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mercoledì 6 gennaio 2016

Amedeo Modigliani visto da Raffaele Carrieri (1947)



Ce ne sono stati tanti prima: con più genio, con più sapienza, con più resistenza, con più speranza. Ce ne sono stati tanti che sono andati più in là prima e dopo. Ma Modigliani è uno. Modigliani è indivisibile. La sua storia comincia e finisce con lui. E anche la sua pittura. Modigliani è l’unità dell’anima. Era un peccatore rovinoso, di quelli che bruciano e tutto consumano per arrivare al centro dell’anima. Il colore era l’emanazione di questo centro: la sua radice e la sua estasi. Quando s’è voluto teorizzare sulle sue gamme ne è venuto fuori un riassunto da laboratorio. Per raggiungere l’ansietà dei rossi Modigliani ha vissuto sul bruciato. Ha peccato. Ha espiato. Ha peccato ancora. Come Santa Caterina cercava il suo rosso. Era un presentimento e una vocazione. Le donne erano fuoco. La pittura era fuoco. Parigi come Babilonia la capitale del male. La vedeva rossa come i Senesi la città del demonio. E rosse le facce delle donne dai cui occhi l’anima dipartita alitava nell’aria arrossandola. Quando Modigliani consumò l’ultimo rosso morì. Morì all’ospedale a trentasei anni. Come i peccatori che vissero troppo poco gli mancò il tempo di essere assunto in qualità di angelo nella gloria del cielo.

Della Scuola di Parigi non ha la variabilità degli stili né l’intemperanza. Non si affanna dietro i sistemi. Non ha un sistema. Non ha idee da imporre né da servire. Non è come Picasso un panorama. È un isolato come Rouault di cui ha lo stesso amore per le tonalità calde. Ma il suo bruciato non proviene da avventure luministiche. Non è una mano erudita come Dérain.
Prima degli Impressionisti a Parigi ha visto i Veneziani a Venezia. E prima di Cézanne ha visto Giotto e i padri di Giotto a Ravenna. Ha visto la Regina Teodora. Ha visto le Madonne sedute più alte dei troni. Ha visto salire la linea dei musaicisti del sesto secolo e dentro la linea il rosso e l’oro. Ha visto di queste linee l’immobilità, la trascendenza, la maestà delle ripetizioni. Attraverso queste linee ha visto gli Apostoli elevarsi e trasformarsi in essenze geometriche. La curva tendeva a rompere gli slanci. Rappresentava la prostrazione e il peccato. La curva era il Vecchio Testamento.
L’espressione monodica è fondamentale nello stile di Modigliani. Al fondo del suo essere c’è qualcosa di orientale non soltanto per l’origine semitica. La tendenza al simbolo e al motivo, la ripetizione, la forma chiusa e il colore. Quel ritmare e cadenzare. L’eleganza del segno ininterrotto che quasi raggiunge la stilizzazione. Quel caricare la linea e duttilizzarla sino alle curve più melodiose. La stessa insistenza di alcune effusioni. La puntualità dei ritorni e lo stretto numero del suo repertorio ridotto a una tipologia unica e facilmente riconoscibile. La fedeltà alla figura umana elevata a immagine. E questa immagine sempre ardente e piena di grazia che varia e si riproduce nella medesima fissità. La linea è intangibile. La struttura del corpo umano è l’orizzonte sensibile di questo orientale temperato in Toscana.


Nato a Livorno l’84 ultimati gli studi ginnasiali si dà alla pittura. L’inizio è modesto. È allievo di un tardo macchiaiolo, il Micheli. Frequenta l’Accademia di Firenze, e per un periodo più breve quella di Venezia. A Livorno nello studio del Micheli si lega d’amicizia con un giovine pittore, Oscar Ghiglia. Nel 1902 abitano insieme a Firenze in via San Gallo. L’anno prima Modigliani per la salute malferma è consigliato dai medici a trascorrere l’inverno a Capri. Fra i due si stabilisce una corrispondenza.
Alla fine dell’inverno del 1901 scrive da Capri a Ghiglia: « ... Io sono qua a Capri (un luogo delizioso, tra parentesi) a far la cura. E son quattro mesi adesso che non ho concluso niente, che accumulo materiali. Presto andrò a Roma, poi a Venezia per l’Esposizione... faccio l’inglese. Ma verrà anche il momento di sistemarmi a Firenze probabilmente e di lavorare... ma nel buon senso della parola, vale a dire a dedicarmi con fede (testa e corpo) a organizzare e sviluppare tutte le mie impressioni tutti i germi di idee che ho raccolto in questa pace, come in un giardino mistico ». Dall’Hôtel Pagano, dove alloggia, poco tempo dopo passa ad Anacapri alla villa Bitter: « Carissimo Oscar, ancora a Capri. Avrei voluto aspettare a scriverti da Roma: partirò fra due o tre giorni, ma il desiderio di trattenermi un poco con te mi fa pigliare la penna. Credo al tuo cambiamento sotto l’influenza di Firenze. Crederai tu al mio viaggiando in questi posti? Capri, il cui solo nome bastava a risvegliare nella mia mente un tumulto d’immagini di bellezza e di voluttà antica, mi appare adesso come un paese essenzialmente primaverile. Nella bellezza classica del paesaggio è un sentimento - per me - onnipresente e indefinibile di sensualità. E pur sempre (anche malgrado gli inglesi che invadono col Baedeker) un fiore smagliante e venefico che sorga sul mare. Non so ancora precisamente quando sarò a Venezia, del resto te lo farò sapere. Desidererei vederla insieme a te. Micheli? Oh Dio, quanti ce ne sono a Capri, reggimenti ». Alla vigilia di Pasqua scrive da Roma allo stesso: « Caro amico, io scrivo per sfogarmi con te e per affermarmi dinanzi a me stesso.Io stesso sono in preda allo spuntare e al dissolversi di energie fortissime. Io vorrei invece che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza che scorresse con gioia sulla terra. Tu sei ormai quello a cui posso dir tutto: ebbene io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera. Io ho l’orgasmo, ma l’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa ininterrotta dell’intelligenza... Un borghese oggi mi ha detto, mi ha insultato, che io, ossia il mio cervello oziava. Mi ha fatto molto bene. Ci vorrebbe un avvertimento simile tutte le mattine al proprio risveglio: ma essi non ci posson capire e non posson capire la vita... Io attenderò a una nuova opera e dacché io l’ho precisata e formulata mille altre aspirazioni vengono fuori dalla vita quotidiana. Vedi la necessità del metodo e dell’applicazione. Cerco inoltre di formulare con la maggior lucidità la verità sull’arte e sulla vita che ho raccolto sparse nelle bellezze di Roma, e come me ne è balenato anche il collegamento intimo, cercherò di rivelarlo e di ricomporne la costruzione e quasi direi l’architettura metafisica per crearne la mia verità sulla vita, sulla bellezza e sull’arte ». È un ragazzo che scrive, un ragazzo di diciassette anni, un po’ fanatico ma riflessivo. Ancora da Roma a Ghiglia: « Perché scrivere mentre si sente? Sono tutte evoluzioni necessarie attraverso le quali dobbiamo passare e che non hanno importanza altro che per il fine a cui conducono. Credimi, non è che l’opera arrivata ormai al suo completo stadio di gestazione, impersonata e tratta dalla pastoia di tutti i particolari incidenti che hanno contribuito a fecondarla e a produrla che val la pena di essere espressa e tradotta con lo stile. L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto a estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia la via aperta a ciò che non si può né si deve dire. Ogni grande opera d’arte verrebbe considerata come qualunque altra opera della natura. Prima di tutto nella sua realtà estetica e poi al di fuori del suo sviluppo e del mistero della sua creazione, di ciò che ha agitato e commosso il suo creatore... Vorrei parlarti della differenza che corre tra le opere di quegli artisti che hanno più comunicato e vissuto colla natura e quelli di oggigiorno che cercano ispirazione negli studi e vogliono educarsi nelle città d’arte ». Se i critici d’oltralpe avessero conosciuto queste lettere il ritratto di Modigliani sarebbe meno composito.
Ultima lettera da Roma a Oscar Ghiglia: « ... Noi - scusa il noi - abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al disopra - bisogna dirlo e crederlo - della loro morale... Il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno. La bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i più belli sforzi dell’anima. Ogni ostacolo sormontato segna un accrescimento della nostra volontà, produce il rinnovamento necessario e progressivo della nostra aspirazione. Abbi il culto sacro - io lo dico per te e per me - per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza. Cerca di provocarli, di perpetrarli, questi stimoli fecondi, perché soli possono spingere l’intelligenza al suo massimo potere creatore. Per quelli lì noi dobbiamo combattere. Possiamo noi racchiuderli nella cerchia della loro morale angusta? Affermati e sormontati sempre. L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre a abbattere tutto quel che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi ». Trascuriamo il fondo letterario, le letture eccitanti - Zaratustra era di fresca nomina - resterà un carattere nobile, anche se le aspirazioni sono vaghe; spirito coltivato per la sua giovane età, poco più che un fanciullo. A parte queste lettere, ignoriamo le sue prove di studio a Firenze. E anche dopo Firenze, del soggiorno di Modigliani a Venezia non ci è pervenuto nulla: non un segno, non un dipinto. Che i propositi aggressivi siano venuti meno al contatto della realtà?


Nel 1906 Modigliani lascia l’Italia e si stabilisce a Parigi. S’è portato dietro le fotografie dei maestri italiani che predilige. Dei Senesi la Santa Chiara di Simone Martini e Le Marie al Sepolcro di Buccio. Dei Toscani quelli del primo Rinascimento. Dei Veneziani Carpaccio. Di Carpaccio la tricromia delle Due cortigiane, acquistata a Venezia al tempo dell’Accademia e che lo segue attaccata alle pareti ovunque: come il Dante dell’edizione « Diamante ». A Parigi abita a Montmartre indossa abiti di velluto e legge Petrarca. I suoi amici sono Picasso, Kisling, Vlaminck, Salmon, Utrillo. È l’epoca d’oro di Rue Ravignan. Apollinaire impiegato di banca ha scritto le prime poesie di Alcools. Jacob accatasta manoscritti inediti. Matisse ha dipinto l’Autoritratto fauve del Museo di Copenaghen di cui a Montmartre, specie i poeti, fanno un gran parlare. Il doganiere Rousseau ancora ignoto - ma non in Rue Ravignan - fa stampare sui biglietti da visita l’attributo di Artista Pittore. Utrillo è appena tornato da Montmagny dove ha dipinto paesaggi e chiese che non riesce a vendere a trenta franchi il pezzo. Ma il più sorprendente di tutti è Picasso. Dal ’96 al 1901, epoca del suo arrivo, ha rifatto velocemente gli impressionisti. Paesaggi notturni alla Pissarro, acque e macchie alla Monet, ortaggi alla Manet. Ha rifatto Van Gogh. Ha rifatto i maggiori e i minori. Scene di Boulevards alla Steinlen con carrozze cani e lampade ad arco. Interni alla Vuillard pieni di rampicanti. Ristoranti, balli, caffè-concerto, prostitute, bigliardi, tutto il repertorio di Toulouse-Lautrec: Lautrec mescolato a Goya. Nei mendicanti della Parigi 1900 riapparivano i fantasmi mistici di Theotocopuli. E tutto questo straordinariamente vivo, vivace, arrogante, contradditorio. Dal 1902 al ’6 Picasso ha dato fondo alla meravigliosa leggenda degli arlecchini e dei saltimbanchi. Ha dipinto Le Marchand de Gui, Les jeunes Acrobates, Jeune fille à la chevelure, Femme à l’éventail, il ritratto di Gertrude Stein. Le Demoiselles d’Avignon sono dello stesso 1906 epoca dell’arrivo di Modigliani a Parigi. È una tela capitale per la storia dell’arte moderna e preannuncia quello che due anni dopo sarà il cubismo. Modigliani non si estranea da questi fermenti. È troppo sensibile e inquieto per non accorgersi cosa avviene intorno, anche se la sua inquietudine non dipende dalle convinzioni. Comunque il contatto con spiriti forti e attivi, le loro ricerche, l’aria stessa che respira tutto serve a renderlo attento. Riesamina quello che ha visto e comincia a diluire certe sue fisime estetizzanti. Ora vede anche Botticelli con un altro occhio. Ha modificato le letture. Il libro di capezzale è sempre Dante. Nelle giornate buone legge Petrarca agli amici del Sacro Cuore come aveva fatto prima con quelli di Firenze e di Venezia. Ha scoperto Ronsard. E poi Mallarmé, Rimbaud, i parnassiani, i simbolisti; infine Lautréamont di cui sa brani a memoria. È più incline agli abbandoni che alla logica. Impulsivo malinconico tenero è di volta in volta casto e dissoluto. Gli spiriti aerei della poesia trovano in Modigliani un terreno più propizio delle polemiche diurne e notturne coi pittori circa il trattamento della forma, la costruzione, i cubi. Si interessa a quello che fanno; ne stima molti; spesso è battagliero, qualche volta sarcastico. Lui così mite e delicato può essere anche furioso. E non solo quando beve, e beve gagliardo. Lavora poco e quel poco lo distrugge. Sarcastico con gli altri non è certo clemente con se stesso. Quello a cui aspira è diverso da ciò che si dipinge in Rue Ravignan e dintorni. Il colore dei fauves così com’esce dal tubetto e incollato alla tela non è affar suo. E neanche le strutture dei cubisti. Non si tratta di impianto o d’esecuzione: è il suo ideale che è diverso. È la mancanza di adattamento alle formule, la mancanza di talento promiscuo. Umano, troppo umano? Sarà il suo limite. Ma non bisogna avere fretta. È una maturazione piuttosto lenta e faticosa. Attendiamo e vedremo come in questo limite Modigliani si brucerà.
In un periodo in cui tutti operano calcoli e vanno oltre le tre dimensioni in cui il paesaggio è avvitato e la natura morta agli albori di una rivoluzione, Modigliani non dipinge né un paesaggio né uno, natura morta. Le schegge di Mediterraneo che Matisse di ritorno dalla riviera sottopone agli amici nel Convento degli Uccelli, Rue de Sèvres, lo incantano. Ma tutto quel cobalto gli ricorda Rimbaud. Non problemi pittorici dunque, ma allusioni poetiche. La corrispondenza di Modigliani dal ’6 al ’9, le poche lettere che ci sono pervenute sono ricche di citazioni: Rimbaud e Baudelaire i nomi più frequenti. Dei pittori ne ammira due, Picasso e il Doganiere. Di Picasso usufruisce le modelle. Ma mentre Picasso lavora duro Modigliani si distrae. È bello come Davide. Gli amici per la sua eleganza lo chiamano « il principe ». Eleganza d’anima ha questo principe di Gerusalemme che anche stracciato e affamato sembra uscire dal Cantico dei Cantici. Le donne l’adorano. Sono le parigine che ha dipinto trent’anni prima Lautrec davanti allo zinco dei bistrò: le stesse dei racconti di George Moore. Una Bisanzio floreale per il giovane Davide che tiene in onore fa Regina Teodora. I pochi disegni che conosciamo di questo periodo sono di scarso interesse. Modigliani pregusta tra le modelle che un giorno diventeranno quadri quello che sarà il suo inferno. Nell’amore mescola troppe cose e cerca la melodia nella linea.


Bisogna attendere la partecipazione di Modigliani al Salone degli Indipendenti del 1910 per trovare nel Violoncellista un sicuro punto di partenza. L’influenza di Cézanne non è sottolineata come nella tela del Mendicante di Livorno - l’unica dipinta da Modigliani nel breve soggiorno in Italia durante il 1909. Nel Violoncellista lo spazio è meno suscettibile di divisioni plastiche e i valori costruttivi appaiono di uno docilità atta più a ricevere la vibrazione dei toni che a far spicco e peso di per se stessi. Vi troviamo esplicati il principio del suo colore e della sua linea. Ci sono le sue gamme e le sue terre; e velature come rugiade. Terra d’ombra pei contorni e terra verde per le ombre. E i rossi: il rosso cupo, il rosso fluido e profondo che traspare sotto i bruni; il bruno Van Dyck, il verde smeraldo, il nero e la terra di Siena. L’accenno alle lacche come il principio di un canto appena affiorato. E intorno alla figura l’aria incantata, quei sussurri di rosso sul verde replicati come in una eco. L’angolo acuto è sensibile a ulteriori impieghi e azzardi; ma quella che sarà la sua impostazione successiva il Violoncellista l’annunzio e la conferma.
L’incontro di Modigliani con l’arte negra è avvenuto l’anno prima della partecipazione al Salone degli Indipendenti. Picasso e Matisse sono stati gli iniziatori e ognuno ne ha fatto l’esperienza del resto affascinante, e per diversi aspetti istruttiva. Modigliani ha scolpito quattro o cinque teste: ovuli chiusi in una plastica limpida a due dimensioni. L’attività di Modigliani scultore va intesa come esperienza stilistica, infatti la sua pittura ne ha tratto giovamento e le cariatidi dipinte nello stesso periodo ce lo confermano. È una reazione al languore che ogni tanto interviene nella sua concisa grafia. Esempio tipico il Nudo doloroso (1908) dove insieme a residui di origine letteraria si avvertono riflessi di Klimt e di Secessione. Dal primo cartone delle cariatidi la reazione è manifesta: la grafia cessa di essere la scrittura elegante di un disegno fine a se stesso. La linea oscillante è decisamente trasformata in curva e la curva in sagoma. Gli ovuli dello scultore riappaiono agganciati in una materia più sensibile. L’astrazione è meno condensata anche se si procede per riassunti ed eliminazioni. La sagoma è il limite entro il quale la costruzione si sviluppa e si suggella: la sua principale funzione è di contenere gli sviluppi che va prendendo la forma costretta in uno spazio ridotto. Ma anche l’espressione strutturale più tesa non raggiunge l’impiego che ne fanno i cubisti. Entro la sagoma Modigliani va introducendo profili appena percettibili, curve che appaiono e svaniscono come filamenti di musica. Elimina dai pesi l’ombra e le costruzioni diventano trasparenti nella flessione. Il contorno è netto; nelle cariatidi dipinte nel 1913 la forma è sottolineata da puntini come d’imbastitura. Ma è la fine dell’astrazione e la cariatide va maggiormente precisando la sua origine umana. Nelle sagome di terra rossa si possono leggere lineamenti friabili e occhi. Sta per nascere Venere. La venere di una nuova mitologia. Un essere trasparente e malinconico, una forma precisa e larvale.

La Pianista: il titolo è Madame H. devant le Piano. Credo si tratti di Beatrice Hasting la poetessa inglese che Modigliani conobbe a Parigi nel 1914, la Beatrice del papier collé datato 1915. Sulla cronaca degli spettacoli il profilo di Beatrice. La fronte sotto il colbacco forma una linea col naso e la bocca, una perpendicolare su cui poggia un grande occhio socchiuso. L’incontro con Beatrice Hasting ha diverse influenze: la vita randagia di Modigliani trova nella poetessa una compagna fanatica: è una delle maggiori consumatrici d’oppio del quartiere. Ma è anche una modella eccezionale. Con Beatrice Modigliani semplifica e porta all’estrema purezza il suo disegno. Il chiaroscuro diventa blando sino ad estinguersi nei fogli posteriori. Il contorno è il segno percettibile di una vibrazione che può cessare o continuare. Qualcuno cita Rodin: ma Modigliani non ha preoccupazioni anatomiche e il suo disegno è limpido ma statico: l’immagine epurata da ogni pregiudizio chiaroscurale e descrittivo. Quando si parla di evocazione spesso si fraintende. Modigliani evoca con un rapporto continuo tra linea e forma. Mancano i numeri intermedi che hanno contribuito al risultato. Ma dove trovare questi numeri se non nel progressivo sviluppo dei suoi fogli? Dai ritratti a matita di Moder Branteska ai profili di Beatrice Hasting c’è un sommario di eliminazioni. I nudi che disegna con Beatrice sono appena mormorati. Eliminati gli spessori dell’intera orchestra negro è rimasto un flauto. E di questo flauto una sola nota, la tenera. Tra i molti dipinti e disegni ispirati da Beatrice nel giro di tre anni quello che più ricorda la Pianista è Tête de femme au chapeau: potrebb’essere uno studio preliminare. Il volto di Beatrice generalmente allungato qui è sferico e i lineamenti si identificano col ritratto successivo. Il disegno tradotto nel dipinto si elettrizza: un rapido fuoco l’attraversa. La pennellata è veloce e affastella: si sente il crostone degli Impressionisti maciullato dalla spatola. Il cappello è verde come la rana. E la faccia rossa come la crosta della luna. All’altezza delle spalle, un poco più in basso, la tastiera del pianoforte col suo mosso e scintillante paesaggio. L’aria è pregna di musica. La Regina Teodora nell’ultima incarnazione? Antonio Mancini e Ravenna.
I ritratti di Beatrice Hasting si susseguono: acquerelli, olio e matita grassa, guazzi; ma il colore, qualunque sia la tecnica, torna ad essere trasparente. Tornano gli impasti sulla scala dei verdi e dei bruni, i profili incastrati sotto le fronti che vengono in avanti, gli ovali degli occhi nell’ovale più grande del volto, la bocca prominente come una mandorla chiusa. E il collo alto che continua la linea del mento. L’ultimo ritratto di Beatrice Hasting ha la data del ’16. Dello stesso anno sono quelli di Deleu e di Lepoutre, il secondo ritratto di Paul Guillaume: una costruzione di angoli che si intercettano con piani in successione. Modigliani vi ha impiegato una massa di neri di difficile manovra: il rosa il verde il grigio non rallentano la solidità dei neri e creano accordi intermedi usufruendo degli angoli su cui poggiano. Attraverso questi angoli e questi piani la flessione curvilinea determina la composizione. Ma non per ragioni strettamente costruttive come in Cézanne. A tale proposito Lionello Venturi in una breve nota chiarisce la posizione del nostro: « Se si guarda a Modigliani e all’arte che lo ha immediatamente preceduto, egli è impensabile senza l’impressionismo ed è essenzialmente fuori dell’impressionismo. Inoltre lo sviluppo della sua linea sembra riporti sul piano molti elementi creati per la profondità, e quindi egli consideri come scopo dell’arte il valore decorativo. E poi ci si accorge che non è affatto così, e che le sue linee non si sviluppano mai sopra un medesimo piano, e realizzano in un’apparenza di superficie una visione a tre dimensioni. Se cioè si assume in Cézanne il simbolo della visione costruttiva in profondità, e in Monet il simbolo della visione decorativa in superficie, si sente che Modigliani è lontano dall’uno e dall’altro, e ch’egli parla un diverso linguaggio... Il sentimento della linea ideale ha preceduto l’esecuzione della linea materiale... ». Codesto sentimento è rintracciabile sin dalle prime opere. Ma in gradi diversi sì evolve nella medesima direzione anche quando sembra sviata e sopraffatta da altre esigenze. Nei momenti di minore impegno diventa maniera e si esaurisce in una elegante metafora. L’impianto invece resta immutato. Una parete di fondo. Una parete dall’intonaco delicato capace di armonizzare le più lievi congiunzioni. Su questo schermo sensibile Modigliani muove le verticali stabilendo un ordine di cadenza e le fa coincidere secondo la disposizione ritmica delle figure. A volte la parete finisce in angolo acuto, altre volte è scanalata da linee o suddivisa in riquadri. Come nelle iconi bizantine, specie in alcuni ritratti (vedi il Kisling della raccolta Jesi) compone caratteri nello stile lapidario. Ma è un gioco e non si ripete spesso. Se lo sfondo non è una parete sarà una porta. Una porta chiusa. È forse quella del paradiso? Un capolavoro lo conferma: Ragazzo dalla giubba blu. Chi vi si appoggia si inazzurra, si allunga e diventa straordinariamente trasparente come se le evaporazioni del rosa dei rossi e del turchino combinati in una miscela fatata cancellassero la parte pesante e terrestre che è in ognuno. L’operazione raggiunge particolare intensità quando davanti a una di queste porte sta in piedi o seduta la patetica Madame Hebuterne, l’ultima compagna di Modigliani. L’allungamento si produce con un ritmo parallelo e crescente come in una fuga: i lineamenti attraversano l’ovulo da parte a parte. Le ciglia si inarcano in un disegno appena percettibile e gli occhi sono a fior di pelle; alta è la fronte e altissimi i capelli che compongono una fumata.
Le linee salgono dalle curve in una superficie che le riflette di spazio in spazio, in quella profondità modulata dove i profili labili si imprimono. Il concerto delle tonalità raggiunge angelici abbandoni. Il colore trasmette la sua febbre e i suoi balsami. Tutto è vivo e ardente: porte e piastrelle, i muri, l’intonaco, il mobile d’angolo con la scodella in ombra. Chi siede trasmette la febbre alle sedie. Non importa se è il ragazzo del portinaio Cocteau o la signora Cekowska. Non importa se è un nudo che prende fuoco. È la prima o l’ultima giornata dell’Apocalisse? Nell’Autoritratto del 1919 è seduto anche lui, Modigliani, e ci mostra la tavolozza come Veronica il fazzoletto con l’impronta di Cristo. Modigliani sembra dall’altra parte distante e socchiuso. Non ha più niente da bruciare. Modigliani è all’ultima stazione della sua arte e della sua vita.
Dal 1916 al 1919 dipinge le sue maggiori opere. È ansioso di trasmettere l’ultimo messaggio, la trasfigurazione che va compiendo in quel mistero figurato che è la sua pittura. Nel disegno della Donna seduta ha trascritto: « La vita è un dono: dei pochi ai molti, di coloro che sanno e hanno a coloro che non sanno e che non hanno ». Negli ultimi anni questo dono aumenta di grazia di intensità e di numero. Le immagini sono le stesse: le stesse donne sulle stesse sedie. E questi occhi aperti che continuano a guardarci senza vederci. E queste bocche che sembrano appartenere tutte alla medesima faccia. Fioraie e lattaie, giovani fantesche, la prostituta, la cioccolattaia. Gli amici e le mogli degli amici. Ha dipinto uno dopo l’altro Kisling, Jacob, il messicano Rivera, Cocteau, Baranowski. Ha dipinto Soutine col volto di santo martire rappezzato. Ha dipinto il fedele Zborowski. E quelli che non ha potuto dipingere li ha disegnati nei caffè di Montparnasse: Cendrars, Friesz, Lipchitz, Zadkine, Fabiano De Castro, Paresce. E tanti Zborowski in sogno. Fra le nuove immagini ci sono le bellissime di Madame Hebuterne dipinte tra il ’17 e il ’18: Gli occhi blu, Donna di profilo, La Moglie dell’Artista. Della stessa epoca sono i ritratti della Cekowska (l’ultimo, in una raccolta privata a Milano, è del ’19) e della signora Menier (raccolta Cardazzo), della signora Zborowski replicata più volte. Dal ’17 al ’18 Modigliani inizia e porta a compimento la serie dei Nudi: se la composizione è orizzontale le curve saranno ampie e distese e la linea sarà chiusa da angoli. La funzione dei suoi Nudi sembra che non abbia altro scopo al di là di questa solenne distensione e accensione. Il Nudo coricato della raccolta Feroldi rappresenta la massima temperatura nella sua gamma di rossi. Il presentimento della fine lo rende apprensivo e fanatico ma anche pieno di misericordia. Perdona a sé e perdona agli altri. Ma basta un solo bicchiere per ubriacarlo. Quante volte Zborowski non l’ha raccolto all’alba sui marciapiedi del Boulevard Raspail? Da Salmon a Carco c’è tutta una letteratura dedicata alle notti di Modigliani, ai suoi eccessi, alla sua miseria, alla sua fine nell’Ospedale della Carità. «ITALIA, CARA ITALIA!» furono le parole che disse prima di morire.
Il giorno dopo la sua morte il suicidio di Madame Hebuterne non commosse soltanto gli artisti di Montparnasse ma tutta Parigi: Amedeo Modigliani, il peccatore che non poté diventare angelo fu assunto in gloria dagli uomini.
RAFFAELE CARRIERI













lunedì 15 settembre 2014

Picasso visto da Jean Cocteau (1942)

Jean Cocteau visto da Modigliani (1916)


Il diario che Jean Cocteau ha tenuto nel periodo dell’occupazione di Parigi da parte delle truppe naziste è ricco di spunti, informazioni e pettegolezzi.

Altrove la guerra imperversava, Parigi languiva, ma lui, il poeta, il regista cinematografico, il commediografo amato/odiato senza mezze misure (cosa abituale per le persone di genio; del resto: se dopo mezz’ora che parli nessuno si è sentito offeso vuol dire che non hai detto niente d’intelligente...) continua a vivere la sua vivace vita da bon-viveur destreggiandosi tra pranzi, cene e frequentando i salotti di ministri e di ambasciatori.
Questo Diario (1942-1945) è anche ricco di stringate annotazioni su uno dei suoi più grandi amici, Pablo Ruiz Picasso, e della sua compagna Dora Maar.
Le citazioni su Picasso sono tante e qui ne riporto soltanto alcune, le prime in ordine di data, intercalate da alcuni poetici camei: delizioso quello sul “vento” sfuggito a tavola da madame Chambrun: noblesse oblige.
PS: le note a piè di pagina sono di Jean Touzot, il curatore del libro.


Modigliani, Picasso e Salmon fotografati da Cocteau (1916)

Marzo 1942 - Prestigio del giornale. Come vivrebbe la folla senza false notizie?

Mercoledì 11 marzo 1942 - Incontrato ieri Picasso, sotto i portici del Palais-Royal. Era un leone incanutito, un qualcosa schiacciato da una leggera montagna. Quegli occhi che divorano tutto. Mi dice: «Vado in banca per incontrare mia moglie.[1] - Ti chiederà dei soldi. - Certo non me ne darà, mia moglie! La banca! Aspettare! Discutere! Non so proprio come si potrà dipingere con tutto ciò».
Straordinaria battuta di un uomo che non sopporta di perdere un minuto e che tributa ad ogni cosa l’onore di essere utile.
Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.
Arrivo di Léonce Rosenberg[3] e naturalmente si parla ancora dell’epoca. Grande stanchezza. Léonce mi dice: «Lei non cambia.» Gli rispondo: «Sono troppo distratto per cambiare». Anche se ci si ribella contro l’universo di Picasso, dovremmo essergli riconoscenti di spingere all’estremo il dramma delle forme e di affrettare così la contraddizione dei giovani. Il primo che uscirà dai suoi tranelli dimostrerà la sua forza. Gli altri o vengono sedotti dalle sue trappole, o girano alla larga.
In arte ci sono solo battaglie o tombe.
Picasso dice: «Si può scrivere e dipingere qualsiasi cosa, perché vi saranno sempre persone che capiranno (e vi troveranno un senso)».
Picasso e suo figlio. Un simile ideatore è uomo e donna. Il risultato sono le opere. Scegliere una donna e, per giunta, farci un figlio, è come se Picasso potesse infondere la vita a un suo quadro. Sarebbe una catastrofe. Suo figlio ha certamente il naso al posto dell’orecchio, un occhio al posto del naso. Ecco la sua anima.
Prima di pranzo, sono andato a portare il discorso su Mallarmé a Delange.[4]
Pare che Sert[5] dica: «Come mai non ci sono libri su di me?» Picasso risponde: «Dato che è tanto ricco, dovrebbe pagare degli autori per scrivere una gran quantità di libri su di lui».
Picasso dice: «Vorrei vedere il disegno di tutti i percorsi di una stessa persona durante la vita. Forse verrebbe fuori il suo ritratto».
Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.
Pranzo da Gaffner.[7] Picasso detesta le visite. Vorrebbe che vivessimo insieme, «avessimo lo stesso odore», e che non si dovesse andare da un’estremità all’altra di Parigi per vederci. Ha ragione; arrivavo al punto di preferire gli incontri d’albergo che si ripetono ogni giorno, ogni minuto, alle amicizie sparse qua e là (esempio: Villefranche).
Da Dora. Ho fatto il disegno. Un gran disegno a carboncino su tela. Beviamo del vero caffè e smettiamo di posare e disegnare tra un occhio e l’altro, tra le narici e la bocca, ecc. Penso che il disegno sia bello e le assomigli molto.[8] Cerco di buttarmi nelle linee. Devo fare delle smorfie orribili, e l’insieme delle linee vive senza di me e senza di lei. Dora ha occhi da scimmia (stupendi), un naso di cui una narice fa piegare all’insù il labbro a sinistra, una bocca come un fiore strappato. Arriva Picasso e mi dice che pensa che Éluard desideri che io faccia il suo ritratto. Mi piacerebbe stabilirmi da Dora e fare ritratti come gli artisti di place de la Concorde. Dovrebbero procurarmi solo la tela e i colori secchi. Dove potrei stare meglio che da questi amici, dove la stupidità, la bruttezza, la volgarità, l’attualità, non penetrano da nessuna fessura? Basta entrare da Picasso per provare vergogna di tutto quello che si pensa o si fa superficialmente.[9]
Esiste solo il mestiere. Veramente Picasso dice: «Il mestiere, è quello che non s’impara». Perfezionare il dono del mestiere con una continua osservazione.
Stato a trovare Chanel. «Non ho mai fatto vestiti, dice, ho fatto la moda. Per chi la farei oggi? Non lavoro più perché non ci sono più le belle donne che potrei vestire».
La gente è soffocata dalle inezie. Manca l’esprit de grandeur. I pettegolezzi sostituiscono lo spirito (già detestabile), il denaro sostituisce la ricchezza.
Olga Picasso. Misia mi dice: «Ho sopportato quest’idiota, per liberare un po’ da lei Picasso che adoro». Davanti alle ultime tele di Picasso, gli dice chiaro e tondo: «Sono dei peccati mortali».
Légion d’Honneur: Berthelot[12] mi diceva: «È comoda per i posti in treno. La compri».
Stupidità di Stendhal, l’astio quando parla di Racine, di Shakespeare. Lo spirito ha le sue mode. Pochissimi spiriti vi sfuggono. Baudelaire. E diventa di pubblico dominio.
Il cane di Picasso - un afgano - di una magrezza ed eleganza incredibili. La gente per strada ingiuria Picasso. Credono che sia un cane a cui non si dà da mangiare. Picasso dice: «È il cane più incompreso, e da tutti». Animale favoloso, tutto zampe, ossa e muscoli. Le sue pose minime sono firme ed arabeschi. Rassomiglianza col cane del disegno della camera.
Dopo tre ore di lavoro durante le quali mi esaurisco, la somiglianza viene fuori piano piano. Alle sei mi accorgo che mi sono intirizzito dal principio alla fine della posa. La tensione mi impediva di sentire il freddo.
Picasso parla delle «architetture naturali» a proposito di vecchi palazzi e di vecchi cortili come quello di Dora. Parla cioè delle architetture che si fanno a poco a poco, per necessità. Architettura progettata. Non c’è più niente di umano, di accidentale, di casuale. È il «filo a piombo» che Marais considera responsabile dell’architettura morta.
Asimmetria di un volto (quello di Éluard tra gli altri!). Asimmetria delle belle architetture, - quelle che vivono. Simmetria delle architetture moderne tristi come numeri.
Cena Picasso- Éluard da Zatoste.[15] Riso alla spagnola. Il cane. Picasso dice: «È un cane da grondaia». Il dolore ai reni si è fatto insopportabile. Picasso dice di Jünger (Falaises): «Si serve troppo di quello che sa».[16]
Il gran quadro, Olympia. Una donna sdraiata. Un’altra, ai piedi del divano, suona il mandolino. Questo è il suo regno. Picasso è un re. Può fare ciò che vuole purché non sbagli all’interno del suo registro. Per avvicinarsi al mondo e ai mostri sacri che inventa, bisogna conoscere la sua sintassi e la sua lingua. Altrimenti si è snob o ciechi. Conosco così bene l’una e l’altra che potrei riprodurre a memoria anche i più piccoli tratti con cui raffigura la donna seduta e quella sdraiata.
Picasso racconta ad amici spagnoli, come, tempo fa, avendo visto da lui un immenso disegno, fatto di papiers collés e carboncino, il giorno dopo gli avevo telefonato di venire da Chanel, in Faubourg Saint-Honoré, dove stavo allora, a vedere il disegno. L’avevo riprodotto, senza un errore, su un muro della mia camera. Lo firmò: «Jean ha fatto questo Picasso».
Ci fa vedere le osservazioni inviate da Éluard, copiate da un grafologo al quale[18] aveva dato l’inizio di una lettera di Picasso. È un ritratto impressionante. Tra le altre verità: «l’adulazione lo fa diventare falso». Da Dora, dopo pranzo, termino e firmo il disegno di Éluard. Ho scritto sopra: «Si avvicina con passo felpato. Va via a gambe levate». (La somiglianza.) «Non si muove». (Il mio cuore.)
L’esempio di Picasso. Non perderlo mai di vista. Impero senza limiti. Tutti i giorni distrugge città per sostituirle con altre. Non può toccare nulla senza creare. Un imbrattatele come V. osa insultare quest’uomo e indicare ai giovani delle associazioni la via degli scout del rogo di Savonarola. Leonardo vedeva bruciare la Leda sulla pubblica piazza. Non potremmo allontanare da noi questo calice? No. Chi perde vince.
I lati più neghittosi di noi stessi rischiano di aspirare ad una forma convenzionale di gloria.

Lunedì 23 marzo 1942 - Pranzo con Picasso e Dora.[2] Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicino le altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato da mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legni e di latta.

Mercoledì 24 (sera) - Lapidi commemorative di sconosciuti nel quartiere dei Grands-Augustin. Picasso, giungendo davanti alla nuova casa di Dora, ne propone uno: «In questa casa, Dora Maar morì di noia».

Giovedì 26 marzo - Il vero lusso. Picasso. Questa mattina porto la mia tela, preparata col bianco, da Dora. Non è ancora a casa. Da Picasso, lo trovo che sta uscendo. Sua moglie si rifiuta sempre di partire per la Svizzera, per mancanza di denaro. Picasso: «Allora parto io». La incontra in un caffè all’angolo di rue Dauphine. Neppure da Picasso è cambiato niente. Soltanto, è vero lusso. Niente, e la magnificenza. È superbo, vestito come un povero.[6] Sprigiona genio da tutte le parti, come un serbatoio bucato. Ciò provoca getti di capelli grigi, di sguardi, di rughe.

Mercoledì 1° aprile - L’altra sera Marie de Chambrun a tavola si lascia sfuggire un vento. Chambrun:[10] «Lei parla senza dir niente!».


Sabato 4 aprile 1942 - Cena con Misia Sert[11] […] «Le persone che conservano tutto, non hanno niente. Si è ricchi solo sperperando».

Notte dal 4 al 5 aprile 1942 - «Ciò che importa, diceva il caro vecchio Satie, non è rifiutare la Légion d’Honneur, bisogna anche non averla meritata».

14 aprile 1942 - Alla Francia piace uccidere i poeti, poi imbalsamarli e ammazzare i nuovi poeti a colpi di mummie.

15 aprile 1942 - Paul Smara[13] cita una mia vecchia battuta su Goethe: «Se avesse avuto genio, lo si sarebbe saputo». E Gide mi diceva: «È un piffero enorme, delle dimensioni della colonna Vendôme».

Mercoledì 6 maggio 1942 - Nel periodo in cui tutta la stampa germanofila mi insultava, Arno Breker, lo scultore di Hitler, mi ha dato la possibilità di telefonargli sulla linea speciale a Berlino qualora capitasse qualcosa di grave a me o a Picasso.[17] Oggi, Breker è a Parigi. La Francia organizza la mostra. […] Il dramma è la sua scultura. Penso sia mediocre.

18 aprile 1945 - Sono sempre pronto a dare del tu, purché non venga dato a me.

28 aprile 1942 - Cena ieri sera con Lise[14] e gli Éluard. Farò il ritratto di Éluard lunedì prossimo da Dora.

Lunedì 4 maggio 1942 - Stamattina appartamento pieno di fotografi della zona libera. Pranzo con Picasso e Éluard. Dopo pranzo, da Dora, incomincio il ritratto di Éluard mentre Dora fa il caffè e Picasso fa un grande e meraviglioso disegno che raffigura tutta la stanza, con Éluard che posa e io che disegno.

Mercoledì 3 giugno 1942 - Pranzo Picasso. Da Picasso, non c’è più la testa di toro di cui mi avevano parlato. L’ha fatta fondere in bronzo, ma la descrive e la disegna sulla tela bianca dove era appesa con un chiodo. Poiché era fatta con un vecchio manubrio di bicicletta arrugginito e una sella, dimentica di aver partecipato lui al lavoro, e ne parla come di un oggetto magnifico. Avevo indovinato che l’oggetto non aveva più volume di un teschio dei naturalisti.

Giovedì 4 giugno 1942 - Picasso mi dice al telefono, che un articolo di Vlaminck sarà pubblicato contro di lui su «Comœdia».[19] Risposta di Lhoste. Temevo un articolo provocatore e pericoloso. Invece si tratta delle solite stupidaggini. Picasso aggiunge: «Una mano di V. Una mano di Lhoste sopra. Nessuna importanza». Comunque, ho telefonato a Delange di stare attento. Oggi tutto può essere una minaccia.

Sabato 13 giugno 1942 - L’articolo di Vlaminck contro Picasso ha suscitato un disgusto generale. Ci ritroveremo, Signori agenti provocatori, specialisti di cagnare, signori togliti-di-mezzo-che-mi-ci-metto-io. Non dimenticheremo i vostri putiferi. Ogni volta che credete di colpire delle opere, ferite un mucchio di amici sconosciuti e fate in modo che noi ne reclutiamo altri. Questa folla, un giorno, vi farà pagare la vostra stupidità. Questa folla punirà i vostri crimini. Approfittate in fretta del vento dell’imbecillità che tira in vostro favore. Più agirete e più la rivolta sarà profonda. Chi vince perde, chi perde vince. Basta saper aspettare.

[1] Olga Koklova (1896-1955), ex ballerina di Diaghilev, madre di Paul Picasso (1921-1975), curata in una clinica psichiatrica in Svizzera.
[2] La fotografa Dora Maar, compagna di Picasso tra il 1936 e il 1946, era nata in Iugoslavia nel 1909. L’appartamento che aveva affittato si trovava in rue de Savoie, perpendicolare a rue des Grands-Augustins.
[3] Celebre mercante d’arte, proprietario di una galleria.
[4] René Delange, direttore del settimanale «Comœdia», al quale Cocteau, dopo che fu ripubblicato nel 1941, collaborava regolarmente.
[5] Jesé-Marie Sert (1874-1945), pittore e scenografo spagnolo, ricco collezionista, tornava spesso in Spagna e, al contrario di Picasso, figurava come artista ufficiale del regime franchista. Ne era del resto ambasciatore presso il Vaticano.
[6] Il fotografo Brassaï riferisce queste parole di Picasso mentre osserva Cocteau in una foto di gruppo. «Guardate, cos’è che innanzi tutto attira lo sguardo? È la piega dei pantaloni di Jean Cocteau! […] Cocteau è nato con la piega dei pantaloni nella culla. È nato stirato…» (Conversation avec Picasso, Parigi, Gallimard, 1964, p. 159).
[7] Maurice Sachs cita questo ristorante tra quelli «del mercato nero allora di moda» e ne vanta la costata (secondo Gilles e Jean-Robert Ragache, La vie quotidienne des écrivans et des artistes sous l’occupation 1940-1944, Parigi, Hachette, 1988, p. 140).
[8] Questo non fu il parere di Picasso, che rifece, sopra il ritratto a carboncino, un ritratto di Dora Maar ad olio. Dora Maar ci ha detto di essere stata ritratta con un vestito a righe celesti e gialle. Il quadro poi entrerà a far parte di una collezione americana. Quando Cocteau venne a sapere la fine fatta dal suo disegno a carboncino, non osò dire nulla.
[9] Lo stesso 26 marzo, nel suo diario, Roger Lannes scrive: «Cocteau tiene un diario. Lo trovo appollaiato sul suo tavolo che prende appunti su appunti. Mi diverte. Quest’uomo che ha sempre abbondantemente dissipato il suo tempo, la sua vita, il suo linguaggio e i suoi amori, oggi, come tutti noi, revanscisti, quelli che non hanno nulla e accumulato le loro proteste in silenzio, si mette a prender nota della sua esistenza… Mi legge quello che ha scritto su Picasso».
[10] Il conte Charles de Chambrun (1875-1952), diplomatico e scrittore, entrò più tardi all’Académie Française.
[11] Misia Godebska (Pietroburgo, 1872-Parigi, 1950), sposò nel 1893, Thadée Natanson, direttore de «La Revue blanche», e diventò amica di Mallarmé, di Toulouse-Lautrec, di Renoir. Secondo matrimonio nel 1905 con Alfred Edwards, magnate della stampa. Nel 1909, lo lascia per il pittore José Maria Sert che sposerà nel 1920. Divenne l’eminenza grigia dei Ballets russes e intima di Jean Cocteau. La si riconosce nel personaggio di Clémence di Thomas l’Imposteur. Cfr. Misia di Arthur Gold e di Robert Fizdale, Parigi, Gallimard, 1981). Vi si legge a p. 80, un estratto di una quartina di Mallarmé che si è conservata e (p. 347) un commento illuminante del giudizio dato su Olga Picasso.
[12] Philippe Berthelot (1876-1934), segretario generale del Ministero degli Esteri (1920-1921 e 1924-1932), era un amico intimo di Misia Sert.
[13] Paul Smara, esteta, collezionista di larghe vedute.
[14] Anne-Marie Hirtz (detta Lise Deharme, 1898-1982), egeria del Surrealismo, gran dama delle lettere, apriva ancora un salotto frequentato soprattutto dagli scrittori della Resistenza.
[15] Ristorante basco, vicino a Notre-Dame des Victoires.
[16] Ricevendo Jünger nel suo atelier, il 22 luglio 1942, Picasso gli pone delle domande a proposito del suo libro Sugli scogli di marmo e osserva: «Noi due, seduti qui come siamo, negozieremmo la pace questo stesso pomeriggio. Questa sera gli uomini potrebbero accendere le luci». (Ernst Jünger, Primo diario parigino. Diario II, 1941-1943, cit. dall’ed. francese presso C. Bourgois, 1980, pp. 158-159).
[17] Arno Breker, nato nel 1900, conosceva Cocteau fin dagli anni del perfezionamento a Parigi. Il loro primo incontro risaliva all’inizio del 1925, in occasione di un ricevimento al Boeuf sur le toit cui parteciparono «due figli di Renoir, i pittori Fernand Léger e Rudolf Levy, tutti accompagnati dalle mogli». (Arno Breker, Paris, Hitler et moi, Parigi, Presses de la cité, 1970, p. 290). Dopo l’Occupazione, lo scultore riprese i contatti con Cocteau solo durante l’autunno 1940, desideroso com’era «di preservare un clima d’intesa, nonostante gli avvenimenti» (Ibid., p. 292). Senza citare Cocteau, Breker fa valere i buoni uffici che la sua amicizia con il colonnello Spiedel gli ha permesso di espletare: il colonnello comandava allora la piazza di Parigi: «fu a quel tempo che incominciai a aiutare di nascosto le persone minacciate, quali che fossero, che si rivolgevano a me». (Ibid.)
[18] Raymond Trillat.
[19] Maurice Vlaminck (1876-1958), definisce Picasso l’«impotenza fatta uomo» e gli dà dello «Stavisky della pittura». L’articolo, pubblicato su «Comœdia» il 6 giugno 1942, sarà ripreso nel Portrait avant décès (Parigi, Flammarion, 1943).


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