sabato 23 gennaio 2016

Come e quando è nato il Rinascimento


Via posta elettronica, Michel Paoli (o chi per lui) m’informa che martedì 26 gennaio 2016, alle ore 18, all’Università di Liegi terrà una conferenza sul tema “Possiamo conservare il concetto di Medioevo se sopprimiamo il concetto di Rinascenza?”. Un’argomentazione debole, a mio avviso, e vado a raccontare il perché partendo da una puntata dell’ormai defunto programma Le storie - targato RAI3 e condotto da Corrado Augias - dove Philippe Daverio, l’ospite del giorno, così discetta sul tema rinascenza e rinascimento:

Domanda: “Io volevo chiedere - sono Claudia - volevo chiedere qual è la differenza fondamentale tra il Rinascimento e l’Ottocento …l’arte dell’Ottocento?
Precisa Augias: “Perché lei dice: anche il Rinascimento a suo modo fu una rivoluzione. È così?
Daverio: “No. Il Risorgimento esiste, il Rinascimento non esiste. Il Rinascimento è una categoria che abbiamo inventato nell’Ottocento per giudicare il Quattrocento e il Cinquecento, ma la gente del Rinascimento non sapeva che faceva rinascimento. Faceva un’altra cosa. Leon Battista Alberti quando ripristinava gli acquedotti di Roma parlava di risorgenza delle acque. Chi si occupava di letteratura andava a riscoprire il valore di Cicerone. Chi si occupava di pittura non capiva nulla perché non c’erano i quadri dell’antichità da guardare, quindi leggeva Plinio e si reinventava Plinio. Poi nell’Ottocento noi abbiamo inventato questa parola bizzarra che non era affatto Rinascimento ma che è Renaissance, che appare per la prima volta in un libro di Balzac del ’29. Sempre in quel periodo lì, e che riprende dopo - l’ho ritrovato recentemente - quella rompiscatole terribile che è George Sand nella Mare au diable del ’31. Quindi in quei due anni la Francia inventa la parola renaissance.

Per chi è interessato ad ascoltare l’intera puntata, questo è il link:


Ottimo e abbondante. È ovvio che chi viveva nel Quattrocento o nel Cinquecento non poteva essere a conoscenza di questa etichettatura postuma. La cosa è talmente banale …che una precisazione è sempre necessaria, vista l’orrida scolastica mondiale - e non me ne vogliano i docenti, che della disinformazione ad hoc sono le prime e non sempre inconsapevoli vittime: si è stati formati da una scuola impostata sulla bugia come verità assoluta e altro non si può fare che propagare a mo’ di catena di sant’Antonio quello che ci è stato imposto dai padroni del vapore.

Veniamo al dunque: perché l’argomentazione di Paoli è debole. Come racconta Daverio, fino al 1829 nessuno aveva mai utilizzato il termine rinascenza per definire un determinato periodo storico. Certo, altri avevano usato questa parola, ma solo per definire casi specifici, ristretti, fini a sé stessi. Il Vasari, giusto per fare un esempio, usa il termine rinascita per rimarcare uno stile artistico opposto alla “buona maniera greca antica”. In Francia, nel 1533, il naturalista Pierre Belon scrive dell’eureuse & desirable renaisance di toutes especes de bonnes disciplines. Niente a che vedere col Rinascimento inteso come epoca storica, dunque.
Continuo. La prima volta che il termine Rinascenza - e poi Rinascimento - viene utilizzato per designare un concetto culturale indipendente, legato con la modernità, è stato nel 1829, quando Balzac, ne Le Bal de Sceaux, per caratterizzare la conversazione della giovane figlia del conte de Fontaine scrive: “Elle raisonnait facilement sur la peinture italienne ou flamande, sur le Moyen Âge ou la Renaissance, jugeait à tort et à travers les livres anciens ou nouveaux, et faisait ressortir avec une cruelle grâce d’esprit les défauts d’un ouvrage.





Due anni dopo, 1831, George Sand riprende da Balzac il termine Rinascenza - mi ripeto: per la prima volta inteso come periodo storico - inserendolo nella sua opera La Mare au diable (La Palude del diavolo): “Un enfant de six à sept ans, beau comme un ange, et les épaules convertes, sur sa blouse, d’une peau d’agneau qui le faisait ressembler au petit saint Jean-Baptiste des peintres de la Renaissance,» etc. etc. (con seconda, rafforzativa, citazione molte pagine dopo; vedi immagini) - e tanto basta perché due secoli di storia italiana siano per sempre (?) etichettati Rinascimento.








In verità, di che e di che cosa siamo rinati è ancora tutto da spiegare, a meno che non si accetti per buona la bestialità storica e intellettuale del Medioevo come periodo buio, nozione tanto cara alle gerarchie indaffarate a nascondere sotto il tappeto gli orrori delle torture e dei roghi da loro accesi. Per documentarsi i buoni libri non mancano, soprattutto quelli scritti da buoni e bravi docenti embedded, con tanto di tabelline esplicanti il numero dei vivi bruciati sui roghi, coi giorni di prigionia e i giorni di tortura patiti, salvo poi concludere che erano loro stessi la causa della propria morte: rifiutando di abiurare l’errore commesso inevitabilmente dimostravano una precisa volontà suicida... Tutto questo e altro ancora si legge nei preziosi Cahiers de Fanjeaux, saggi di cui facevo incetta ogni volta che passavo da Minerve, importante centro enologico della Francia, il cui nome rimanda al massacro degli eretici Catari.

La colomba di Minerve, Francia

Trent’anni dopo (1860) i libri di Balzac e George Sand a Basilea esce Die Cultur der Renaissance in Italien; ein Versuch’von I. Burckhardt, un saggio subito recensito sull’Archivio Storico Italiano da Giuseppe Dalla Vedova: il concetto di Rinascimento come periodo storico tra il Medioevo e l’Era dei Lumi - nato dalla fantasia di Balzac e riproposto dalla Sand - ha avuto fortuna, imponendosi nel linguaggio dei dotti e da questi imposto urbi et orbi, acritiche scuole incluse.


ARTICOLO COLLEGATO

domenica 10 gennaio 2016

Picasso. Presentazione di Fernanda Wittgens



Picasso
Presentazione di Fernanda Wittgens
Silvana Editoriale d’Arte
Milano 1954
pp. 5-12


Terra dell’Umanesimo, l’Italia, con la forza della sua tradizione, assolve tuttora la missione di vaglio d’ogni cultura nuova: una missione di cui pochi intellettuali nostri sono coscienti mentre è chiara, almeno dal tempo di Goethe, allo sguardo del mondo internazionale. Era tempo che il rivoluzionario movimento della pittura moderna, rifluito da Parigi in ogni centro culturale dell’America del Nord e dell’Europa ma non in Italia ove erano apparse soltanto le sporadiche documentazioni delle Biennali Veneziane, fosse illustrato, sulla scena italiana, dal caposcuola del Novecento europeo: Pablo Picasso.
La recente mostra dell’opera pittorica, grafica e plastica del Maestro in Palazzo Reale di Milano ha assolto questo compito per una duplice ventura: per avere potuto raccogliere l’opera giovanile di Picasso documentata da dipinti del Museo d’Arte Moderna di New York, di collezioni private americane, svizzere, francesi, italiane, e soprattutto dai nove fondamentali esemplari provenienti dal Museo d’Arte Moderna di Mosca; e per aver ricevuto, sia pure per un mese solo, il suggello di Guernica, la creazione assoluta del Maestro ed il «documento principe» del Novecento artistico europeo.
All’inizio della sua vita d’artista, è il mondo del sentimento che attrae Picasso; parallelamente, la sua esperienza pittorica si svolge nella cerchia dell’Impressionismo e del post-Impressionismo, se pur una segreta ansia umana ed un rigore che è manifesto segno di integrità spagnola, impediscono all’artista di cadere nei facili effetti decorativi degli epigoni. È la lezione offerta da due rarissimi capolavori del «periodo blu» e del «periodo rosa» di Picasso, conservati nel Museo di Mosca: il Vecchio ebreo e il Saltimbanco.
Comprendiamo che l’azzurro del Vecchio ebreo forzato sino all’austerità del monocromato (sicché il prodigio espressivo è affidato essenzialmente al disegno) ha, per Picasso, il valore di un simbolo di quella vaga socialità che segnava il nascente secolo XX: simbolismo ben altrimenti puro di quello di Puvis de Chavannes e dei neopreraffaelliti, al cui influsso pur non era sfuggita la sensibilissima natura picassiana. Ma ecco il Saltimbanco: la fantasia del Maestro comincia a dominare il sentimento nell’illusoria figurazione della vita del circo; e la pennellata delicatissima accende, sulle forme umane e sul deserto scenario di colline sabbiose, lumi rosa quasi fuochi fatui. Siamo ai margini della trasposizione della realtà sul piano intellettuale, ai margini della creazione dell’arte moderna.
L’autentica attività creatrice di Picasso s’inizia solo nel momento in cui l’artista acquista la consapevolezza che tutte queste esperienze appartengono al passato - un grande passato iniziato nel Barocco e concluso con la pittura impressionista - e che una nuova civiltà deve nascere da un nuovo arcaismo. La lezione di Cézanne, la suggestione dell’arte negra importata all’inizio del Novecento in Parigi, il potente, genuino temperamento spagnolo dell’uomo e dell’artista si sommano felicemente nell’impeto rivoluzionario della pittura «cubista» di Picasso, la prima autentica parola del Novecento artistico.
Ancora i dipinti dei Musei di Mosca hanno offerto gli elementi fondamentali per comprendere il complesso processo di formazione della nuova pittura. Un quadro ha colpito il pubblico italiano per la violenza della sua stilizzazione: Le tre Donne. Quadro eroico, realizza in un clima di passionalità quello che era stato, per Cézanne, un imperativo categorico dell’intelletto: rendere la natura per cubi e cilindri. Ma è una via senza uscita, e, d’altra parte, se Picasso ha potuto risolvere un simile tema con potenza come in questo quadro, lo ha fatto mercé un ritorno al passato, ispirandosi alla scultura romanica della sua terra spagnola, e ne ha emulata la plasticità per quel potere che Leonardo riconosceva alla pittura, di simulare con i suoi mezzi gli effetti dell’arte sorella.
Un altro quadro nella stessa sala di un anno anteriore appariva, ai sensibili, miracolo più sottile e maggiore: la Danza con i veli, tanto più che esso era esposto accanto ai Due nudi della Collezione Silbermann di New York, veri feticci negri in un’atmosfera fauve, che documentavano il primo e non controllato incontro, circa il 1906, con l’esotismo primordiale. L’intellettuale natura di Picasso riprende il dominio nella Danza con i veli, e soggioga l’emozione. Fosforescente di gialli, di azzurri, di verdi, il dipinto mirabile è solo al primo sguardo una simbologia dell’estasi fantastica, una visione orientale; contemplandolo, si discerne la meditata astrazione della forma, il nascere di un nuovo linguaggio figurativo che aderisce alle più sottili ricerche della cerebralità e della ipercultura del nuovo secolo, di quel Novecento che, al suo inizio, si è posto in antitesi assoluta col romantico Ottocento.
Da quest’opera e dai vari studi per le Démoiselles d’Avignon esposti nelle sale milanesi e più genialmente rivoluzionari e convincenti dello stesso famoso grande quadro del Museo di Arte Moderna di New York, si giunge alle espressioni ardite del «cubismo analitico» che dobbiamo considerare nel loro valore polemico : indici della frattura di una civiltà, manifesti di una nuova visione estetica.
L’estetica classica e postclassica conciliavano le loro antitesi nella tradizione mediterranea «dell’uomo misura di tutte le cose» sia che, classicamente, queste fossero a lui subordinate, sia che, romanticamente, divenissero elementi della sua fantasia. Che cosa sono infatti i paesaggi impressionisti se non proiezioni del lirico rapimento dell’uomo ottocentesco, raffinato nella sensibilità dalla poesia e dalla musica romantica, di fronte allo spettacolo della Natura che è serena ed amica secondo l’ottimistica interpretazione della fine del secolo?
Il Novecento segna un brusco risveglio di intellettualità, e con un balzo gigantesco il pensiero umano trapassa dall’apparenza all’essenza, se non vogliamo dire al «metafisico», termine più popolarmente accessibile ma che difficilmente può essere usato, dopo secoli di teologia, in significato nuovo ed elementare. È un’avventura spirituale di cui non abbiamo ancora misurato la grandezza noi che ne siamo partecipi e vittime, perché l’abbiamo scontata con la distruzione degli ottimismi e delle «certezze» scientifiche, con le tragiche catarsi delle guerre, con l’immensa responsabilità di creare, sulle nuove basi cosmiche, una civiltà pur sempre riferita all’uomo. Veggente è invece l’artista, e Picasso cerca di esprimere, mercé il cubismo analitico, la nuova visione del mondo, la nuova estetica dello spazio.
Lo spazio tradizionalmente sentito come ambiente dell’uomo diviene, nell’intuizione del nostro secolo, un’entità, un elemento operante e creativo in quanto collega in unità l’uomo e gli oggetti mercé i suoi piani e le sue luci. Le forme umane e naturali si geometrizzano; nasce la nuova grafia che ripete esperimenti antichissimi di tutte le arti mistiche - dai vasi del Dipylon agli «entrelacs» irlandesi, ai mosaici bizantini - le quali proprio per simboleggiare l’unità cosmica del mondo, imponevano una figurazione in superficie ed uno stile geometrizzato.
È interessante notare la difficoltà di Picasso nella rinuncia all’espressione umana: il Ritratto di Vollard del Museo di Mosca e la Suonatrice di mandolino della Collezione Penrose di Londra non sono privi di echi romantici, sicché più assoluta appare l’esperienza cubista nella Donna in verde della Collezione De Haucke orgogliosamente vitale con le sue forme ampie ed il vibrare dei verdi, nella Donna in poltrona della Collezione Salles di Parigi, raccolta in tonalità di grigio e viola che ne fanno un’opera di meditazione sulle segrete relazioni tra l’atmosfera e la forma umana e nel Violino del Museo di Mosca, capolavoro della visione cubista, una lirica creata con la vibrazione del prisma. È questo senso di umanità di Picasso che sollecita l’artista a chiudere in breve giro di anni, circa dal 1909 al 1914, il cubismo analitico che fu, per Braque e Juan Gris, l’esperienza definitiva, ed a tentare un’altra e più difficile via: «il cubismo sintetico».
Il Giocatore di carte del 1914, generosamente concesso dal Museo d’Arte Moderna di New York e Fruttiera e chitarra, gemma del Kunsthaus di Zurigo segnavano, nella Mostra milanese, più potentemente d’ogni altra tela, l’inizio e lo sviluppo della nuova ricerca che, elaborata in qualche capolavoro dell’artista (ricordiamo Il Balcone della Collezione Rosenberg di New York) condurrà a Guernica. Se fosse consentito fare di un uomo un simbolo, dovremmo seguire questo solo e fondamentale linguaggio del cubismo sintetico di Picasso; ma troppo grave sarebbe la lesione dell’umanità dell’artista. E dobbiamo perciò accennare ad altre multiformi, complesse esperienze che, se si sa «leggere» l’opera del pittore, non nascono dall’io autentico di Picasso, ma sono il riflesso di un mondo iperculturale - quale fu quello europeo del primo Novecento - sulla sensibilissima personalità picassiana. Questo fenomeno ha il potere di provocare le più sorprendenti reazioni che possono essere il classicismo delle opere italiane, lo strano e sentimentale romanticismo dei ritratti di Pablo del 1925 (e tuttavia, in quel periodo, nasce anche il capolavoro cubista dei Tre musici del Museo d’Arte Moderna di New York), l’espressività infine che segna di un particolare timbro l’opera matura dell’artista, ed è certo l’esperienza da lui più sofferta. Come bene ha visto il più acuto biografo di Picasso, Christian Zervòs, quasi in tutti i momenti della sua vita il Maestro è vittima di un dualismo tra la carica affettiva suscitata dagli incontri con la vita ed un bisogno di libertà che lo spinge ad evadere, sino a reagire con violenza all’esperienza ricercata ed insieme temuta. È la natura spagnola che non sa raggiungere, secondo l’esperienza greca, la catarsi della contemplazione, anzi coltiva fanaticamente il dualismo di coscienza ed istinto, di passione sublimatrice e di sessualità, di intelletto e sentimento.
Momenti sereni non mancano tuttavia in questa maturità: l’eterno femminino così inquietante per Picasso, qualche volta assume aspetti di semplice, direi solare naturalezza, ad esempio nel vivente arabesco dell’Odalisca di proprietà dell’artista e in quella Donna col cappello, (anch’essa della collezione personale di Picasso), arditamente sezionata da una ricerca dinamica riflessa dal cinematografo nella cultura del nostro secolo, e che pure, in quest’opera, perde ogni aggressività polemica per la preziosità del colore. È un delicato gioco di azzurri, di gialli chiari, di rosati, raro in Picasso che «vede» generalmente più da freschista che da pittore da cavalletto, per zone di tinte semplici.
Antagonista nell’espressione è la Donna seduta che legge.
Essa appartiene al momento delle esperienze psicanalitiche e al pari della Donna che gioca al pallone sulla spiaggia e della lunare Donna sulla spiaggia dovrebbe esprimere le complicate simbologie dell’inconscio. Fortunatamente riemerge, dalle cerebralissime esperienze, intatta l’austerità del primitivo spagnolo, e lo splendore dei rossi e dei gialli tramuta il simbolo freudiano in un’immagine di Apocalisse catalana. Siamo nel 1937, l’anno di Guernica che sublima questa ancestrale ispirazione picassiana, Guernica frattura della civiltà, canto del dolore del mondo.
Eterno viandante, l’artista procede oltre quel termine, e nel 1938 e nel 1939 torna ad aderire alla vita quotidiana, alle sue possibilità di bellezza; ed ecco la pura gioia estetica del bel colore e delle forme espressive nella Pêche d’Antibes, vero peana della vita marina, inno dell’uomo mediterraneo e, con Guernica, capolavoro assoluto del maestro.
Poi di nuovo, nel ’40, la guerra: ed altri, più terribili mostri e deformazioni e simboli di ferocia come il famoso Gatto che azzanna l’uccello, e la morte stessa col suo gelido riso; e poi, nel dopoguerra, il mondo intimo dell’uomo, la vita di casa tra gli umili arredi domestici. Ecco ad esempio, nella famosa tela del Museo d’Arte Moderna di Parigi, La cazzeruola smaltata, un effetto magico di vita colta realisticamente e poi fissata in astrazione, tanto da dare agli oggetti elementari un segreto significato di umana civiltà.
La biografia potrebbe continuare sino al giorno di oggi, ritessere altre proteiformi esperienze; deve comunque includere la testimonianza dell’opera plastica. Sculture come l’Uomo con l’agnello, La Capra, la Testa di donna del 1937 confermano che qualsiasi materia tratti la mano di Picasso, essa si anima di espressione, palpita di vita: l’impresa prometeica è anzi forse più facile a Picasso nel bronzo che non nella tela campita dai colori. Ma questa biografia per sé interessantissima, nei riflessi di una vasta percezione della modernità ha interesse secondario. È la genuinità di Picasso, non le sue multiformi esperienze, che definisce l’essenza della modernità. E genuino è il cubismo sintetico, la cui realizzazione massima cogliamo in Guernica. Sette metri di tela ordita per la lotta col mare, tela di vela, accolgono la tempestosa figurazione della tragedia della Spagna che segnò la fine di un sogno secolare di civiltà e di progresso umano, ed annunciò l’apocalittico cataclisma della guerra mondiale. Guernica è, ripetiamo, il canto del dolore del mondo: risparmiata la facile eloquenza del colore, Picasso intona questo canto su note di bianco e nero (che variano in infinite gradazioni sino all’avorio rosato, carneo, e al grigio aurorale), lo purifica cioè in un misticismo cromatico che rivela l’estrema sincerità dell’ispirazione.
Dal punto di vista della forma, la lunga, sofferta esperienza del cubismo sintetico si conclude in una pagina che non ha più alcuna cesura né alcun ermetismo d’origine cerebrale; ampia, sonora, costruita, ritmica e commossa. La riempie lo spazio che non è un fondo morto, ma un tessuto animato ed elastico come il tessuto corporeo; e le forme si incidono come vene pulsanti. Una finestra affonda grigia nel bianco, e scopre l’infinita pace del ciclo sulla tragedia consumata; una porta, un muro bianco gridano l’orrore dei reclusi nelle macerie più dello stesso gesto disperato della donna nella casa crollata; un altare, in prospettiva nel fondo, eleva la colomba grigia con la ferita bianca come un’ostia, a simbolo di perdono. E simboli di redenzione nel futuro diven­gono le stesse semplici lampade domestiche, anche perché il loro quieto e fedele lume è più forte delle fiamme distruttrici, e fa discendere sulle vittime, nella gelida veglia al limite della notte, una promessa di pace.
La morte stessa si trasfigura; il martoriato braccio del guerriero stringe ancora il ferro, ma da questo già germoglia un fiore. E la madre che urla il suo strazio ai piedi dell’impassibile toro - il Fato della Spagna - presto chinerà il capo, e si accorgerà del miracolo d’amore: il figlio morto si ricompone nel suo grembo in un dolcissimo arabesco, non è più un morto ma un fantastico fiore reciso. Orrore e pietà ispirano all’artista il contrappunto ardito di spazi architettonici e di volumi plastici che culmina nel nodo centrale del cavallo ferito. Solo uno spagnolo uso alle corride poteva scegliere, come emblema del terrore, il cavallo, e dipingere i suoi occhi folli liquefatti e il suo nitrito primordiale. «Se tutto il dolore del mondo fosse raccolto in un grido, esso assorderebbe il mondo», ha detto un antico poeta. Ecco veramente, nel centro del quadro, un urlo cosmico.
Ed ecco il vertice del nuovo linguaggio. Se l’intero corpo del cavallo avesse dominato la scena, la pittura sarebbe stata pura figurazione senza mito segreto, senza la sottile «speculazione» leonardesca. Picasso delinea in tutta la possanza del volume il petto del cavallo, ed annulla in arabesco le sue altre forme reali, le consuma nello spazio che riassorbe in sé la plastica, ristabilendo un equilibrio fantastico, una suggestione mitica. È l’esperienza dei primitivi riscoperta dall’uomo moderno cosciente, ma al tempo stesso ispirato dal soffio di una passione così vasta che può esprimersi in una forma corale.
Se riapriamo oggi il Cahier d’Art che Christian Zervòs, con la sua intuizione di ogni arte vivente, dedicò nel 1937 a Guernica, sentiamo con stupore la perfetta rispondenza del nostro stato d’animo con quello dei primi scopritori: Zervòs nel suo saggio «Histoire d’un tableau» e Josè Bergamin nelle pagine di irripetibile poesia dedicate al mistero dell’opera, e che si intitolano «Picasso furioso». E sono passati diciassette anni, e una guerra - quale guerra! - ha diviso il secolo XX in due epoche! Eppure intatta, come prevedeva Zervòs, è rimasta la magia di Guernica. Con il critico stesso possiamo spiegarla intellettualmente interpretando come motivo dell’opera la rivelazione sublime della vittoria della vita sulla morte: «Pour ces raisons il est loisible d’affirmer que cette oeuvre trouvera durablement accès au coeur, apporterà des suggestions, suscitera des sentiments, fera naître la conviction qu’il y a des choses plus grandes que la réalité apparente et que parteciper de leur grandeur c’est un peu se relever en dignité».
Con il poeta Bergamin possiamo interpretare la suggestione di Guernica medianicamente, possiamo rinnovare la comunione con Picasso «furioro» di quella collera spagnola che il poeta mirabilmente definisce rivelandone l’essenza mistica: «Le mystère tremble en lui par la vérité colérique de la justice qu’il demande. Car la véritable justice est le couteau de la balance entre un oui et un non définitifs; elle n’est autre chose, en définitive - autre chose idéale, autre réalité - que l’affirmation humaine de la vie à quoi la négation de la mort fait contrepoids. La plénitude de l’être contre le néant».
L’una e l’altra interpretazione è valida, l’una dell’altra complementare, e ad entrambe aderiamo, riconoscendo che Picasso, educato dalla cerebralità parigina all’intellettualismo ed a tutti i suoi orgogli, ha ritrovato l’umanità nell’ora in cui le sue radici spagnole erano colpite dal sacrilegio, e con il potere del genio ha previsto, nell’episodio, il dramma del secolo in un’opera artistica che chiude il passato e prepara l’avvenire. Essa è anche la giustificazione di tutto il suo linguaggio rivoluzionario, e annulla gli esperimenti falliti, denuncia gli errori dell’intelligenza troppo compiaciuta di sé e dell’avventurosa ricerca, stabilisce, nell’opera picassiana troppe volte spinta al di là del limite, quella che è l’accettabile e morale «misura».
Se non avesse dato Guernica, Picasso apparirebbe quale l’Ulisse dantesco, eroe della conoscenza che per la sua sfida agli dei, è travolto nel vortice senza aver raggiunto la suprema verità. Ma Guernica risolve, sul piano dell’umanità e dell’espressione corale, il grande problema dell’arte di oggi, parimenti sollecitata dal mondo della coscienza umana e dalla percezione della vita universale: un’arte che è soprattutto ed essenzialmente espressione, ma che non ama le complicazioni estetizzanti del primo Novecento perché non ha più radici intellettuali, ed individuali, bensì mistiche e sociali. Guernica pittorica e plastica e architettonica, creata con sintesi assoluta di spazi e di volumi, e pur tutta trepida di vita per le vibrazioni sottilissime dei suoi grigi e per le misteriose linee nere che come frecce spinate saettano, nei punti nevralgici, le ampie costruzioni plastiche animandole medianicamente, Guernica è un messaggio di fede che Picasso offre all’artista d’oggi perché con un coraggio ed una libertà pari alla sua, tenti una forma nuova, e vi trasfonda la ricerca severa di un’umanità ricondotta, dal dolore, alla meditazione dell’assoluto, ed ansiosa di ricomporre il lacerato tessuto della civiltà con il potere dell’arte.

FERNANDA WITTGENS
























mercoledì 6 gennaio 2016

Amedeo Modigliani visto da Raffaele Carrieri (1947)



Ce ne sono stati tanti prima: con più genio, con più sapienza, con più resistenza, con più speranza. Ce ne sono stati tanti che sono andati più in là prima e dopo. Ma Modigliani è uno. Modigliani è indivisibile. La sua storia comincia e finisce con lui. E anche la sua pittura. Modigliani è l’unità dell’anima. Era un peccatore rovinoso, di quelli che bruciano e tutto consumano per arrivare al centro dell’anima. Il colore era l’emanazione di questo centro: la sua radice e la sua estasi. Quando s’è voluto teorizzare sulle sue gamme ne è venuto fuori un riassunto da laboratorio. Per raggiungere l’ansietà dei rossi Modigliani ha vissuto sul bruciato. Ha peccato. Ha espiato. Ha peccato ancora. Come Santa Caterina cercava il suo rosso. Era un presentimento e una vocazione. Le donne erano fuoco. La pittura era fuoco. Parigi come Babilonia la capitale del male. La vedeva rossa come i Senesi la città del demonio. E rosse le facce delle donne dai cui occhi l’anima dipartita alitava nell’aria arrossandola. Quando Modigliani consumò l’ultimo rosso morì. Morì all’ospedale a trentasei anni. Come i peccatori che vissero troppo poco gli mancò il tempo di essere assunto in qualità di angelo nella gloria del cielo.

Della Scuola di Parigi non ha la variabilità degli stili né l’intemperanza. Non si affanna dietro i sistemi. Non ha un sistema. Non ha idee da imporre né da servire. Non è come Picasso un panorama. È un isolato come Rouault di cui ha lo stesso amore per le tonalità calde. Ma il suo bruciato non proviene da avventure luministiche. Non è una mano erudita come Dérain.
Prima degli Impressionisti a Parigi ha visto i Veneziani a Venezia. E prima di Cézanne ha visto Giotto e i padri di Giotto a Ravenna. Ha visto la Regina Teodora. Ha visto le Madonne sedute più alte dei troni. Ha visto salire la linea dei musaicisti del sesto secolo e dentro la linea il rosso e l’oro. Ha visto di queste linee l’immobilità, la trascendenza, la maestà delle ripetizioni. Attraverso queste linee ha visto gli Apostoli elevarsi e trasformarsi in essenze geometriche. La curva tendeva a rompere gli slanci. Rappresentava la prostrazione e il peccato. La curva era il Vecchio Testamento.
L’espressione monodica è fondamentale nello stile di Modigliani. Al fondo del suo essere c’è qualcosa di orientale non soltanto per l’origine semitica. La tendenza al simbolo e al motivo, la ripetizione, la forma chiusa e il colore. Quel ritmare e cadenzare. L’eleganza del segno ininterrotto che quasi raggiunge la stilizzazione. Quel caricare la linea e duttilizzarla sino alle curve più melodiose. La stessa insistenza di alcune effusioni. La puntualità dei ritorni e lo stretto numero del suo repertorio ridotto a una tipologia unica e facilmente riconoscibile. La fedeltà alla figura umana elevata a immagine. E questa immagine sempre ardente e piena di grazia che varia e si riproduce nella medesima fissità. La linea è intangibile. La struttura del corpo umano è l’orizzonte sensibile di questo orientale temperato in Toscana.


Nato a Livorno l’84 ultimati gli studi ginnasiali si dà alla pittura. L’inizio è modesto. È allievo di un tardo macchiaiolo, il Micheli. Frequenta l’Accademia di Firenze, e per un periodo più breve quella di Venezia. A Livorno nello studio del Micheli si lega d’amicizia con un giovine pittore, Oscar Ghiglia. Nel 1902 abitano insieme a Firenze in via San Gallo. L’anno prima Modigliani per la salute malferma è consigliato dai medici a trascorrere l’inverno a Capri. Fra i due si stabilisce una corrispondenza.
Alla fine dell’inverno del 1901 scrive da Capri a Ghiglia: « ... Io sono qua a Capri (un luogo delizioso, tra parentesi) a far la cura. E son quattro mesi adesso che non ho concluso niente, che accumulo materiali. Presto andrò a Roma, poi a Venezia per l’Esposizione... faccio l’inglese. Ma verrà anche il momento di sistemarmi a Firenze probabilmente e di lavorare... ma nel buon senso della parola, vale a dire a dedicarmi con fede (testa e corpo) a organizzare e sviluppare tutte le mie impressioni tutti i germi di idee che ho raccolto in questa pace, come in un giardino mistico ». Dall’Hôtel Pagano, dove alloggia, poco tempo dopo passa ad Anacapri alla villa Bitter: « Carissimo Oscar, ancora a Capri. Avrei voluto aspettare a scriverti da Roma: partirò fra due o tre giorni, ma il desiderio di trattenermi un poco con te mi fa pigliare la penna. Credo al tuo cambiamento sotto l’influenza di Firenze. Crederai tu al mio viaggiando in questi posti? Capri, il cui solo nome bastava a risvegliare nella mia mente un tumulto d’immagini di bellezza e di voluttà antica, mi appare adesso come un paese essenzialmente primaverile. Nella bellezza classica del paesaggio è un sentimento - per me - onnipresente e indefinibile di sensualità. E pur sempre (anche malgrado gli inglesi che invadono col Baedeker) un fiore smagliante e venefico che sorga sul mare. Non so ancora precisamente quando sarò a Venezia, del resto te lo farò sapere. Desidererei vederla insieme a te. Micheli? Oh Dio, quanti ce ne sono a Capri, reggimenti ». Alla vigilia di Pasqua scrive da Roma allo stesso: « Caro amico, io scrivo per sfogarmi con te e per affermarmi dinanzi a me stesso.Io stesso sono in preda allo spuntare e al dissolversi di energie fortissime. Io vorrei invece che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza che scorresse con gioia sulla terra. Tu sei ormai quello a cui posso dir tutto: ebbene io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera. Io ho l’orgasmo, ma l’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa ininterrotta dell’intelligenza... Un borghese oggi mi ha detto, mi ha insultato, che io, ossia il mio cervello oziava. Mi ha fatto molto bene. Ci vorrebbe un avvertimento simile tutte le mattine al proprio risveglio: ma essi non ci posson capire e non posson capire la vita... Io attenderò a una nuova opera e dacché io l’ho precisata e formulata mille altre aspirazioni vengono fuori dalla vita quotidiana. Vedi la necessità del metodo e dell’applicazione. Cerco inoltre di formulare con la maggior lucidità la verità sull’arte e sulla vita che ho raccolto sparse nelle bellezze di Roma, e come me ne è balenato anche il collegamento intimo, cercherò di rivelarlo e di ricomporne la costruzione e quasi direi l’architettura metafisica per crearne la mia verità sulla vita, sulla bellezza e sull’arte ». È un ragazzo che scrive, un ragazzo di diciassette anni, un po’ fanatico ma riflessivo. Ancora da Roma a Ghiglia: « Perché scrivere mentre si sente? Sono tutte evoluzioni necessarie attraverso le quali dobbiamo passare e che non hanno importanza altro che per il fine a cui conducono. Credimi, non è che l’opera arrivata ormai al suo completo stadio di gestazione, impersonata e tratta dalla pastoia di tutti i particolari incidenti che hanno contribuito a fecondarla e a produrla che val la pena di essere espressa e tradotta con lo stile. L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto a estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia la via aperta a ciò che non si può né si deve dire. Ogni grande opera d’arte verrebbe considerata come qualunque altra opera della natura. Prima di tutto nella sua realtà estetica e poi al di fuori del suo sviluppo e del mistero della sua creazione, di ciò che ha agitato e commosso il suo creatore... Vorrei parlarti della differenza che corre tra le opere di quegli artisti che hanno più comunicato e vissuto colla natura e quelli di oggigiorno che cercano ispirazione negli studi e vogliono educarsi nelle città d’arte ». Se i critici d’oltralpe avessero conosciuto queste lettere il ritratto di Modigliani sarebbe meno composito.
Ultima lettera da Roma a Oscar Ghiglia: « ... Noi - scusa il noi - abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al disopra - bisogna dirlo e crederlo - della loro morale... Il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno. La bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i più belli sforzi dell’anima. Ogni ostacolo sormontato segna un accrescimento della nostra volontà, produce il rinnovamento necessario e progressivo della nostra aspirazione. Abbi il culto sacro - io lo dico per te e per me - per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza. Cerca di provocarli, di perpetrarli, questi stimoli fecondi, perché soli possono spingere l’intelligenza al suo massimo potere creatore. Per quelli lì noi dobbiamo combattere. Possiamo noi racchiuderli nella cerchia della loro morale angusta? Affermati e sormontati sempre. L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre a abbattere tutto quel che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi ». Trascuriamo il fondo letterario, le letture eccitanti - Zaratustra era di fresca nomina - resterà un carattere nobile, anche se le aspirazioni sono vaghe; spirito coltivato per la sua giovane età, poco più che un fanciullo. A parte queste lettere, ignoriamo le sue prove di studio a Firenze. E anche dopo Firenze, del soggiorno di Modigliani a Venezia non ci è pervenuto nulla: non un segno, non un dipinto. Che i propositi aggressivi siano venuti meno al contatto della realtà?


Nel 1906 Modigliani lascia l’Italia e si stabilisce a Parigi. S’è portato dietro le fotografie dei maestri italiani che predilige. Dei Senesi la Santa Chiara di Simone Martini e Le Marie al Sepolcro di Buccio. Dei Toscani quelli del primo Rinascimento. Dei Veneziani Carpaccio. Di Carpaccio la tricromia delle Due cortigiane, acquistata a Venezia al tempo dell’Accademia e che lo segue attaccata alle pareti ovunque: come il Dante dell’edizione « Diamante ». A Parigi abita a Montmartre indossa abiti di velluto e legge Petrarca. I suoi amici sono Picasso, Kisling, Vlaminck, Salmon, Utrillo. È l’epoca d’oro di Rue Ravignan. Apollinaire impiegato di banca ha scritto le prime poesie di Alcools. Jacob accatasta manoscritti inediti. Matisse ha dipinto l’Autoritratto fauve del Museo di Copenaghen di cui a Montmartre, specie i poeti, fanno un gran parlare. Il doganiere Rousseau ancora ignoto - ma non in Rue Ravignan - fa stampare sui biglietti da visita l’attributo di Artista Pittore. Utrillo è appena tornato da Montmagny dove ha dipinto paesaggi e chiese che non riesce a vendere a trenta franchi il pezzo. Ma il più sorprendente di tutti è Picasso. Dal ’96 al 1901, epoca del suo arrivo, ha rifatto velocemente gli impressionisti. Paesaggi notturni alla Pissarro, acque e macchie alla Monet, ortaggi alla Manet. Ha rifatto Van Gogh. Ha rifatto i maggiori e i minori. Scene di Boulevards alla Steinlen con carrozze cani e lampade ad arco. Interni alla Vuillard pieni di rampicanti. Ristoranti, balli, caffè-concerto, prostitute, bigliardi, tutto il repertorio di Toulouse-Lautrec: Lautrec mescolato a Goya. Nei mendicanti della Parigi 1900 riapparivano i fantasmi mistici di Theotocopuli. E tutto questo straordinariamente vivo, vivace, arrogante, contradditorio. Dal 1902 al ’6 Picasso ha dato fondo alla meravigliosa leggenda degli arlecchini e dei saltimbanchi. Ha dipinto Le Marchand de Gui, Les jeunes Acrobates, Jeune fille à la chevelure, Femme à l’éventail, il ritratto di Gertrude Stein. Le Demoiselles d’Avignon sono dello stesso 1906 epoca dell’arrivo di Modigliani a Parigi. È una tela capitale per la storia dell’arte moderna e preannuncia quello che due anni dopo sarà il cubismo. Modigliani non si estranea da questi fermenti. È troppo sensibile e inquieto per non accorgersi cosa avviene intorno, anche se la sua inquietudine non dipende dalle convinzioni. Comunque il contatto con spiriti forti e attivi, le loro ricerche, l’aria stessa che respira tutto serve a renderlo attento. Riesamina quello che ha visto e comincia a diluire certe sue fisime estetizzanti. Ora vede anche Botticelli con un altro occhio. Ha modificato le letture. Il libro di capezzale è sempre Dante. Nelle giornate buone legge Petrarca agli amici del Sacro Cuore come aveva fatto prima con quelli di Firenze e di Venezia. Ha scoperto Ronsard. E poi Mallarmé, Rimbaud, i parnassiani, i simbolisti; infine Lautréamont di cui sa brani a memoria. È più incline agli abbandoni che alla logica. Impulsivo malinconico tenero è di volta in volta casto e dissoluto. Gli spiriti aerei della poesia trovano in Modigliani un terreno più propizio delle polemiche diurne e notturne coi pittori circa il trattamento della forma, la costruzione, i cubi. Si interessa a quello che fanno; ne stima molti; spesso è battagliero, qualche volta sarcastico. Lui così mite e delicato può essere anche furioso. E non solo quando beve, e beve gagliardo. Lavora poco e quel poco lo distrugge. Sarcastico con gli altri non è certo clemente con se stesso. Quello a cui aspira è diverso da ciò che si dipinge in Rue Ravignan e dintorni. Il colore dei fauves così com’esce dal tubetto e incollato alla tela non è affar suo. E neanche le strutture dei cubisti. Non si tratta di impianto o d’esecuzione: è il suo ideale che è diverso. È la mancanza di adattamento alle formule, la mancanza di talento promiscuo. Umano, troppo umano? Sarà il suo limite. Ma non bisogna avere fretta. È una maturazione piuttosto lenta e faticosa. Attendiamo e vedremo come in questo limite Modigliani si brucerà.
In un periodo in cui tutti operano calcoli e vanno oltre le tre dimensioni in cui il paesaggio è avvitato e la natura morta agli albori di una rivoluzione, Modigliani non dipinge né un paesaggio né uno, natura morta. Le schegge di Mediterraneo che Matisse di ritorno dalla riviera sottopone agli amici nel Convento degli Uccelli, Rue de Sèvres, lo incantano. Ma tutto quel cobalto gli ricorda Rimbaud. Non problemi pittorici dunque, ma allusioni poetiche. La corrispondenza di Modigliani dal ’6 al ’9, le poche lettere che ci sono pervenute sono ricche di citazioni: Rimbaud e Baudelaire i nomi più frequenti. Dei pittori ne ammira due, Picasso e il Doganiere. Di Picasso usufruisce le modelle. Ma mentre Picasso lavora duro Modigliani si distrae. È bello come Davide. Gli amici per la sua eleganza lo chiamano « il principe ». Eleganza d’anima ha questo principe di Gerusalemme che anche stracciato e affamato sembra uscire dal Cantico dei Cantici. Le donne l’adorano. Sono le parigine che ha dipinto trent’anni prima Lautrec davanti allo zinco dei bistrò: le stesse dei racconti di George Moore. Una Bisanzio floreale per il giovane Davide che tiene in onore fa Regina Teodora. I pochi disegni che conosciamo di questo periodo sono di scarso interesse. Modigliani pregusta tra le modelle che un giorno diventeranno quadri quello che sarà il suo inferno. Nell’amore mescola troppe cose e cerca la melodia nella linea.


Bisogna attendere la partecipazione di Modigliani al Salone degli Indipendenti del 1910 per trovare nel Violoncellista un sicuro punto di partenza. L’influenza di Cézanne non è sottolineata come nella tela del Mendicante di Livorno - l’unica dipinta da Modigliani nel breve soggiorno in Italia durante il 1909. Nel Violoncellista lo spazio è meno suscettibile di divisioni plastiche e i valori costruttivi appaiono di uno docilità atta più a ricevere la vibrazione dei toni che a far spicco e peso di per se stessi. Vi troviamo esplicati il principio del suo colore e della sua linea. Ci sono le sue gamme e le sue terre; e velature come rugiade. Terra d’ombra pei contorni e terra verde per le ombre. E i rossi: il rosso cupo, il rosso fluido e profondo che traspare sotto i bruni; il bruno Van Dyck, il verde smeraldo, il nero e la terra di Siena. L’accenno alle lacche come il principio di un canto appena affiorato. E intorno alla figura l’aria incantata, quei sussurri di rosso sul verde replicati come in una eco. L’angolo acuto è sensibile a ulteriori impieghi e azzardi; ma quella che sarà la sua impostazione successiva il Violoncellista l’annunzio e la conferma.
L’incontro di Modigliani con l’arte negra è avvenuto l’anno prima della partecipazione al Salone degli Indipendenti. Picasso e Matisse sono stati gli iniziatori e ognuno ne ha fatto l’esperienza del resto affascinante, e per diversi aspetti istruttiva. Modigliani ha scolpito quattro o cinque teste: ovuli chiusi in una plastica limpida a due dimensioni. L’attività di Modigliani scultore va intesa come esperienza stilistica, infatti la sua pittura ne ha tratto giovamento e le cariatidi dipinte nello stesso periodo ce lo confermano. È una reazione al languore che ogni tanto interviene nella sua concisa grafia. Esempio tipico il Nudo doloroso (1908) dove insieme a residui di origine letteraria si avvertono riflessi di Klimt e di Secessione. Dal primo cartone delle cariatidi la reazione è manifesta: la grafia cessa di essere la scrittura elegante di un disegno fine a se stesso. La linea oscillante è decisamente trasformata in curva e la curva in sagoma. Gli ovuli dello scultore riappaiono agganciati in una materia più sensibile. L’astrazione è meno condensata anche se si procede per riassunti ed eliminazioni. La sagoma è il limite entro il quale la costruzione si sviluppa e si suggella: la sua principale funzione è di contenere gli sviluppi che va prendendo la forma costretta in uno spazio ridotto. Ma anche l’espressione strutturale più tesa non raggiunge l’impiego che ne fanno i cubisti. Entro la sagoma Modigliani va introducendo profili appena percettibili, curve che appaiono e svaniscono come filamenti di musica. Elimina dai pesi l’ombra e le costruzioni diventano trasparenti nella flessione. Il contorno è netto; nelle cariatidi dipinte nel 1913 la forma è sottolineata da puntini come d’imbastitura. Ma è la fine dell’astrazione e la cariatide va maggiormente precisando la sua origine umana. Nelle sagome di terra rossa si possono leggere lineamenti friabili e occhi. Sta per nascere Venere. La venere di una nuova mitologia. Un essere trasparente e malinconico, una forma precisa e larvale.

La Pianista: il titolo è Madame H. devant le Piano. Credo si tratti di Beatrice Hasting la poetessa inglese che Modigliani conobbe a Parigi nel 1914, la Beatrice del papier collé datato 1915. Sulla cronaca degli spettacoli il profilo di Beatrice. La fronte sotto il colbacco forma una linea col naso e la bocca, una perpendicolare su cui poggia un grande occhio socchiuso. L’incontro con Beatrice Hasting ha diverse influenze: la vita randagia di Modigliani trova nella poetessa una compagna fanatica: è una delle maggiori consumatrici d’oppio del quartiere. Ma è anche una modella eccezionale. Con Beatrice Modigliani semplifica e porta all’estrema purezza il suo disegno. Il chiaroscuro diventa blando sino ad estinguersi nei fogli posteriori. Il contorno è il segno percettibile di una vibrazione che può cessare o continuare. Qualcuno cita Rodin: ma Modigliani non ha preoccupazioni anatomiche e il suo disegno è limpido ma statico: l’immagine epurata da ogni pregiudizio chiaroscurale e descrittivo. Quando si parla di evocazione spesso si fraintende. Modigliani evoca con un rapporto continuo tra linea e forma. Mancano i numeri intermedi che hanno contribuito al risultato. Ma dove trovare questi numeri se non nel progressivo sviluppo dei suoi fogli? Dai ritratti a matita di Moder Branteska ai profili di Beatrice Hasting c’è un sommario di eliminazioni. I nudi che disegna con Beatrice sono appena mormorati. Eliminati gli spessori dell’intera orchestra negro è rimasto un flauto. E di questo flauto una sola nota, la tenera. Tra i molti dipinti e disegni ispirati da Beatrice nel giro di tre anni quello che più ricorda la Pianista è Tête de femme au chapeau: potrebb’essere uno studio preliminare. Il volto di Beatrice generalmente allungato qui è sferico e i lineamenti si identificano col ritratto successivo. Il disegno tradotto nel dipinto si elettrizza: un rapido fuoco l’attraversa. La pennellata è veloce e affastella: si sente il crostone degli Impressionisti maciullato dalla spatola. Il cappello è verde come la rana. E la faccia rossa come la crosta della luna. All’altezza delle spalle, un poco più in basso, la tastiera del pianoforte col suo mosso e scintillante paesaggio. L’aria è pregna di musica. La Regina Teodora nell’ultima incarnazione? Antonio Mancini e Ravenna.
I ritratti di Beatrice Hasting si susseguono: acquerelli, olio e matita grassa, guazzi; ma il colore, qualunque sia la tecnica, torna ad essere trasparente. Tornano gli impasti sulla scala dei verdi e dei bruni, i profili incastrati sotto le fronti che vengono in avanti, gli ovali degli occhi nell’ovale più grande del volto, la bocca prominente come una mandorla chiusa. E il collo alto che continua la linea del mento. L’ultimo ritratto di Beatrice Hasting ha la data del ’16. Dello stesso anno sono quelli di Deleu e di Lepoutre, il secondo ritratto di Paul Guillaume: una costruzione di angoli che si intercettano con piani in successione. Modigliani vi ha impiegato una massa di neri di difficile manovra: il rosa il verde il grigio non rallentano la solidità dei neri e creano accordi intermedi usufruendo degli angoli su cui poggiano. Attraverso questi angoli e questi piani la flessione curvilinea determina la composizione. Ma non per ragioni strettamente costruttive come in Cézanne. A tale proposito Lionello Venturi in una breve nota chiarisce la posizione del nostro: « Se si guarda a Modigliani e all’arte che lo ha immediatamente preceduto, egli è impensabile senza l’impressionismo ed è essenzialmente fuori dell’impressionismo. Inoltre lo sviluppo della sua linea sembra riporti sul piano molti elementi creati per la profondità, e quindi egli consideri come scopo dell’arte il valore decorativo. E poi ci si accorge che non è affatto così, e che le sue linee non si sviluppano mai sopra un medesimo piano, e realizzano in un’apparenza di superficie una visione a tre dimensioni. Se cioè si assume in Cézanne il simbolo della visione costruttiva in profondità, e in Monet il simbolo della visione decorativa in superficie, si sente che Modigliani è lontano dall’uno e dall’altro, e ch’egli parla un diverso linguaggio... Il sentimento della linea ideale ha preceduto l’esecuzione della linea materiale... ». Codesto sentimento è rintracciabile sin dalle prime opere. Ma in gradi diversi sì evolve nella medesima direzione anche quando sembra sviata e sopraffatta da altre esigenze. Nei momenti di minore impegno diventa maniera e si esaurisce in una elegante metafora. L’impianto invece resta immutato. Una parete di fondo. Una parete dall’intonaco delicato capace di armonizzare le più lievi congiunzioni. Su questo schermo sensibile Modigliani muove le verticali stabilendo un ordine di cadenza e le fa coincidere secondo la disposizione ritmica delle figure. A volte la parete finisce in angolo acuto, altre volte è scanalata da linee o suddivisa in riquadri. Come nelle iconi bizantine, specie in alcuni ritratti (vedi il Kisling della raccolta Jesi) compone caratteri nello stile lapidario. Ma è un gioco e non si ripete spesso. Se lo sfondo non è una parete sarà una porta. Una porta chiusa. È forse quella del paradiso? Un capolavoro lo conferma: Ragazzo dalla giubba blu. Chi vi si appoggia si inazzurra, si allunga e diventa straordinariamente trasparente come se le evaporazioni del rosa dei rossi e del turchino combinati in una miscela fatata cancellassero la parte pesante e terrestre che è in ognuno. L’operazione raggiunge particolare intensità quando davanti a una di queste porte sta in piedi o seduta la patetica Madame Hebuterne, l’ultima compagna di Modigliani. L’allungamento si produce con un ritmo parallelo e crescente come in una fuga: i lineamenti attraversano l’ovulo da parte a parte. Le ciglia si inarcano in un disegno appena percettibile e gli occhi sono a fior di pelle; alta è la fronte e altissimi i capelli che compongono una fumata.
Le linee salgono dalle curve in una superficie che le riflette di spazio in spazio, in quella profondità modulata dove i profili labili si imprimono. Il concerto delle tonalità raggiunge angelici abbandoni. Il colore trasmette la sua febbre e i suoi balsami. Tutto è vivo e ardente: porte e piastrelle, i muri, l’intonaco, il mobile d’angolo con la scodella in ombra. Chi siede trasmette la febbre alle sedie. Non importa se è il ragazzo del portinaio Cocteau o la signora Cekowska. Non importa se è un nudo che prende fuoco. È la prima o l’ultima giornata dell’Apocalisse? Nell’Autoritratto del 1919 è seduto anche lui, Modigliani, e ci mostra la tavolozza come Veronica il fazzoletto con l’impronta di Cristo. Modigliani sembra dall’altra parte distante e socchiuso. Non ha più niente da bruciare. Modigliani è all’ultima stazione della sua arte e della sua vita.
Dal 1916 al 1919 dipinge le sue maggiori opere. È ansioso di trasmettere l’ultimo messaggio, la trasfigurazione che va compiendo in quel mistero figurato che è la sua pittura. Nel disegno della Donna seduta ha trascritto: « La vita è un dono: dei pochi ai molti, di coloro che sanno e hanno a coloro che non sanno e che non hanno ». Negli ultimi anni questo dono aumenta di grazia di intensità e di numero. Le immagini sono le stesse: le stesse donne sulle stesse sedie. E questi occhi aperti che continuano a guardarci senza vederci. E queste bocche che sembrano appartenere tutte alla medesima faccia. Fioraie e lattaie, giovani fantesche, la prostituta, la cioccolattaia. Gli amici e le mogli degli amici. Ha dipinto uno dopo l’altro Kisling, Jacob, il messicano Rivera, Cocteau, Baranowski. Ha dipinto Soutine col volto di santo martire rappezzato. Ha dipinto il fedele Zborowski. E quelli che non ha potuto dipingere li ha disegnati nei caffè di Montparnasse: Cendrars, Friesz, Lipchitz, Zadkine, Fabiano De Castro, Paresce. E tanti Zborowski in sogno. Fra le nuove immagini ci sono le bellissime di Madame Hebuterne dipinte tra il ’17 e il ’18: Gli occhi blu, Donna di profilo, La Moglie dell’Artista. Della stessa epoca sono i ritratti della Cekowska (l’ultimo, in una raccolta privata a Milano, è del ’19) e della signora Menier (raccolta Cardazzo), della signora Zborowski replicata più volte. Dal ’17 al ’18 Modigliani inizia e porta a compimento la serie dei Nudi: se la composizione è orizzontale le curve saranno ampie e distese e la linea sarà chiusa da angoli. La funzione dei suoi Nudi sembra che non abbia altro scopo al di là di questa solenne distensione e accensione. Il Nudo coricato della raccolta Feroldi rappresenta la massima temperatura nella sua gamma di rossi. Il presentimento della fine lo rende apprensivo e fanatico ma anche pieno di misericordia. Perdona a sé e perdona agli altri. Ma basta un solo bicchiere per ubriacarlo. Quante volte Zborowski non l’ha raccolto all’alba sui marciapiedi del Boulevard Raspail? Da Salmon a Carco c’è tutta una letteratura dedicata alle notti di Modigliani, ai suoi eccessi, alla sua miseria, alla sua fine nell’Ospedale della Carità. «ITALIA, CARA ITALIA!» furono le parole che disse prima di morire.
Il giorno dopo la sua morte il suicidio di Madame Hebuterne non commosse soltanto gli artisti di Montparnasse ma tutta Parigi: Amedeo Modigliani, il peccatore che non poté diventare angelo fu assunto in gloria dagli uomini.
RAFFAELE CARRIERI