demolizione di quella chiesa, avvenuta nel 1813, e l’iscrizione in onore del celebrato guerriero veniva riposta nel cortile della Biblioteca Ambrosiana.
Riepilogando: col testamento di Francesco Carmagnola (1429), con la sua designazione alle figlie Antonia e Luchina del palazzo come quota ereditaria; coi privilegi concessi da Francesco Sforza, nell’anno 1451, a Luchina Dal Verme; con la convenzione stipulata alli 19 marzo del 1464, per la quale Luchina rilevava la parte del palazzo pervenuta in eredità alla sorella Antonia; con le confessioni di fitti livellarii del detto palazzo del conte Pietro Dal Verme fino al 1479; e finalmente con la presa di possesso del palazzo nel 1513 dai conti Marcantonio e Federico Dal Verme, noi abbiamo i più sicuri documenti che affermano la conservazione della proprietà del Broletto nelli eredi del Carmagnola, e indi nella famiglia Dal Verme in successione di quelli, fino alli ultimi anni del XVI secolo, e con ciò viene contradetta l’asserzione che il Broletto fosse stato confiscato nel 1425, quando il Carmagnola passava al servizio della Veneta republica.
Perdonerà, chiarissimo signore, se l’argomento mi condusse tanto per le lunghe, ma l’importanza storica delle cose in questione, l’interesse che prendo a questo genere di studi, e il desiderio di veder corretto un errore, saranno cause che mi varranno, spero, la sua indulgenza; e con ciò la prego a volermi credere
con la massima stima
Suo dev. servitore
A. Cavagna Sangiuliani
Milano, marzo 1869.


E anche qui del Bramante non trovo che esili tracce… stilistiche, ma tant’è: a Milano c’è ancora chi scrive che i Navigli e le conche siano un’invenzione di Leopardo da Vinci, quindi… balle per balle per tre e quattordici e il Circo resta sempre aperto: venghino signori venghino, che più gente entra e più bestie si vedono….

LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI


































martedì 23 agosto 2016

Milano segreta: Palazzo Dal Verme


Per gli amanti “del bello” Milano riserva sempre gradite sorprese.
Passo per la millesima volta da via Puccini, la via che mette in comunicazione San Giovanni sul Muro con la stazione Cadorna, ed ecco che un giorno quasi mi scontro con due ragazzi che escono da un portone di vetro. L’occhio “cade” all’interno e che vedo? Una serie di colonne, un soffitto decorato, una vera da pozzo… e subito il mio cervello (oddio, quel che rimane) m’invia un messaggio: guarda che questo è un cortile quattrocentesco. Blocco i due giovani e chiedo lumi. Uno non sa niente, l’altro pure, però sa “che è opera del Bramante, che qui fece le prove per Le Grazie”. “Fece le prove per Santa Maria delle Grazie?” dico io. “Sì” mi risponde lui, con indiscutibile sicurezza. Vabbè… La vetrata si è chiusa, noi ci salutiamo.
Ieri, 22 agosto, volutamente ripasso da via Puccini. La porta a vetri, ovviamente chiusa, mostra l’interno e per riflesso anche il cielo azzurro e le mura alle mie spalle. Scatto due fotogrammi e subito mi sposto per far spazio ad una signora munita di chiavi che vorrebbe entrare. Flash: stessa scena capitatami all’androne del 27 di rue de Fleurus a Parigi, il “cortile degli Stein”.
Con gentilezza chiedo alla signora se mi può raccontare qualcosa di quel cortile (oramai davanti ai miei occhi, essendo la porta aperta). Lei, con malcelato orgoglio mi risponde: “è opera del Bramante”. Chiedo se posso entrare e godere di quella bellezza. “Chiuda bene la porta quando esce” è il suo tacito assenso.
Ringrazio… ed eccomi nel quadrato inatteso. Il sole è forte, il contrasto tra luci ed ombre generoso. Mi prendo tutto il tempo, girando in senso orario e strabuzzando gli occhi per cercare i dettagli. Esco felice: questa giornata non è andata sprecata.
A casa mi tuffo nelle ricerche. Apro il pesante volume Milano nell’arte e nella storia di Paolo Mezzanotte, Giacomo C. Bascapè - a cura di Gianni Mezzanotte, Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma, 1968, e alle pp. 380-382 leggo:

Palazzo Dal Verme
Eretto sulla fine del XV secolo appartenne alla celebre famiglia Dal Verme, che ebbe notevole parte nella storia della vita milanese nelle età viscontea e sforzesca. Fu forse costruita da Federico, che nelle guerre tra la Francia e gli Sforza fu a questi fedele. La facciata non aveva interesse: tre piani e tredici aperture, a intonaco colorato simulante un paramento di mattoni a vista.
Per un portale arcuato, attraverso un androne con lunette di volta, poggianti su capitelli pensili arieggianti l’ordine corinzio, si scendeva nel cortile, il cui piano è lievemente più basso del suolo stradale. Il cortile è quadrato, con portico di quattro arcate per lato; appartiene al miglior gusto rinascimentale ed è l’unico residuo antico scampato alla recentissima ricostruzione dell’edificio. Le colonne sono a fusto di serizzo, con basi dello stesso materiale, con foglie di protezione fra il plinto e il toro. I capitelli di pietra di Angera di forma corinzia, hanno targhe a testa di cavallo, che furono spogliate a colpi di scalpelli dei segni araldici durante la Cisalpina. Le ghiere d’arco sono di cotto; nei pennacchi tondi di marmo incorniciati di cotto, recanti i profili in bassorilievo di personaggi sforzeschi, alternati con targhe araldiche; su alcune di queste è la figura del cane col laccio al collo, altra delle imprese assunte dai Dal Verme. L’archivolto è di cotto a tre fasce; nel sommo serraglie di terracotta di uniforme disegno a foglie d’acanto.
Sopra il portico, cornicione, sempre di laterizio, con fascia finemente modellata di delfini affacciati tra baccelli ornamentali; altra fascia superiore dipinta e modanatura a dentelli.
Alle colonne del portico fanno riscontro sulle pareti di fondo altrettanti capitelli pensili, simili nelle forme a quelli delle arcate: in parte autentici, in parte rinnovati nel restauro. Gli interspazi fra le arcate, i tondi a bassorilievo e la cornice, il fregio della cornice stessa, gli intradossi degli archi e le volte del portico, hanno una vivace decorazione pittorica eseguita di recente sulle tracce della originale, venuta in luce.
Sugli intradossi degli archi sono rosoni in riquadri azzurro-cupo; nelle volte finte finestre circolari aperte sul cielo, corone, rosoni, nastri svolazzanti. Sulle pareti di fondo del portico graffiti con prospettive architettoniche di invenzione e di fattura moderna.
Di faccia all’ingresso, nel sottoportico, era murata una lapide di marmo di Candoglia ricordante i restauri del 1914, a cura di Jeannette Dal Verme. Esternamente, a destra dell’ingresso un’altra lapide ricorda che nella casa visse e morì il generale Dezza.

Nessun riferimento al Bramante, però una nota a margine rinvia al secondo tomo di un’opera scritta da Carlo Fumagalli, Diego Sant’Ambrogio e Luca Beltrami: Reminescenze di Storia e d’Arte nella Città di Milano, Milano 1892. Visto che l’ho in casa, lo apro, cerco e leggo:

Il cortile con terrecotte decorative di
Casa Dal Verme in via Foro Bonaparte
Fra i cortili in terracotta nello stile delle civili abitazioni sul finire del XV secolo e sul principio del XVI, vanno menzionati in Milano quello della casa Dal Verme e l’altro in via Passerella di una casa già Litta. Il primo, di cui diamo l’imagine a Tav. XXIII appare certamente di data più antica.
I capitelli sono di puro stile del rinascimento lombardo, con targhe a testa di cavallo fra le volute laterali, i cui scudi vennero guasti e pichiettati sul finire dello scorso secolo. Di disegno uniforme anziché svariato, come nel portico della Canonica di Sant’Ambrogio del Bramante ed in altri edificii, sono invece le protiridi o serraglie degli archi, ma nei pennacchi delle volte appaiono ancora rosoni di terracotta con inclusivi ritratti in bassorilievo di personaggi della famiglia Sforza, duchi di Milano.
Le targhe araldiche che decorano alcuni di quei medaglioni mettono in mostra il cane col laccio al collo e le fascie alternantesi della famiglia Dal Verme, che si rese illustre nelle armi e sotto i Visconti e sotto il dominio sforzesco.
Di vago effetto è il cornicione pure di terracotta con fascia di delfini affrontati fra baccelli ornamentali, e al disopra della fascia decorato di ovoli e listelli.


E il Bramante? Niente. Mi turo il naso e mi metto a cercare su internet:

Per grandi intenditori della città, una vera e propria chicca.
Sconosciutissimo, appartato e forse anche un po’ spaesato ormai. Palazzo Dal Verme è una di quelle tracce lasciate dallo splendore rinascimentale della corte sforzesca, di quei modelli bramanteschi che in una città come Milano non ci si aspetterebbe di trovare. L’abbiamo detto molte volte però, Milano è una città da scoprire, da esplorare e gustare un poco alla volta. Stretto nella morsa della modernità, in mezzo a due palazzoni che non meritano rispetto, rivela la sua identità conservando le sue proporzioni. Due soli piani, piano terra, e piano nobile. Il portone ligneo originale si apre sul quattrocento milanese. Qui costruisce Luigi Dal Verme nella prima metà del ’400 lasciando ai figli il compito di completare l’opera. La famiglia Dal Verme è tra le più importanti del panorama milanese, in stretto rapporto con il Carmagnola con cui legano parentela sposandone la figlia. Capitano di ventura sotto Filippo Maria Visconti e poi al servizio di Francesco Sforza. Dei fasti originali oggi possiamo ammirare solo il portico quadrato che cingeva il cortile principale. Le volte decorate ancora con gli affreschi originali, i profili elegantissimi in cotto tipici del rinascimento lombardo sottolineano i tondi, ancora presenti, con i ritratti d’epoca sforzesca. Qui abitavano i Dal Verme ancora nella seconda metà dell’800 quando proprio di fronte al palazzo si accampava il Politeama Ciniselli, una sorta di teatro di strada, con spettacoli di vario genere ospitante anche compagnie itineranti. Insomma, una zona un tantino caotica e poco rassicurante. Francesco Dal Verme risolve la questione comprando il terreno cacciando così i girovaghi. Vista però la vocazione teatrale del terreno stesso, decide di costruirci un teatro vero e proprio: spettacoli si, ma almeno di un certo spessore. È la nascita del Teatro Dal Verme, proprio di fronte al palazzo rinascimentale dei suoi finanziatori a cui è dedicata qui la nostra attenzione, uno scrigno di cui si è avuto poco rispetto purtroppo. Sano fino al maledetto 1943, viene colpito in pieno. Si salva solo il portico. La facciata viene ricostruita in forme ottocentesche, mentre tutt’intorno si consuma la speculazione. Questo tesoro viene inserito in una lottizzazione senza criterio, alzando palazzine a ridosso dei colonnati e relegando questa perla a banale cortile di passaggio, strozzato, sminuito. Il confronto con il passato fa troppa paura?

Il Palazzo Dal Verme fu la dimora nobiliare di una delle famiglie più potenti della corte viscontea e sforzesca del XV secolo. Resta oggi il cortile, fra le maggiori testimonianze di edilizia civile di epoca rinascimentale a Milano.
Il palazzo fu edificato da Luigi Dal Verme (1390-1449), conte di Sanguinetto, alla metà del XV secolo. Il Dal Verme iniziò la sua carriera di condottiero al servizio del Conte di Carmagnola, di cui sposò la figlia, Luchina Bussone. Fu poi capitano di ventura sotto le insegne di Filippo Maria Visconti, dal quale ottenne i feudi di Bobbio e Voghera, e in seguito alla morte di questi combatté al fianco di Francesco Sforza. La costruzione fu poi proseguita dal figlio Pietro e dal nipote Federico.
Il complesso, giunto in buone condizioni fino al XX secolo, fu duramente colpito dalle bombe del 1943, che ne distrussero la facciata. Sopravvive oggi la corte, inserita all’interno di un moderno complesso condominiale del dopoguerra.
Si accede alla corte da un androne, che presenta la decorazione rinascimentale originaria, costituita da affreschi che ricoprono le volte a crociera, sorrette da peducci scolpiti. Il cortile regolare è aperto da portici sui quattro lati di quattro arcate ciascuno. Reggono le arcate colonne in pietra sormontate da capitelli compositi a foglie d’acanto, che ospitano targhe a testa di cavallo con stemmi non più leggibili. Sopra gli archi corre una decorazione di cornicioni e cordonature in cotto, restaurate in base alle parti superstiti. Fra i pennacchi degli archi, una serie di tondi in pietra alterna stemmi nobiliari a profili di personaggi della corte sforzesca. Al centro, vera da pozzo scolpita, risalente al XV secolo.

Guardo altri siti, istituzionali: del Bramante non v’è traccia.
Un dubbio mi assale. Riapro il librone di Mezzanotte e Bascapè e a p. 147 leggo: Rimangono nel primo cortile, a testimonianza del senso d’arte di Ludovico il Moro, le svelte colonne di perfetta misura e i mirabili capitelli marmorei di squisita esecuzione che strapparono accenti ammirazione incondizionata al Mongeri, non alieno dallo scorgervi l’influsso del Bramante. Bene… se non fossi alle pagine dedicate ad un secondo palazzo appartenuto ai conti Dal Verme, quello noto come Palazzo Carmagnola (già Broletto Nuovissimo dal 1515 al 1861), nel Sestiere di Porta Comasina, oggi via Rovello 2. Adesso mi è chiara la totale dimenticanza di un cortile “del Bramante” da parte dei succitati architetti, grandi conoscitori della storia artistica milanese. Come uso dire: mai credere a niente di quel che ti dicono e credi sempre a metà di quel che vedi… (e nel frattempo apro L’arte in Milano del Mongeri, giusto per vedere quel che scrive).

LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI