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martedì 23 agosto 2016

Milano segreta: Palazzo Dal Verme


Per gli amanti “del bello” Milano riserva sempre gradite sorprese.
Passo per la millesima volta da via Puccini, la via che mette in comunicazione San Giovanni sul Muro con la stazione Cadorna, ed ecco che un giorno quasi mi scontro con due ragazzi che escono da un portone di vetro. L’occhio “cade” all’interno e che vedo? Una serie di colonne, un soffitto decorato, una vera da pozzo… e subito il mio cervello (oddio, quel che rimane) m’invia un messaggio: guarda che questo è un cortile quattrocentesco. Blocco i due giovani e chiedo lumi. Uno non sa niente, l’altro pure, però sa “che è opera del Bramante, che qui fece le prove per Le Grazie”. “Fece le prove per Santa Maria delle Grazie?” dico io. “Sì” mi risponde lui, con indiscutibile sicurezza. Vabbè… La vetrata si è chiusa, noi ci salutiamo.
Ieri, 22 agosto, volutamente ripasso da via Puccini. La porta a vetri, ovviamente chiusa, mostra l’interno e per riflesso anche il cielo azzurro e le mura alle mie spalle. Scatto due fotogrammi e subito mi sposto per far spazio ad una signora munita di chiavi che vorrebbe entrare. Flash: stessa scena capitatami all’androne del 27 di rue de Fleurus a Parigi, il “cortile degli Stein”.
Con gentilezza chiedo alla signora se mi può raccontare qualcosa di quel cortile (oramai davanti ai miei occhi, essendo la porta aperta). Lei, con malcelato orgoglio mi risponde: “è opera del Bramante”. Chiedo se posso entrare e godere di quella bellezza. “Chiuda bene la porta quando esce” è il suo tacito assenso.
Ringrazio… ed eccomi nel quadrato inatteso. Il sole è forte, il contrasto tra luci ed ombre generoso. Mi prendo tutto il tempo, girando in senso orario e strabuzzando gli occhi per cercare i dettagli. Esco felice: questa giornata non è andata sprecata.
A casa mi tuffo nelle ricerche. Apro il pesante volume Milano nell’arte e nella storia di Paolo Mezzanotte, Giacomo C. Bascapè - a cura di Gianni Mezzanotte, Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma, 1968, e alle pp. 380-382 leggo:

Palazzo Dal Verme
Eretto sulla fine del XV secolo appartenne alla celebre famiglia Dal Verme, che ebbe notevole parte nella storia della vita milanese nelle età viscontea e sforzesca. Fu forse costruita da Federico, che nelle guerre tra la Francia e gli Sforza fu a questi fedele. La facciata non aveva interesse: tre piani e tredici aperture, a intonaco colorato simulante un paramento di mattoni a vista.
Per un portale arcuato, attraverso un androne con lunette di volta, poggianti su capitelli pensili arieggianti l’ordine corinzio, si scendeva nel cortile, il cui piano è lievemente più basso del suolo stradale. Il cortile è quadrato, con portico di quattro arcate per lato; appartiene al miglior gusto rinascimentale ed è l’unico residuo antico scampato alla recentissima ricostruzione dell’edificio. Le colonne sono a fusto di serizzo, con basi dello stesso materiale, con foglie di protezione fra il plinto e il toro. I capitelli di pietra di Angera di forma corinzia, hanno targhe a testa di cavallo, che furono spogliate a colpi di scalpelli dei segni araldici durante la Cisalpina. Le ghiere d’arco sono di cotto; nei pennacchi tondi di marmo incorniciati di cotto, recanti i profili in bassorilievo di personaggi sforzeschi, alternati con targhe araldiche; su alcune di queste è la figura del cane col laccio al collo, altra delle imprese assunte dai Dal Verme. L’archivolto è di cotto a tre fasce; nel sommo serraglie di terracotta di uniforme disegno a foglie d’acanto.
Sopra il portico, cornicione, sempre di laterizio, con fascia finemente modellata di delfini affacciati tra baccelli ornamentali; altra fascia superiore dipinta e modanatura a dentelli.
Alle colonne del portico fanno riscontro sulle pareti di fondo altrettanti capitelli pensili, simili nelle forme a quelli delle arcate: in parte autentici, in parte rinnovati nel restauro. Gli interspazi fra le arcate, i tondi a bassorilievo e la cornice, il fregio della cornice stessa, gli intradossi degli archi e le volte del portico, hanno una vivace decorazione pittorica eseguita di recente sulle tracce della originale, venuta in luce.
Sugli intradossi degli archi sono rosoni in riquadri azzurro-cupo; nelle volte finte finestre circolari aperte sul cielo, corone, rosoni, nastri svolazzanti. Sulle pareti di fondo del portico graffiti con prospettive architettoniche di invenzione e di fattura moderna.
Di faccia all’ingresso, nel sottoportico, era murata una lapide di marmo di Candoglia ricordante i restauri del 1914, a cura di Jeannette Dal Verme. Esternamente, a destra dell’ingresso un’altra lapide ricorda che nella casa visse e morì il generale Dezza.

Nessun riferimento al Bramante, però una nota a margine rinvia al secondo tomo di un’opera scritta da Carlo Fumagalli, Diego Sant’Ambrogio e Luca Beltrami: Reminescenze di Storia e d’Arte nella Città di Milano, Milano 1892. Visto che l’ho in casa, lo apro, cerco e leggo:

Il cortile con terrecotte decorative di
Casa Dal Verme in via Foro Bonaparte
Fra i cortili in terracotta nello stile delle civili abitazioni sul finire del XV secolo e sul principio del XVI, vanno menzionati in Milano quello della casa Dal Verme e l’altro in via Passerella di una casa già Litta. Il primo, di cui diamo l’imagine a Tav. XXIII appare certamente di data più antica.
I capitelli sono di puro stile del rinascimento lombardo, con targhe a testa di cavallo fra le volute laterali, i cui scudi vennero guasti e pichiettati sul finire dello scorso secolo. Di disegno uniforme anziché svariato, come nel portico della Canonica di Sant’Ambrogio del Bramante ed in altri edificii, sono invece le protiridi o serraglie degli archi, ma nei pennacchi delle volte appaiono ancora rosoni di terracotta con inclusivi ritratti in bassorilievo di personaggi della famiglia Sforza, duchi di Milano.
Le targhe araldiche che decorano alcuni di quei medaglioni mettono in mostra il cane col laccio al collo e le fascie alternantesi della famiglia Dal Verme, che si rese illustre nelle armi e sotto i Visconti e sotto il dominio sforzesco.
Di vago effetto è il cornicione pure di terracotta con fascia di delfini affrontati fra baccelli ornamentali, e al disopra della fascia decorato di ovoli e listelli.


E il Bramante? Niente. Mi turo il naso e mi metto a cercare su internet:

Per grandi intenditori della città, una vera e propria chicca.
Sconosciutissimo, appartato e forse anche un po’ spaesato ormai. Palazzo Dal Verme è una di quelle tracce lasciate dallo splendore rinascimentale della corte sforzesca, di quei modelli bramanteschi che in una città come Milano non ci si aspetterebbe di trovare. L’abbiamo detto molte volte però, Milano è una città da scoprire, da esplorare e gustare un poco alla volta. Stretto nella morsa della modernità, in mezzo a due palazzoni che non meritano rispetto, rivela la sua identità conservando le sue proporzioni. Due soli piani, piano terra, e piano nobile. Il portone ligneo originale si apre sul quattrocento milanese. Qui costruisce Luigi Dal Verme nella prima metà del ’400 lasciando ai figli il compito di completare l’opera. La famiglia Dal Verme è tra le più importanti del panorama milanese, in stretto rapporto con il Carmagnola con cui legano parentela sposandone la figlia. Capitano di ventura sotto Filippo Maria Visconti e poi al servizio di Francesco Sforza. Dei fasti originali oggi possiamo ammirare solo il portico quadrato che cingeva il cortile principale. Le volte decorate ancora con gli affreschi originali, i profili elegantissimi in cotto tipici del rinascimento lombardo sottolineano i tondi, ancora presenti, con i ritratti d’epoca sforzesca. Qui abitavano i Dal Verme ancora nella seconda metà dell’800 quando proprio di fronte al palazzo si accampava il Politeama Ciniselli, una sorta di teatro di strada, con spettacoli di vario genere ospitante anche compagnie itineranti. Insomma, una zona un tantino caotica e poco rassicurante. Francesco Dal Verme risolve la questione comprando il terreno cacciando così i girovaghi. Vista però la vocazione teatrale del terreno stesso, decide di costruirci un teatro vero e proprio: spettacoli si, ma almeno di un certo spessore. È la nascita del Teatro Dal Verme, proprio di fronte al palazzo rinascimentale dei suoi finanziatori a cui è dedicata qui la nostra attenzione, uno scrigno di cui si è avuto poco rispetto purtroppo. Sano fino al maledetto 1943, viene colpito in pieno. Si salva solo il portico. La facciata viene ricostruita in forme ottocentesche, mentre tutt’intorno si consuma la speculazione. Questo tesoro viene inserito in una lottizzazione senza criterio, alzando palazzine a ridosso dei colonnati e relegando questa perla a banale cortile di passaggio, strozzato, sminuito. Il confronto con il passato fa troppa paura?

Il Palazzo Dal Verme fu la dimora nobiliare di una delle famiglie più potenti della corte viscontea e sforzesca del XV secolo. Resta oggi il cortile, fra le maggiori testimonianze di edilizia civile di epoca rinascimentale a Milano.
Il palazzo fu edificato da Luigi Dal Verme (1390-1449), conte di Sanguinetto, alla metà del XV secolo. Il Dal Verme iniziò la sua carriera di condottiero al servizio del Conte di Carmagnola, di cui sposò la figlia, Luchina Bussone. Fu poi capitano di ventura sotto le insegne di Filippo Maria Visconti, dal quale ottenne i feudi di Bobbio e Voghera, e in seguito alla morte di questi combatté al fianco di Francesco Sforza. La costruzione fu poi proseguita dal figlio Pietro e dal nipote Federico.
Il complesso, giunto in buone condizioni fino al XX secolo, fu duramente colpito dalle bombe del 1943, che ne distrussero la facciata. Sopravvive oggi la corte, inserita all’interno di un moderno complesso condominiale del dopoguerra.
Si accede alla corte da un androne, che presenta la decorazione rinascimentale originaria, costituita da affreschi che ricoprono le volte a crociera, sorrette da peducci scolpiti. Il cortile regolare è aperto da portici sui quattro lati di quattro arcate ciascuno. Reggono le arcate colonne in pietra sormontate da capitelli compositi a foglie d’acanto, che ospitano targhe a testa di cavallo con stemmi non più leggibili. Sopra gli archi corre una decorazione di cornicioni e cordonature in cotto, restaurate in base alle parti superstiti. Fra i pennacchi degli archi, una serie di tondi in pietra alterna stemmi nobiliari a profili di personaggi della corte sforzesca. Al centro, vera da pozzo scolpita, risalente al XV secolo.

Guardo altri siti, istituzionali: del Bramante non v’è traccia.
Un dubbio mi assale. Riapro il librone di Mezzanotte e Bascapè e a p. 147 leggo: Rimangono nel primo cortile, a testimonianza del senso d’arte di Ludovico il Moro, le svelte colonne di perfetta misura e i mirabili capitelli marmorei di squisita esecuzione che strapparono accenti ammirazione incondizionata al Mongeri, non alieno dallo scorgervi l’influsso del Bramante. Bene… se non fossi alle pagine dedicate ad un secondo palazzo appartenuto ai conti Dal Verme, quello noto come Palazzo Carmagnola (già Broletto Nuovissimo dal 1515 al 1861), nel Sestiere di Porta Comasina, oggi via Rovello 2. Adesso mi è chiara la totale dimenticanza di un cortile “del Bramante” da parte dei succitati architetti, grandi conoscitori della storia artistica milanese. Come uso dire: mai credere a niente di quel che ti dicono e credi sempre a metà di quel che vedi… (e nel frattempo apro L’arte in Milano del Mongeri, giusto per vedere quel che scrive).

LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI

























mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck


Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” - e supponendo sia ben nota a tutti  l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nellaltro riportano  a quell’indirizzo.
Uno è Montmartre & Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di Gertrude e Alice B Toklas poi.


 Un pomeriggio in rue de Fleurus

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.

Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.

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27, rue de Fleurus raccontato da Alice B. Toklas


Come di consueto, ogni anno passo almeno una settimana en flanand per le strade di Parigi, sulle tracce di pittori, scultori, scrittori, poeti e altra genìa sparsa, con un indirizzo d’obbligo: 27, rue de Fleurus.
Anche quest’anno la fortuna mi è stata amica: il mio arrivo a questo indirizzo è coinciso col sopraggiungere della stessa signora che un anno fa mi aveva autorizzato ad entrare nel giardino.
“Dopo l’uscita di Midnight in Paris di Woody Allen”, mi dice la mia ospite, “gli americani sono arrivati a frotte, ma di italiani interessati a questo indirizzo ricordo solo lei”. Sarà.
Ho scattato nuove immagini, ho letto altri libri e altri articoli, quasi sempre pubblicati oltre oceano.
Com’è noto, non amo rubare il lavoro altrui: se altri hanno scritto prima di me su di un argomento, trovo giusto cedere loro il passo piuttosto che scimmiottare con mie parole quanto letto altrove.
E qui userò lo stesso metodo, facendo precedere le mie immagini da un brano estratto da The Alice B. Toklas Cook Books, scritto a Parigi nel 1954.
In Italia, questo libro è reperibile in più edizioni, con titoli ed editori diversi:
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
Fatto curioso, le due traduttrici hanno consegnato alle stampe due testi praticamente identici, eccezion fatta per rari e poco significativi dettagli.
E adesso cedo il passo ad Alice Babette Toklas, la “mogliettina” factotum di Gertrude Stein.  

Piatti per artisti

Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus, la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutte tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.

~ Branzino Picasso ~

Preparai un court-bouillon di vino bianco secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes. Feci bollire il tutto per un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon. Poi lo scolai, lo asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.

Mi sentii orgogliosissima del mio capolavoro, e quando lo servii Picasso diede in esclamazioni di meraviglia. Poi aggiunse: Non sarebbe stato meglio prepararlo in onore di Matisse invece che mio?

Picasso seguì per parecchi anni una dieta molto rigida; in effetti riuscì chissà come a non sgarrare neppure durante la guerra mondiale e l’occupazione. Si rilassò soltanto dopo la liberazione. Tipico no? La carne rossa gli era proibita, ma questo non era un problema perché in quei giorni i francesi servivano molto raramente carne di manzo, con l’eccezione dell’inevitabile filetto alla sauce Madère. Nemmeno il pollo era tenuto in grande considerazione, mentre il cosciotto di agnello arrosto era visto con maggior simpatia. Oppure gli servivamo del tenero lombo di vitello preceduto da un soufflé di spinaci, dato che il medico gli aveva raccomandato di mangiare molti spinaci e il soufflé era il modo meno insipido di presentarli. Si poteva rendere più appetitoso con l’aggiunta di una salsa. Il problema era quale salsa Picasso potesse mangiare nonostante la dieta. Gli davo una scelta. Cuocevo il soufflé in uno stampo ben imburrato immerso in un recipiente di acqua bollente. Quando era cotto al punto giusto lo sistemavo in un piatto da portata sul cui bordo disponevo eguali quantità di salsa hollandaise, salsa alla panna e salsa di pomodoro. La mia speranza era che i colori delle salse riuscissero a far sembrare meno antipatico il soufflé di spinaci. Un dilemma crudele, disse Picasso quando gli venne servito il soufflé.

[…] Parecchie volte ho avuto la tentazione di uccidere una cuoca stupida o ostinata, ma di solito mi limitavo a immaginarlo, la fantasia sostituiva l’omicidio effettivo. Poi venne da noi a lavorare un allegro, incantevole austriaco. Era un cuoco perfetto. Svelto e silenzioso, Frederich, lo chiamerò così, cucinava per noi i piatti più sofisticati e complessi, non si spaventava davanti a nulla. Ci preparava gelati in piccoli recipienti a forma di uovo che disponeva su nidi di zucchero filato colorato. Adorava preparare torte a forma di oggetti diversi per ciascuna persona, a seconda della sue caratteristiche: di libro per Gertrude Stein, di rosa per sir Francis Rose, di pavone per un’amica molto vanitosa e di cagnolino per me. Riceveva di continuo le visite di una ragazza molto graziosa, Duscha, che sembrava uscita direttamente da un’opera di Offenbach. Io e Gertrude Stein li adoravamo. A Natale chiedemmo loro di accettare, fra gli altri doni, una cena innaffiata di champagne in un ristorante di loro gusto per il tradizionale réveillon. A poco a poco Frederich cominciò a confidarsi con me. La sua vita non era più felice come una volta. All’inizio c’era solo la sua fidanzata Duscha, il suo angelo, ma adesso ce n’era un’altra, un demonio, che voleva sposarlo, e minacciava di ucciderlo se si fosse rifiutato. Ci raccontò che lui e Hitler erano nati nello stesso villaggio e che tutti in quel villaggio erano simili tra di loro e molto particolari. Eravamo nel 1936 e ormai sapevamo benissimo che Hitler era davvero un po’ strano. Frederich, d’altra parte, non era tanto strano quanto debole, amante del vino, delle donne e della musica. Ma continuava a essere un cuoco perfetto. Per parecchi anni aveva lavorato nel ristorante di Frau Sacher e spesso ci preparava la famosa Sacher Torte.

[…] Un pomeriggio, mentre io e Gertrude Stein stavamo tornando a casa, vedemmo una persona uscire dalla nostra porta nel cortile. Era una donna dagli occhi neri, piccoli e brillanti. Il demonio, disse Gertrude Stein. Probabilmente, risposi. L’occhiata che le avevo dato bastò a riempirmi di preoccupazione per Frederich. Volevamo che fosse felice e che restasse a cucinare per noi. Più tardi andai a trovarlo in cucina. Era seduto al tavolo, la testa nascosta tra le braccia. Quando mi vide sussultò. Che cosa c’è, gli chiesi. Il demonio, Madame, il demonio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono una bottiglia di preziosissimo Tocai. Voleva avvelenarmi, uccidermi. Ha versato un bicchiere di vino e me l’ha dato. Proprio mentre stavo per bere alla sua salute mi sono accorto che non aveva versato da bere per sé, il suo bicchiere era vuoto, e che non aveva tolto il tappo con il cavatappi. Voleva avvelenarmi. Le ho buttato addosso la bottiglia. L’ho strattonata. L’ho buttata fuori. Oh, Madame, quel demonio riuscirà a farlo, riuscirà a uccidermi. Lo mandai in camera sua.
La mattina dopo non trovai Frederich in cucina. Verso mezzogiorno chiesi alla concierge di salire nella sua stanza per vedere che cosa fosse successo. Tornò dicendo che la porta era aperta e la stanza vuota, c’era solo un baule legato con delle cinghie. Non aveva visto Frederich, quella mattina, ma la signora coi capelli scuri era andata a trovarlo un paio d’ore prima. Che cosa potevamo fare? Niente, se non aspettare che arrivasse Duscha. Arrivò nel tardo pomeriggio. Bella, raffinata ed elegante come sempre, ma con gli occhi rossi e gonfi. Frederich le aveva mandato un telegramma lungo come una lettera, il che era una prova, disse, di quanto dovesse star male. Se n’era andato con quel demonio, inutile cercarli, avrebbero lasciato Parigi. Lui avrebbe sempre amato il suo angelo ma la loro felicità era rovinata per sempre. Lei doveva andare ad avvertire le buone signore, le avrebbero pagato quello che gli dovevano, tre settimane e sei giorni di salario, e con quei soldi avrebbe dovuto comprarsi una frivolité come ultimo souvenir del suo innamoratissimo Frederich.
Mentre leggevo il telegramma, Duscha singhiozzava delicatamente in un delizioso fazzolettino bianco. L’accompagnai in salotto e la lasciai in compagnia di Gertrude Stein, mentre preparavo il tè. Quando mi vide arrivare con il vassoio, mi venne incontro di corsa. Ripose subito il fazzoletto, bevve tranquillamente parecchie tazze di tè e mangiò gli ultimi perfetti dolci viennesi preparati da Frederich, che non avremmo mai più gustato. E adesso che cosa farai, chiedemmo a Duscha. Continuerò a lavorare per la buona principessa, lei capirà. Quando non avrò più gli occhi rossi e avrò dimenticato il dolce debole Frederich ricomincerò a vivere. Le diedi i soldi del salario del suo amante infedele. Lei mi ringraziò e si mise a contarli. Con un sospiro e un singhiozzo piegò con cura le banconote e le ripose nella borsetta. Facci avere tue notizie, le dissi quando se ne andò.
Non ne avemmo per settimane, poi ricevemmo una partecipazione di nozze. In Francia le partecipazioni hanno il nome della famiglia della sposa a sinistra, e quello della famiglia dello sposo a destra. La famiglia di Duscha, da un lontano e impronunciabile villaggio in Austria, aveva l’onore eccetera eccetera e poi la famiglia dello sposo, due nonne e un nonno, i genitori, i fratelli, le sorelle, il tutto cosparso di medaglie al valore e Légions d’Honneur e titoli onorifici, annunciava il matrimonio del figlio con Duscha. Era entrata a far parte di una famiglia della buona borghesia e non avrebbe avuto più niente da temere.

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mercoledì 8 luglio 2015

Picasso a Céret, 1912


Autunno 1911. Picasso non ha ancora del tutto smaltito lo stress causatogli dall’affaire Géry Piéret e dal furto delle statuette iberiche al Louvre. Anche in famiglia le cose non girano più nel verso giusto. Il periodo di fame e freddo è alle spalle e la sua compagna Fernande Bellevallé – Amélie Lang all’anagrafe, moglie divorziata di un certo Olivier - scalpita per godersi una vita degna del progressivo arricchimento di Pablo. Inoltre, Picasso è al corrente che la sua musa (ormai ex, nei fatti) frequenta altri letti, ma lui sopporta: il suo lavoro viene prima di tutto.

Al consueto raduno del sabato pomeriggio in casa dei fratelli Stein, Picasso se ne sta mogio mogio in un angolo. Quel pomeriggio il disegnatore polacco Louis Markus, ribattezzato Marcoussis da Apollinaire, arriva accompagnato da una giovane donna che si fa chiamare Marcelle Humbert – all’anagrafe Eve Gouël sposata Humbert. Picasso non riesce a toglierle gli occhi di dosso. Lei ha capito e acconsente. Si aggiunga: appena conosce una nuova donna, Fernande fa di tutto per farsela amica e così è anche con Eve, col risultato che le due coppie Pablo-Fernande e Marcussis-Eve prendono ad uscire insieme per divertirsi al Circo Medrano o agli incontri di boxe, prima di concludere la serata a L’Érmitage, una brasserie con orchestra in boulevard Rochechouart. È questo un locale malfamato, frequentato da ruffiani, puttane e ballerine da poco, ma agli artisti il proprietario riserva una stanza separata, punto di ritrovo dei Futuristi. Qui Picasso incontra Severini, Soffici, Oppi, Meunier e Karl, ma anche i suoi amici di sempre: Max Jacob, André Salmon, Juan Gris, André Derain, Georges Braque, il gallerista Kahnweiler, Guillaume Apollinaire e Marie Laurencin, un’altra coppia in via di scioglimento.

Fernande non fa nulla per nascondere i suoi incontri amorosi con l’ellenista Mario Maunier e con l’attore Roger Karl. Per reazione, Picasso prende in affitto uno studio fuori casa, ritornando al fatiscente Bateau-Lavoir. Il suo vecchio studio (dove ha creato Les demoiselles d’Avignon, tela nota soltanto a pochi intimi e tenuta arrotolata in boulevard de Clichy) è ora occupato da Herbin, quindi si deve accontentare di uno spazio meno gradevole. Quel che importa per lui è l’essere tornato nella vecchia baracca di legno e vetro dove, tra mille privazioni e sofferenze, ha dato inizio al movimento artistico che altri hanno voluto chiamare Cubismo. Di fatto, il suo è un regresso nell’utero rigenerativo e dio solo sa quanto Picasso ha bisogno di rinascere a nuova vita.

Un bel giorno lui prende Eve (ma lui preferisce chiamarla Eva) per mano e lei si lascia condurre in questa baracca, entrando nello studio del pittore. L’uomo e l’artista Picasso rinascono a nuova e gioiosa vita - e l’inserzione della scritta MA JOLIE in una tela rende omaggio al ritrovato amore. Gertrude Stein, che sagacemente ha capito che MA JOLIE in carattere maiuscolo non è certo Fernande, vuole che questa tela sia appesa in casa sua, al 27 di rue de Fleurus. Picasso acconsente e la cede per 1200 franchi, una cifra davvero importante. Leggenda vuole che Gertrude rimarrà «con questo quadro davanti agli occhi fino al giorno della morte».


Fernande
Eve (Eva per Picasso)
1912 - Marcoussis, autocaricatura: lui si è liberato di Eve,
Picasso si è messo una palla al piede

1912. Il 19 gennaio il tribunale di Parigi sospende ogni ulteriore procedimento per lincidente delle sculture trafugate al Louvre. Adesso Picasso può tranquillizzarsi, l'incubo è finito.

Arriva la primavera e Fernande, innamoratasi di un giovane pittore italiano, Ubaldo Oppi, decide di scappare con lui. Scrive Picasso a Braque: «Non credo che lei abbia voluto fuggire da me in maniera definitiva. Lei spera di ritrovarmi più innamorato. In realtà, lei mi ha liberato.» Aggiungerà più tardi: «Veramente è stata una buona idea quella di partire con Oppi. Mai avrei avuto il coraggio di cacciarla.»

Partita Fernande, Eva trasloca in boulevard de Clichy, liberando a sua volta Marcoussis. Come tutta la sua vita dimostra, ogni nuovo amore influisce nell’arte di Picasso, traducendosi in rinnovata volontà di cambiamento. Braque lo raggiunge allo studio del Bateau-Lavoir e insieme portano avanti nuove scoperte, quale l’astuzia di dipingere tele ovali per evitare i problemi che pongono gli angoli in certe tele cubiste. Anche i soggetti cambiano: ora primeggiano i cibi e la cucina, più still life che natura morta.

Alle tele Picasso alterna le sculture e nell’amorosa primavera del 1912 crea el guitarrón in ferro laminato e con le corde di filo metallico. E qui è bene ricordare che nel linguaggio popolare spagnolo la parola chitarra è anche un sinonimo di vulva - ma i critici più delicati scrivono che le forme della chitarra ricordano le curve delle donne, adatte ad essere abbracciate dal suonatore. Preferisco la prima versione: sempre meglio loriginale che non la sua moralizzata interpretazione (più volgare, tra laltro). 



Dopo un breve viaggio a Le Havre in compagnia di Braque - dove Georges presenta la sua fidanzata, Marcelle Lapré, ai genitori - il 18 maggio Picasso lascia precipitosamente Parigi e con Eva raggiunge Céret, installandosi nella casa Peraire o casa dei cubisti, una vecchia fattoria dove Picasso si trova a convivere e a lavorare con Manolo, Sunyer, Séverac, Maillol, Casanovas e altri artisti qui residenti. Le ragioni di questa sua fuga da Parigi trovano una giustificazione nella notizia che corre di bocca in bocca tra i suoi amici e conoscenti: Fernande ha fatto sapere di essersi stancata di Oppi e di voler tornare a vivere sotto il tetto e nel letto di Pablo. Ma adesso Pablo è innamorato di Eva, Eva è innamorata di Pablo ...ma anche di Céret e delle sue celebrate ciliegie, le prime a maturare sul territorio francese. Lui riscopre nuovi stili e introduce nuove tonalità di rosso e di giallo nelle sue tele e Fêtes a Céret, Nature morte espagnole, Violon: Joli Eva ne sono alcuni esempi.

Come già l’anno precedente, il destino vuole che la gioia di Picasso a Céret sia di breve durata. Da una lettera da lui inviata a Kahnweiler apprendiamo che un bel giorno quel «con de Pichot» ha la bella intuizione di raggiungerlo in questo villaggio sui Pirenei in compagnia di sua moglie Germaine (che fu la prima amante di Pablo a Parigi) e di Fernande, ormai staccatasi da Oppi e decisa più che mai a riprendere il suo posto accanto a lui. Per la cronaca, a quel tempo Ramon e Germaine Pichot (Pitxot nella natia Catalogna) gestivano a Montmartre La Maison Rose, un locale a due passi dal Lapin à Gilles, poi diventato Lapin Agile, oggi due mete obbligate per il turismo di massa, che del bel tempo che fu trova solo le insegne.

La Maison Rose
Le Lapin Agile

Di colpo la vita dei due innamorati diventa un incubo. Complice la convivenza con gli altri artisti alloggiati nella cosiddetta casa dei cubisti, una specie di falansterio di stampo socialista, per otto giorni Pablo e Eva subiscono gli attacchi della ex, che non vuole più essere tale, e dei suoi alleati. Pichot rinfaccia a Picasso che è stata Fernande ad essergli accanto negli anni difficili del Bateau-Lavoir. Poi «un energumeno si mette contro di me, mi afferra per la giacca, mi strapazza come fossi un albero di prugne. Mi monta una grande rabbia, mi batto, ci separano. Eva ha preso paura e prende a tossire.»

Il 21 giugno Pablo ed Eva lasciano Céret, ma il pittore non ha nessuna intenzione di rientrare a Parigi. Scrive a Kahnweiler che il binomio Montmartre-Fernande deve essere interrotto. Che disdica l’atelier di boulevard de Clichy e gliene procuri uno nuovo, lontano, a Montparnasse.
Nell’immediato, Picasso si ricorda che ai tempi in cui creava Le Bordel d’Avinyo (in ricordo di un locale di Barcellona - Le Bordel philosophique per Apollinaire, Les Demoiselles d’Avignon per tutti gli altri), giocando sull'assonanza fonetica Avinyo-Avignon Max Jacob gli aveva raccontato che sua nonna era nata nella città dei Papi. Da qui la decisione di portare Eva in questa località, pure a lui ignota. Purtroppo, tutti gli alberghi hanno stanze troppo piccole per uno che non smette mai di coniugare il piacere col lavoro. Gli serve più spazio per poter dipingere. Ad Avignone il dottor Pierre Arlaud gli propone di trasferirsi a Sorgues-sur-l’Ouvèze, un villaggio di 4500 abitanti, distante sì una decina di chilometri, ma collegata da un comodo servizio di tranvai che percorre un lungo viale ben ombreggiato. Laggiù il dottore possiede la villa Les clochettes e in cambio di 80 franchi al mese gli affitta due camere e uno studio. Il 25 giugno Pablo ed Eva si stabiliscono a Sorgues, dove alla fine di luglio sono raggiunti dai coniugi Braque, freschi di nozze, che affittano la villa Bel Air, sulla strada per Entraigues.


Les clochettes

Picasso a Sorgues, 1912

Sorgues-sur-l’Ouvèze è un posto che nulla ha a che vedere coi villaggi che attraggono i pittori per la qualità della loro luce, ma Picasso è proprio questo che cerca: la solitudine, la pace. E poi adesso che sono arrivati i coniugi Braque non mancano le risate, il calore dell’amicizia. «Le due donne parlano di me e certamente di Fernande. Io e Georges delle nostre invenzioni. E poi noi avevamo in tasca i soldi per andare a far festa ad Avignone o allEstaque di Marsiglia. L’estate del 1912, il Cubismo ha lasciato Céret e si è spostato a Sorgues, tra i violini e l’uva, le Jolie Eva, le Ma Jolie e i Pablo-Eva» si legge nel troppe volte citato libro di Jacques Perry, vera miniera di buone informazioni, da me integrato con la lettura di due monumentali biografie in più volumi: una porta la firma di John Richardson, l’altra è frutto delle ricerche di Josep Palau I Fabre, a cui rinvio per la cronologia dellevoluzione artistica di Picasso, raccontata opera dopo opera.
La solitudine del villaggio è tale che i due pittori si permettono il lusso di stendere le loro tele dipinte ad asciugare fuori casa, come fossero lenzuola – e nessuno ha mai pensato a rubarle…

Alla fine di agosto Kahnweiler scrive a Picasso informandolo di aver trovato uno studio-appartamento al 242 di boulevard Raspail, chiedendogli di rientrare quanto prima per gestire il trasloco. Poco dopo Picasso è a Parigi, ma il 13 settembre riparte per Sorgues, accanto all’amata Eva e ai coniugi Braque. Insieme, Pablo e Georges danno vita a una nuova forma d’arte: «les papiers collées, c’est la jeunesse de la peinture».

La vacanza è finita, il nuovo studio non soddisfa Picasso. Accantonato questo risolvibile problema, il futuro artistico per lui si presenta in discesa: il Salon des Indépendants vede una nutrita partecipazione di dipinti cubisti, tra cui l’Omaggio a Picasso di Juan Gris. Inoltre, l’attivissimo Kahnweiler ha brigato affinché Picasso ricevesse l’invito ad esporre alla seconda mostra postimpressionista alla Grafton Gallery di Londra. Sempre a Londra vengono esposti dei disegni del periodo blu e rosa alla galleria Stafford, venduti a prezzi decisamente alti, variabili da 2,5 a 25 sterline. Opere di Picasso sono esposte anche a Berlino, a Monaco, a Colonia, a Mosca e a Barcellona.
Riconoscente, il 18 dicembre Picasso firma un contratto triennale con Kahnweiler, promuovendolo al rango di suo gallerista ufficiale, con una postilla: il pittore potrà sempre tenere per se tutte le opere più intime, quelle che il pittore non vuole siano profanate da occhi estranei. Il mondo scoprirà queste tele solo nel 1961 grazie a Picassos Picasso, il libro realizzato da David Douglas Duncan, il fotografo a cui Picasso ha aperto le porte della Californie di Cannes e concessa l’autorizzazione a riprendere le tele fino ad allora rimaste ignote. Restano ancor oggi la parte più nascosta, quindi più intrigante, della vita di Picasso.





[continua]



© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri