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domenica 8 maggio 2016

Picasso e Max Jacob visti da Misia Sert

Max Jacob, by Pablo Picasso (1907)

MISIA
di Misia Sert
Titolo originale: Misia
1952 Librairie Gallimard
Traduzione di Nancy Marotta
Adelphi Edizioni 1981
pp. 227-238

[…] Sì, proprio per un eccesso d’amore Reverdy si allontanava da un mondo dai molti spigoli che rischiavano di ferirlo a morte.
E tuttavia, degli amici, delle pietre e della luce di Parigi l’artista che egli era aveva bisogno come ogni altro. Di Picasso, per esempio, non poteva fare a meno. Fin da giovane gli aveva dedicato un fervore che nessuna tempesta poté offuscare.
Il caso di Picasso, ora che la sua vita, come la mia, è entrata nel suo ultimo ciclo, mi appare un esempio ben tipico dell’equivoco a cui è improntata la vita artistica dopo la guerra del 1914. Lo snobismo di coloro che parlando di lui si contentano di alzare le spalle definendolo un «grosso bluff» mi esaspera, se possibile, anche più di quello dell’orda dei sedicenti iniziati che fanno di Picasso un Dio Indiscutibile, la cui minima stupidaggine scarabocchiata su uno straccetto sarà costosamente incorniciata e troneggerà al posto d’onore nell’appartamento del fortunato possessore. Ambedue gli atteggiamenti sono ridicoli, ma, ahimè!, col tempo sono divenuti egualmente pericolosi. Perché la vastità della fama di Picasso, probabilmente unica nella storia, trattandosi d’un artista vivente - visto che dall’Australia all’Oklahoma non c’è essere umano che sappia leggere che non conosca il suo nome -, comporta una responsabilità altrettanto ponderosa. Si rende egli veramente conto delle proporzioni di questa responsabilità, soprattutto nei confronti dei giovani? Questa gioventù sconvolta, straziata, cresciuta davanti allo spettacolo del crollo di tutto quello che le si era insegnato a rispettare... Una gioventù che non crede più a niente, perché ha visto scalzare i valori reputati indiscutibili, calpestare la morale più elementare -ma pur sempre assetata di ideali e di bellezza come lo saranno tutti i giovani di ogni epoca finché ci sarà il mondo...
Che lui lo voglia o no, Picasso è uno dei rarissimi astri che sono passati attraverso lo sconquasso e le macerie di questo mezzo secolo senza che la sua capacità di attrazione abbia cessato di crescere. Anzi. Per centinaia di migliaia di intellettuali sparsi in ogni parte del globo, oggi il suo nome non evoca solo un genere di pittura, ma piuttosto una scuola, una posizione spirituale o morale - perfino una certa visione dell’esistenza - un atteggiamento che va molto al di là dell’estetica e sconfina con la filosofia e addirittura con la politica. Per quanto possa sembrare inverosimile, parlate con dei ragazzi di vent’anni e vedrete che essere per Picasso non vuol certo dire limitarsi a preferire il cubismo a un’altra corrente e, in genere, la pittura di Picasso a quella di un altro artista. Vi renderete subito conto che ciò implica ogni sorta di diverse posizioni relative a un mucchio di problemi. Posizioni molto spesso negative e quasi sempre vaghe, nel senso che l’adepto avrebbe una grande difficoltà a definirle.
Ai tempi della mia giovinezza eravamo un gruppetto di qualche decina di persone ad amare un quadro di Bonnard, una poesia di Mallarmé o un balletto di Stravinsky. Oggi, troverete non migliaia, ma milioni di essere umani pronti a dichiararvi che adorano Picasso. Tra queste il vostro calzolaio, il muratore all’angolo della strada o il signore che viene a riparare lo scarico del lavandino.
Nell’universalità di una simile religione, in sé e per sé non vedo niente di male. Ciò che mi sconvolge, e insieme mi terrorizza, è l’idea di un dio del quale gli appassionati adepti ignorano completamente i precetti - dato che lui stesso non ha mai cercato di stabilirli. Egli è stato trasportato da una marea montante che l’ha deposto su una sommità fittizia dove chiunque può raffigurarselo attraverso la luce d’un prisma moltiplicato all’infinito, che permette a ognuno di vederlo secondo l’angolazione scelta.
Eppure l’uomo, sotto questa inverosimile ondata di gloria, non ha cessato di essere la tenera argilla di cui è plasmato ogni artista: ed è questo che mi mantiene profondamente legata a lui. Non posso credere che egli non abbia mai dubitato - e anche in certi momenti, disperato. Tuttavia, il pubblico s’impadronisce avidamente di qualunque cosa di Picasso senza che mai si sia levata la voce del bambino del racconto di Andersen che, malgrado la cieca ammirazione delle folle prosternate, gridò nella sua innocenza: «Ma il re è nudo!». Lui, Picasso, in molti casi lo sapeva. Non si fanno 365 capolavori all’anno... e a Picasso è capitato di dipingere diverse tele al giorno...
Ho troppo amato e apprezzato le sue qualità profonde e costanti per fargli il torto di credere che lui per primo possa essere pienamente soddisfatto di alcune delle innumerevoli opere che la gente si è accaparrata come fossero obbligazioni del Canale di Suez.
Picasso è un tenero, e il suo gusto è così perfetto da avere del miracoloso. Per giudicarlo, guardate la casa che si è scelto in rue des Grands-Augustins. Ne conosco poche così sobriamente belle e nobili.
... Ma quest’uomo la cui influenza è sopravvissuta a tutti gli sconvolgimenti è, per un certo verso, di una fragilità smisurata: niente, ai suoi occhi, ha mai valso la pena di sopportare cinque minuti di imposizione, di sforzo e, soprattutto, di noia. La sua giovinezza, intrecciata con quella di Apollinaire in un’epoca in cui era così poco grave dire con la massima serietà: «sinistra e destra, bene e male, nero e bianco, non presentano che differenze apparenti ma puramente convenzionali...», non solo l’ha segnato profondamente, ma gli ha fatto prendere una strada che si è immediatamente rivelata quella d’un favoloso successo. Come si può biasimarlo?
Pure, a rischio di sembrare più realista del re, mi sento obbligata a dire: «Picasso ha in sé infinitamente più di quanto ha dato».
Forse farò sorridere i suoi zelanti ammiratori. «Che cosa si può chiedere di più che essere il sommo tra i più illustri?» mi si dirà.
Il fatto è che, avendolo conosciuto così giovane, credo che meritasse molto di più di quella vita - per quanto gloriosa -, nel corso della quale non credo che Picasso uomo abbia realizzato tutto quello che aveva in sé.
Certamente i mercanti e coloro che si sono autoconsacrati sacerdoti della sua religione gli hanno fatto un grandissimo torto (un po’ come i proustiani hanno fatto venire a molta gente la nausea di Marcel Proust). Quando parlo di mercanti lascio da parte Rosenberg; quando egli, alla fine, partì per l’America, lasciò Picasso libero di occuparsi della divulgazione della propria pittura, abbandonandolo inerme nelle mani di quella specie di amici che vi fanno fare solo importanti e gravi sciocchezze...
Rosenberg avrà anche ammucchiato dei Picasso nelle sue cantine in attesa che i prezzi decuplicassero, tirandoli fuori solo col contagocce. Ma almeno seppe scegliere con un fiuto meraviglioso i quadri migliori, ed ebbe l’abilità di esperii a ragion veduta. Le sue mostre offrivano al pubblico qualche decina di tele abilmente selezionate e messe splendidamente in risalto dalle cornici, dalla disposizione e dal colore dello sfondo, che donavano loro quell’aspetto raro e prezioso di cui questa pittura (malgrado i prezzi richiesti) aveva un assoluto bisogno. Almeno la percezione dell’importanza dell’opera di Picasso era ancora circoscritta a un nucleo di collezionisti che era perfettamente plausibile provassero interesse per lui. Ahimè! poco dopo la guerra andai a una di quelle grandi esposizioni ufficiali al Museo d’Arte Moderna, quai de Tokio: ai quadri di Picasso era riservata un’immensa sala dai muri nudi e freddi; erano appesi a chiodi e ganci senza alcuna cornice e come a casaccio, secondo le dimensioni o l’ordine d’arrivo.
Ero appena entrata in quella sala che una vera e propria angoscia mi strinse il cuore. Una folla di perdigiorno, di macellai e di erbivendoli vagava là dentro sganasciandosi dalle risate davanti all’una o all’altra di quelle povere tele consegnate tutte nude alla pubblica idiozia... Avevo il senso d’un sacrilegio. Lacrime che ero incapace di controllare colavano scioccamente dai miei occhi increduli davanti a un tale massacro... Un guardiano, stile Courteline, mi batté gentilmente sulla spalla per dirmi: «Su, su, signora mia, non bisogna prendersela... Che direste allora se, come me, foste obbligata a star qui tutto il giorno!».
L’uomo del sipario di Parade, della scenografia di Tricorne, l’amico di cui seguivo da più di trent’anni la battaglia che ingaggiava continuamente con se stesso, aveva acconsentito a tutto questo...! (All’improvviso mi ricordai di una sua minuscola tela, una tauromachia di un verde ideale, per la quale avevo trovato una cornice talmente perfetta che per anni quei pochi centimetri di pittura mi erano sembrati l’oggetto più prezioso del mondo...).

Sipario per Parade, by Pablo Picasso (1917)
Poco dopo aver visitato quella sinistra Esposizione provai il bisogno di andare a trovare Picasso nel suo studio in rue des Grands-Augustins. Sentivo il bisogno di trovarmi faccia a faccia con l’uomo, l’amico che m’aveva scelta come testimone alle sue nozze, come madrina del suo primo figlio. Attraversai il grande cortile lastricato del palazzo povero e sontuoso che gli si addiceva tanto e salii i gradini di una delle più belle scale di Parigi per accedere al pianerottolo dove lavorava. Mi mostrò le alte stanze dai soffitti sostenuti da travi enormi, gli angoli - il suo tesoro che accoglieva statuette d’arte negra, oggetti semplici scolpiti in materiali levigati dai secoli - e più in là, con una gioia infantile, la vasca da bagno e i lavabi nei quali, appena ebbe girato i rubinetti, scese un’acqua così bollente che ci trovammo istantaneamente in un bagno di vapore! (Di quest’ultimo dettaglio era particolarmente orgoglioso... e a ragione, se ci si raffronta a un periodo in cui il carbone e il riscaldamento rappresentavano il colmo del lusso!).
Con le sue mani commoventi, staccò dal muro i quadri per metterli alla portata della mia vista indebolita. Ce n’erano decine e decine... Come mi sarebbe piaciuto potergli dire che li adoravo! Come sarebbe stato felice di vedermene portare via uno!... Ahimè! Di tutto ciò che faceva in quel periodo non c’era una sola tela di fronte alla quale avrei potuto vivere. L’amavo infinitamente troppo per essere capace di barare con lui sui miei sentimenti. Quando mi riaccompagnò alla porta e mi abbracciò, vidi i suoi grandi occhi limpidi velarsi di lacrime... cosa non avrei dato per potergli dire: «Adoro quella tela la...».
Mi ritrovai in macchina; piangevo senza ritegno per tutto ciò che non era stato...
La mostra dei quadri senza cornici corrispondeva pressappoco all’epoca in cui Picasso s’era iscritto al partito comunista. Aveva finito per farlo probabilmente per stanchezza, a forza d’essere sollecitato dalla gente che gli stava intorno. Forse fu lui il più sorpreso di tutti nel vedere, un bel mattino, la sua fotografia e il suo nome campeggiare più o meno su tutta la prima pagina dell’«Humanité». Si vede che, un giorno che era in vena di firme (cosa che gli succedeva il meno possibile, data la sua ripugnanza per ogni decisione...), ne avevano approfittato per fargli firmare una scheda d’adesione!
Picasso comunista, che bandiera per i Soviet! E cosa poteva esserci di più logico da parte loro che sfruttare al massimo un nome tanto prestigioso?... Ma qui cominciava il pericolo. Picasso era da tempo la bandiera di se stesso. Perché limitarsi a un partito e diventare il suo migliore strumento di propaganda? Che Picasso sia «a sinistra», anzi completamente di sinistra, ringraziamo Iddio! Ma, è forse questo, per un artista, motivo valido per farsi prigioniero della più rigida delle dottrine? Picasso se ne è reso conto molto presto: tuttavia l’enorme peso che lui rappresentava era già stato buttato sulla bilancia.
Che responsabilità spaventosa! Quante migliaia di intellettuali, di giovani ansiosi di rendersi utili avevano già seguito senza la minima esitazione colui che ammiravano con ardore?... Forse, la sua decisione egli l’ha revocata con la stessa facilità con cui l’aveva presa... ma gli altri, hanno potuto permettersi un gesto del genere?
Questa sensazionale adesione ha ricordato a molti nostri amici quella di Gide. Conosco André Gide fin dall’infanzia. Una prolungata - e quanto penosa! - crisi di coscienza l’aveva portato a vedere la verità (o quello che lui credeva le fosse più vicino) nel comunismo. Dopo il suo viaggio in URSS aveva aperto gli occhi. Resosi conto della portata e delle dimensioni del suo errore, attraversò ancora una volta un’atroce crisi spirituale e si sentì in dovere di pubblicare subito un libro la cui stesura dovette essere un vero e proprio calvario. Sebbene per me sia sempre stato un amico, io non mi sento vicina a Gide: il suo rigido protestantesimo, le sue lunghe dispute con se stesso sono l’opposto di quanto mi attrae. L’amore, secondo me, è una rivelazione accecante che si impone in maniera talmente evidente che non c’è più ragione di discuterne. Ma Gide è uno scrittore, un filosofo. Mi reputerei molto sciocca se non riconoscessi tutta l’importanza della sua opera e, per di più, ho una particolare stima di lui per la sincerità che ha dimostrato in tutto.
In un secolo in cui non si parla che di persone ‘impegnate’, probabilmente era necessario che un pensatore della statura di André Gide definisse la propria posizione riguardo una dottrina che sta sconvolgendo il mondo. Ma Picasso?... Che andava a fare in quella galera? Nessuno può obbligare un pittore a impugnare una bandiera politica...
So benissimo che oggi la regola è che i musicisti facciano dell’architettura, i pittori della letteratura, gli scrittori della scultura, ecc... Per quanto mi riguarda, ho orrore dei pasticci. Non che non mi piaccia scherzare, ma ho sempre trovato giusto che ci siano dei limiti. Credo che, a forza di estenderli, e col povero pretesto di fare scalpore, si è spesso arrivati sull’orlo del baratro. Se Picasso si diverte a dire a qualche amico: «Anch’io posso scrivere un lavoro teatrale» e a scrivere una farsa in cinque atti intitolata Le désir attrapé par la queue, non ci vedo niente di male, e probabilmente se fossi stata presente l’avrei anche trovato molto divertente. Che ci sia un editore così balordo da pubblicare questa ingenua farsa goliardica e farne un’edizione su carta di lusso speculando sul nome dell’autore, questo mi sembra molto stupido (a maggior ragione se si tiene conto che Picasso aveva superato l’età per questi divertimenti). Ma che poi si arrivi a spingere il «perché non autore drammatico?... perché non ceramista?... perché non... ecc. » fino al «perché non comunista?» ... a questo punto mi rifiuto di stare al gioco. Un uomo della sua levatura ha, di fronte alle nuove generazioni, una responsabilità che è funzione diretta della sua fama.
Non bisogna credere, con questo, che a causa della sua celebrità io neghi a Picasso il diritto di fare quel che gli pare e di distrarsi come più gli piace. Nessuno più di me sarà mai per l’assoluta libertà in ogni campo.
Nello stesso tempo ho sempre pensato che un grande destino comporti enormi doveri. Perché coloro che diventano un polo di attrazione trascinano inevitabilmente nella loro scia una quantità di uomini. Intorno a quelli che, come Picasso, hanno avuto in dono alla nascita un po’ di luce, si riuniscono un’infinità di giovani che cercano, lontano dallo spirito dei partiti che li hanno sempre ingannati, di trovare qualcosa in cui credere. La fede (non uso affatto questo termine nel suo significato religioso) è un bisogno essenziale. Che incubo sarebbe un mondo in cui non ci fossero che disincantati! E come non capire, stando così le cose, che la libertà di alcuni privilegiati deve arrestarsi là dove comincerebbe a distruggere il pensiero di quelli che credono in loro?
Per quanto strano possa sembrare, Picasso ha sempre avuto ai miei occhi il colore della tenerezza, e la sua tavolozza aveva tutte le sfumature essenziali per esprimere l’amore.
Certe cose non si perdonano solo a chi si ama più profondamente. Forse è quanto succede a me nei riguardi di Picasso. I suoi veri amici sono stati anche i miei. Non posso parlare di lui se non con loro. Non sopporto più né i suoi detrattori né i suoi sedicenti ‘difensori’. Ci sarà della gente che vi dirà: «Misia trova ridicoli i piatti di Picasso». Non è assolutamente vero. Anzi, alcuni mi piacciono molto. E penso che avrebbe fatto malissimo a non farli, se ne aveva voglia. In compenso, sono convintissima che mentre li faceva non pensava di venderli a trecentomila franchi. Credo anche che se ci avessimo mangiato, tête-à-tête, del manzo lesso e il cameriere ne avesse rotti un paio, Picasso si sarebbe fatto una gran risata. Ma queste sono cose che non provo neanche a spiegare ai ‘picassisti’... come molte altre.
Oltre a Reverdy, Max Jacob è stato uno dei pochissimi che l’hanno realmente conosciuto e amato. Povero Max Jacob! Nello spaventoso disordine delle poche carte che il caso ha lasciato nei miei cassetti, di lui ritrovo soltanto - a parte quelle quartine che mi aveva scritto per Marcelle Meyer - una lettera terrificante, l’ultima, datata 1944. In miseria, braccato nel suo villaggio di Saint-Benoît, viveva là i suoi ultimi giorni prima dell’orrenda morte a Drancy:
«Nella mia angoscia, chiedo aiuto... l’amicizia che mi avete tanto spesso dimostrato mi torna abbastanza forte alla memoria perché io abbia l’audacia di rattristarvi con lo spettacolo del mio dolore... la casa di famiglia saccheggiata, distrutta con tutti i ricordi della mia infanzia. La mia sorella più grande è morta di dolore. Mio cognato morto in un campo di concentramento. Mio fratello portato in prigione... Ho sopportato tutto, rassegnato alla maledizione della mia povera razza! Ma ora il colmo dell’orrore: la mia sorella più giovane, la mia preferita, quella che chiamavo “piccola mia” è stata arrestata senza una ragione, portata prima al carcere provvisorio e poi a Drancy. È per lei che chiedo il vostro intervento, prima che venga deportata in Germania e che ci muoia in qualche cella... La poveretta non ha conosciuto che disgrazie, il suo unico figlio è in un manicomio.
«Cara amica, permettetemi di baciarvi le mani, l’orlo del vestito... Vi supplico, fate qualcosa...».
Mi ricordo che nel trovare questa povera lettera mi salirono agli occhi lacrime di indignazione e di pietà. La sola consolazione che ebbi nel dolore che provavo per quell’uomo così buono sul quale si accanivano tutto l’orrore e la crudeltà degli uomini fu di constatare che il cuore di Sert non era invecchiato di un solo anno nei quaranta che lo conoscevo. Appena l’ebbi messo a parte della lettera, senza pensare neanche per un istante a tutte le noie che poteva attirarsi intervenendo in favore di un ebreo sotto il terrore tedesco, mise immediatamente in moto tutte le persone influenti che era in grado di manovrare. Ahimè! Il povero Max fu trascinato a Drancy e l’ordine di liberazione che Sert riuscì a ottenere arrivò troppo tardi.
Non una sola volta, nel corso di quei quattro anni di dure prove, ho visto Sert rimanere insensibile davanti a una disgrazia o a un’ingiustizia, qualunque fossero la nazionalità, la razza o il partito di chi le subiva. Come a vent’anni, era rimasto uno di quegli uomini per i quali contano soltanto il valore individuale e la creatura umana.
Reverdy non si era ingannato quando, trent’anni prima, mi scriveva di lui: «... Io so che vita è la sua e voi dovete pensare, vista quella che ho scelto io, fino a che punto io possa apprezzarla. Quella nobiltà d’atteggiamento, quell’ardore paziente e discreto durante il lavoro e la grandezza di questo lavoro fanno della sua vita una bella linea senza fratture... Il tempo che passa, cara Misia, non è niente in confronto a quello che perdura...».

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giovedì 5 maggio 2016

Max Jacob, dalle pagine del Diario di Jean Cocteau

Max Jacob, di Marie Laurencin, 1907

Letta l’autobiografia di Misia Sert - di cui racconterò a breve in un altro post - subito ho ripreso il Diario (1942-1945) di Jean Cocteau, un testo ricco di aneddoti sui suoi amici - e Misia per Cocteau lo era.
Pagina dopo pagina, nel Diario ritrovo lettere e appunti su Max Jacob …e l’occasione è buona per trascriverli nella loro interezza. Li trovate qui di seguito, note redazionali comprese (ne ho eliminate alcune, non indispensabili per la comprensione del testo).
Buona lettura.

Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Titolo originale: Journal 1942-1945
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Revisione e note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Éditions Gallimard 1989
Gruppo Ugo Mursia Editore 1993


pp. 42-44, lunedì 6 aprile1942
Lunga lettera di Max Jacob. Mi racconta le sue innumerevoli difficoltà con la Gestapo.

5 aprile 1942
Gioia della tua lettera

Caro Jean,
appena giunta la tua lettera, ecco i ricordi degli ultimi mesi... Una lettera di dodici pagine!... Anzi, un libro di trecento pagine, solo per i miei rapporti con la Gestapo... o i viaggi ripetuti per far vidimare la carta d’identità con un freddo di x gradi, senza treno, senza auto né bicicletta, per poi sentirmi dire: «Non abbiamo ordini!» (ed io: «ordini o ordine?») oppure «Si! ma ci vuole il timbro e non lo abbiamo ancora!» Il timbro è quello che porta la parola ebreo. E quindi scene commoventi, i funzionari mi stringono la mano come al cimitero... ecc.
Con la Gestapo, è incominciata nel giugno ’40. Faccio, il cicerone nella Basilica:[1] «Lei è ebreo! - Ah! lei arriva proprio a puntino, dice un prete. E il migliore parrocchiano del curato. - Non fa niente, è la razza che conta, ecc.». In quel mentre, la Gestapo va a chiedere al parroco perché ha un cicerone ebreo. Il curato risponde che non ha un cicerone, e che bisogna amare il proprio prossimo, qualunque esso sia. Nel frattempo, fui avvisato dal parroco stesso che c’era un piantone alla porta della Basilica per sorvegliare i miei movimenti. Ingenua polizia! Mi hanno aspettato tre giorni, e, non vedendomi più, si sono stancati. Quindici giorni dopo, un generale viene a visitare la Basilica... Suona al presbiterio e chiede una guida. «Il parroco non c’è!» dice la donna di servizio (o meglio la deliziosa signorina che compie quel lavoro per dedizione). «E quando non c’è?...» chiede il generale. «Quando non c’è, sono io che la faccio visitare. - Lei? - Io o qualche altro parrocchiano.» Questo «qualche altro parrocchiano» ha salvato tutto. Affare chiuso.
Il 4 novembre scorso, arriva in camera mia un signore con gli occhiali e le spalle spioventi (tipo Edmond Jaloux), con un soldato. «Polizia! - Molto lieto! Si avvicini al fuoco! Fa tanto freddo, vero? - Cosa scrive? - Peccato che io non abbia i miei libri... Ma ora che ci penso, ho almeno una brochure di versi. Mi permette di regalargliela? Vorrebbe una dedica? Mi dica il suo nome. Grazie!... Cosa le potrei scrivere?... Con simpatia? Perché no? Scriverò “ricordo”.» Poi comincia a farmi delle domande.
«Tenga, signore! Ecco un libriccino (il libro di Hubert Fabureau su di me), che risponde in anticipo a tutto: data di nascita, biografia, analisi delle opere. Non glielo regalo, perché ne ho una copia soltanto e vede come può essere utile!! - Quindi lei è conosciuto. - Oh!!! Ho alcuni amici!». Dopo di che, vede delle lettere sul tavolo, pronte per essere spedite, e me le porge perché le apra... e le legge chiedendo spiegazione di ogni riga. Annota gli indirizzi, poi bruscamente arriva allo scopo della visita: «E stata qui una signora ebrea? - Ah si!! la signorina Bernstein... Ma non è ebrea... si chiama Martin. - Non si tratta di quella! - Allora... non vedo... Ah! Parla della moglie di un ebreo assunto per la vendemmia... Ma questo non mi riguarda... Interroghi piuttosto la proprietaria!». La proprietaria sale e comincia una stupida chiacchierata: «Vuole che la arresti?». Cerco di intervenire ma egli fa con le dita un gesto a forma di becco, che significa: «Lei! Non si muova!». Se n’è andato portandosi via le carte della mia povera padrona.
Questo mese, lei era a Orléans, è entrata dalla Gestapo e ha reclamato le sue carte. Gliele hanno rese rimproverandola di avere nomi ebrei nella sua rubrica. Non hanno detto niente su di me. Affare chiuso.
La mia famiglia è meno fortunata. Un cognato morto al campo di Compiègne! A mio fratello hanno preso la bottega in rue Legendre. E il resto della famiglia minacciato... Prevedo un tempo in cui la mia pietosa pittura darà da vivere a tutti. E perché no? Sai che Paul Petit è a Fresnes? Traduce là, un mistico tedesco del tredicesimo secolo, Maestro Eckhart, e sembra prendere con misticismo anche la sua avventura.
Ti sbagli, caro Jean; non faccio niente, o quasi. Actualités éternelles era il titolo di una raccolta che non è mai stata pubblicata e non lo sarà mai, perché non ho diritto di pubblicare (che fortuna!). Non ti sapevo sotto l’occhio dei Barbari. Mi avevano detto soltanto che la tua ultima commedia era proibita. Non sei il solo a vivere con gli uscieri. Sarah Bernhardt non ha mai vissuto diversamente! -: «Mi mandi l’usciere!» diceva a mio padre, antiquario a Quimper quando andava da lui a comprare: «Non pago mai se non agli uscieri!» (sic). Si, vorrei proprio vederti, ma non ci sono più macchine e tu non prenderai la corriera. Leggo qualche volta le tue stupende cronache in «Comœdia», quando Salmon mi manda il giornale. Leggo anche la filosofia di Philippe Lavastine: ha fatto progressi! e Audiberti che ha certe trovate in quel guazzabuglio: «Il surrealismo è un tuono a forma di ponte».
Charles Trenet è passato di qui! Ciò riflette una gran considerazione per me. Flaubert scrive: «Emma serviva i vasetti di marmellata rovesciati su un piatto, il che rifletteva una certa considerazione per Bovary». È proprio così... Ma se avessi visto quei contadini correre dietro agli autografi!
Molti «giovani», ma assolutamente niente di nuovo nei poemi. Penso che Béalu de Montargis - ti ricordi? - ti abbia spedito Mémoires de l’ombre.
«In fin dei conti! Questi ostaggi! Non sono altro che comunisti o ebrei!», frase pronunciata davanti a me dalla dama di un ufficiale dei miei cari amici. Definisco questa frase complicità in assassinio.
Gli anni che verranno saranno propizi alla poesia, ma il ’42 è un anno terribile per tutti: Saturno.[2]
Misia è morta o l’ho solo sognato?
Prego per te. Del resto la disgrazia porta con sé la fortuna.
Un ricordo a Jean Marais. Un ricordo a Picasso e anche a Lifar, a cui volevo bene.


pp. 107-109, giovedì 25 giugno 1942
La mostra di Vuillard. Vuillard è squisito quando non è troppo aneddotico. Generalmente supera l’aneddoto (come Vermeer). C’è un quadro magnifico: se fosse soltanto una forma di gioiello, sarebbe un Albert Guillaume.[3]
Carré, nel suo studio, mi mostra dei Dufy, dei Braque, dei Van Dongen. Ciò che mi manca, è la conversazione. Da tempo non avevo potuto «parlare di pittura». Credo anche di essermi lasciato trascinare, dalla vertigine della parola, a dire troppo quello che penso. Braque[4] e il suo perfetto gusto da modista povero. Dufy, l’irrigatore del teatro. Fa i suoi otto davanti alla ribalta e non fa altro. Van Dongen, vecchio bebè che gioca con gli oggetti da regalo. Era un pittore. La vita stramba di casinò lo relega tra Picabia e Domergue. Allego la lettera di Max Jacob[5] in cui cita il lavoro su Picasso che Picasso mi aveva letto e che Éluard ha fatto fare senza dire di chi fosse la scrittura. Il silenzio di Éluard continua (furioso per il Salut à Breker).

24 giugno (1942)
Saint-Benoît
Caro Jean,
sono un’anticaglia in vetrina (i vetri della Loira). «Ha conosciuto Victor Hugo (sic)? Cos’era Gambetta?» Mi sembra di essere la moglie di Alphonse Daudet che chiamava Zola, Émile e Maupassant, Guy. In questo momento, e dopo la Pentecoste, è così tutti i giorni. Ma M. Bourla[6] è veramente molto aggiornato - e decisamente intelligente, e credo che sarà un amico. Mi piacciono i volti dalle vaghe onde grigie: sono molto rari.
Hai visto quel consulto grafologico di M. Raymond Trillat su Picasso? Incredibile: «Ama intensamente e uccide l’oggetto del suo amore». Ho soltanto poche righe comunicatemi da Éluard. Trillat non sapeva di chi fosse la scrittura: «Mania delle armi per difendere dagli altri il suo povero essere» (la parola povero mi lascia un po’ perplesso). «Attinge tutto dalla tristezza... Per alcuni un pazzo creatore, per altri, sublime... Appartiene ad un altro tempo, a un altro mondo: cavalleresco, pazzo, infantile. Nietzsche che bacia un cavallo sulle narici. Baudelaire superlativamente buono». M. Trillat viene consultato, all’ospedale Necker, per la rieducazione dei bambini a sviluppo ritardato.
Quando mi annoio, prendo un tuo libro a caso (sic) - e anche quando non mi annoio...
Straordinario il dito del piede rotto! Come hai fatto? E molto tempo fa, la statua è stata completamente rotta a martellate, rifatta, rotta di nuovo.
Vorrei che tu conoscessi la mia affittacamere. Quando ha saputo che Salmon era là, ha schiuso la porta del salotto (di velluto d’Utrecht verde scuro con i quadri nell’ombra), e si è fermata, come per caso, sulla porta socchiusa. Il salotto è sempre chiuso ed è stato aperto solo per quella visione estatica.
Parlando di Nizza, Vichy, Pau, Ginevra, dice: «In quelle città, il treno di Parigi arriva sempre verso le quattro». È originale, non trovi?
«Rouen è sulla Loira? (sic) Le Mans è in Bretagna.» Pare che lei fosse, da giovane, una bellezza. Col pretesto delle nevralgie, si avvolge la testa in parecchi scialli verdi, gialli, ecc. Vive in un miraggio, immagina che le sue fattorie (vere, ma nessuno paga l’affitto), siano zeppe di legna da bruciare e si stupisce anche, sinceramente, che non gliela portino a casa. In realtà, se io non comprassi la legna da un negoziante di legname (che del resto non la consegna a domicilio), passeremmo inverni interi senza riscaldamento - cosa che, d’altra parte, non si è ancora verificata.
Ha degli impeti di furore e di indignazione veramente comici.
Credo che M. Bourla tornerà oggi o domani: gli parlerò di Guillaume, di Fabio, ecc., di Jules, di Pierre, di Arthur, di Paul, di Léon, di Léon-Paul e di Amédée (Modigliani).
Ti abbraccio
Max


p. 1111, mercoledì 1° luglio 1942
Cena con Valéry e Mondor.
Mondor racconta che gli hanno portato uno che si era tagliato il pene. Gli chiede perché: “Basta con le stronzate”, risponde. Valéry racconta una battuta molto bella di uno spagnolo accecato da una palla da pelota basca: “Buona notte, signori!”. Valéry mi prega, se scrivo a Max, di inviargli i suoi saluti. Ieri il giovane B.,[7] di ritorno da Saint-Benoît, diceva: “Max chiama Valéry abominevole imbroglione”. Valéry l’intelligente non si rende conto nemmeno per un attimo di un certo tipo di intelligenza come il nostro.


pp. 285-286, Notte di Natale
Max Jacob mi scrive da Saint-Benoît-sur-Loire:

Saint-Benoît, 15 dicembre
Caro Jean,
se ti cresce la barba bianca, la mia cresce ultra... Come avrei voluto riceverti sulle verdi distese del mio paese di trent’anni fa, nel Finistère di Pierre Loti.[8] Hanno fatto saltare le rocce per costruire dei block-notes.[9] Ma ci sono ancora le ostriche! Resiste un po’ troppo lo stile Sarah Bernhard! e la pittura a spatola che tu per primo hai fatto notare e con tanta precisione: i pittori di Quimperlé[10] pensano di essere rivoluzionari, dipingendo con la spatola come Dunoyer de Segonzac.[11] Non porteranno via le ostriche né la pittura con la spatolaccia, la stessa con cui si spalmavano il burro e il lardo. In questo mese, il Finistère è la Scozia! Non la Scozia dei viaggi in calesse, con i laghi e gli abeti, ma la Scozia dei «laghisti»,[12] i poeti che imitavano Béranger o Greuze: i bretoni sono Greuze o Béranger sullo sfondo di nebbie madreperlacee e colline nere. D’estate, il tuo angolo di Névez è una stampa giapponese - il fiume di Pont-Aven. Riceverti davanti alla prefettura di Quimper sul muschio e nel mio bosco di faggi vent’anni fa! Ciò nonostante, vorrei che andassi a Quimper: non ho più nessuno là, mia sorella è morta di dolore (sic) e mio fratello è stato portato in Germania, in una prigione non si sa dove. Se tu dovessi avere qualche noia amministrativa o altro (Dio sa che ci si può aspettare di tutto) rivolgiti al dottor Tuzet, medico della prefettura, 16 rue Vis. È un uomo spiritoso e tenero, influente, ingegnoso e grafologo geniale, padre di un’adorabile famiglia. Vallo a trovare anche senza seccature... Ti saprà dire di certo un luogo dove potrai trovare degli approvvigionamenti (come si dice con una parola sinistra).
Per vie impreviste, ricevo spesso tue notizie. Montargis va a Parigi dove bazzica gente informata. Montargis, cioè Béalu! Anche Jean-François mi dà tue notizie. Io lo chiamo l’Amico di professione!
Sì, Raymond[13] è nel mio libro da messa. Prego per lui, anche quando non lo nomino, cioè raramente.
Mi parli di una stufa che fuma. Qui ho della legna - in questo momento, improvvisamente, in abbondanza -, ma i ceppi grossi, così deliziosi in poesia, in fatto di comfort sono del tutto negativi: non bruciano, ci vorrebbero dei pezzetti, della carbonella, dei pampini di vigna, come dice una signora di qui. Devo alimentare il fuoco continuamente, ho le mani nere e niente acqua calda per lavarle - nemmeno acqua fredda: tre brocche sono bucate e lo stagnino non vuole lavorare per l’affittacamere, odiata da tutti. Se la carta è sporca, lo è per tutti questi motivi.
Credo che tu sia nel paese dei Polignac. Credo che Jean sia morto.
Il tuo amico fedele,
Max

Max ha ragione. Dalla baronessa, siamo tra Greuze e Béranger. I Botrel, che abitano a Pont-Aven, sono tra Béranger e Greuze. Mi pento di non aver approfittato dell’invito di Mme Botrel. Sarebbe stato bellissimo scrivere una pièce in casa loro. E inoltre ci si scalda e si mangia in maniera superlativa.


p. 298, 22 gennaio 1944
Saint-Benoît-sur-Loire (Loiret)
20 gennaio 1944
Carissimo Jean,[14]
mi dicono che Sacha Guitry può far liberare della gente. Caro Jean, vivo in un’angoscia insopportabile. Con l’idea della sofferenza redentrice ho sopportato la distruzione della casa paterna a Quimper, la morte di mia sorella maggiore, quella di mio cognato e l’incarcerazione di mio fratello. Ora, hanno arrestato mia sorella, la mia sorella prediletta. Ne morirò.
Quella cara bambina è stata la mia compagna d’infanzia. Le disgrazie le piovono addosso da quando si è sposata: suo marito è morto nel campo di Compiègne per le torture; aveva un figlio solo, che da anni è in manicomio. Andava a trovarlo tutte le domeniche; le tolgono anche questa dolorosa consolazione, è una cosa disumana; è infernale. Ho scritto al vescovo di Orléans, all’arcivescovo di Sens, scriverò al superiore del monastero della Pierre-qui-vire.
Ti chiedo scusa di disturbarti nel tuo lavoro. Ma a chi posso chiedere aiuto? Ho scritto a Misia. Se scrivessi a Sacha Guitry, la mia lettera verrebbe messa tra quelle delle solite richieste. Con una tua parola, Sacha la prenderà in considerazione.
È troppo! Se non avessi il Signore, penserei al suicidio. Penso al monastero, ma mi deciderò a questo atto estremo quando mio fratello e mia sorella saranno liberati.
Mio fratello si chiama Gaston Jacob, è stato arrestato il 16 dicembre 1942 e condotto non si sa dove. È nato il 14 maggio 1875 a Quimper, da dove non si è mai allontanato. Era un tranquillo commerciante, né povero né ricco.
Mia sorella è la moglie di Lucien Lévy, abitava al 18 di rue Oberkampf. (È nata il 24 agosto 1885 o 1886.) Il marito aveva una piccola impresa artigiana al 16 di rue de la Pierre-Levée (XIe). Lei lo aiutava. La loro unica impiegata mi ha scritto una lettera commovente.
La mia famiglia risiedeva in Bretagna da più di cent’anni ed era benvoluta.
Cosa dire? Grido aiuto, ti chiamo in aiuto e ti abbraccio. Prego per te.
Max
Cosa sarà del mio povero nipote, mal nutrito e solo nella sua cella di malato a Villejuif?


p. 310, 2 febbraio 1944
Saint-Benoît-sur-Loire
Loiret
2 febbraio 1944
Caro Jean,[15]
non ti ringrazio. Sapevo… conosco il tuo cuore. Ho fiducia solo in te.
Sacha Guitry, contattato da Marcelle Bourlier, ha detto che se fossi stato io, avrebbe potuto far qualcosa. Vuol dire dunque che si può far qualcosa. Sì, hai ragione: è un incubo. La mia vita è in una fossa nera.
Ho voglia di scrivere a Chanel. Potresti andare a trovarla. Mia sorella potrebbe essere salvata se vi ci mettete tutti e due.
Sì, Jean, Girardoux! Tu, lui e Picasso, le uniche persone intelligenti che io abbia conosciuto. Ma non dirlo agli altri.
Il tedio di Saint-Benoît con quel muro per orizzonte: la prigione di mia sorella! Una colomba, un agnello in prigione! E suo figlio da quindici anni in manicomio. Andarlo a trovare alla domenica era la sua unica consolazione.
Ti voglio e ti abbraccio
- sì -
Max


p. 323, 25 febbraio 1944
Lettera di Béalu (Montargis). Max Jacob arrestato a Saint-Benoît, portato di certo a Orléans. È atroce.[16]


pp. 323-324, lunedì 28 febbraio 1944
Ieri, bisognava salvare Max. Ho visto Sacha che mi ha indicato i passi da compiere,[17] Sert agirà tramite l’ambasciata di Spagna, Prade vuol portare un mio breve scritto su Max al responsabile delle prigioni ebree (pare che il responsabile mi ammiri e conosca Max).
Buone speranze.
Stamattina ho spedito il testo. Prade telefona e dice che il testo è magnifico e che mi spedisce delle orchidee. Tutte queste orchidee che mi mandano serviranno da modelli per il quadro del Palais-Royal.

per salvare max jacob...[18]

«[...] Con Apollinaire, egli ha inventato una lingua che domina la nostra lingua ed esprime le profondità.
«È stato il trovatore di quel torneo straordinario in cui Picasso, Matisse, Braque, Derain, De Chirico, si affrontano e lottano con i loro stemmi colorati.
«Da molto tempo, Max ha rinunciato al mondo e si nasconde all’ombra di una chiesa.
«La gioventù francese gli vuol bene e gli dà del tu, lo rispetta e lo ammira come un esempio. Io poi ne ammiro la nobiltà, la saggezza, la grazia inimitabile, il prestigio segreto, la «musica da camera», per dirla con Nietzsche.
«Aggiungerò ancora che Max Jacob è cattolico da vent’anni. I sottoscritti si permettono di segnalare alle autorità competenti il caso molto particolare di Max Jacob.
«Non ha quasi contatti con il mondo, se non attraverso le innumerevoli amicizie di giovani poeti e grandi protagonisti della letteratura francese. L’età e il comportamento, così nobile e degno, spinge il nostro cuore e lo spirito a fare quest’estremo tentativo per liberarlo e salvare una vita che ci sta a cuore. Jean Cocteau.»


pp. 325-326, martedì 29 febbraio 1944
Ricevuta la lettera di Max qui allegata.[19]

Caro Jean,
ti scrivo da un vagone con la compiacenza dei gendarmi che ci sorvegliano. Presto arriveremo a Drancy. E tutto quello che ho da dirti.
Sacha, quando gli hanno parlato di mia sorella, ha detto: «Se fosse lui, potrei fare qualcosa!»
Ebbene, sono io.
Ti abbraccio
Max

Prade mi telefona che abbiamo buone possibilità di farcela.


pp. 327-328, 15 marzo 1944
Max Jacob è morto.[20] È spaventoso. Ieri sera alle dieci, Prade mi ha telefonato dicendo che la sua istanza di liberazione era stata firmata.[21] La notizia della morte arriva stamattina dal sindaco di Saint-Benoît. La lettera qui allegata che Max mi aveva scritto dal treno è di quindici giorni fa.
La notizia della morte deve avere impiegato dieci giorni ad arrivare. Quindi il dramma si è svolto in otto giorni. Ma quale dramma? Era malato?
Ho telefonato a Picasso e a Pierre Reverdy.[22]
Prade farà fare delle ricerche del corpo.
Max era un angelo, un bambino come Saint-Pol Roux.[23]
Perdita inestimabile.


p. 328, marzo 1944
Prade ha finalmente trovato la tomba di Max a Ivry. Vi ha fatto mettere una croce, un recinto e una targhetta. Dopo la guerra, Max sarà trasferito a Saint-Benoît, ma bisogna salvaguardare la tomba. Max aveva fatto testamento e aveva nominato suo esecutore testamentario Pierre Colle. Pierre è venuto a trovarmi. Domani andrà a Saint-Benoît e cercherà di salvare le carte e le poesie. (Ne aveva inviate alcune copie a parecchie persone.) Max è arrivato a Drancy quindici giorni fa, in ottima salute, abituato a uno stile di vita durissimo, al digiuno, al freddo. Sei giorni dopo era morto. Misia Sert fa dire una messa a Saint-Roch.[24] Pierre ha visto il fratello di Max, simile a Max, meno tutto. È l’unico ancora libero della famiglia.


p. 394, 3 dicembre 1944
Ieri, a pranzo da Pierre Colle, visto i manoscritti di Max. Riempiono tre armadi. Dal 1925, Max non aveva pubblicato nulla e tutti i giorni scriveva per ore. Ce n’è abbastanza per pubblicare cento volumi di poesie e di prose. Éluard mi ha chiesto di curare con lui la scelta delle poesie. È impossibile: bisognerebbe dedicarvi un anno di lavoro.
Una storia di Max.
Una signora diventata ricca con i pianoforti (Mme Steinway) non poteva sentir parlare di pianoforti. Cena in un castello nei dintorni di Montargis. Si avvertono tutti: nessuno deve parlare di pianoforte. La signora è contentissima. Ma, al momento della partenza, sulla scalinata esterna, la padrona di casa dice: «Aspetti, faccio portare il pianoforte».






[1] Si sa che Max Jacob viveva nascosto nell’abbazia benedettina di Fleury a Saint-Benoît-sur-Loire.
[2] Appassionato d’astrologia, Max Jacob faceva oroscopi per gli amici. Così, nel 1938, aveva messo in guardia Jean Marais contro un segno del destino degno di Lorenzaccio.
[3] Albert Guillaume (1873-1942), disegnatore, acquarellista, era considerato un pittore molto «parigino». È contemporaneo di Edouard Vuillard (1868-1940).
[4] I testi più tardivi di Cocteau su Georges Braque (1882-1963) e su Raoul Dufy (1877-1953), dimostrano meno riserve (cfr. Le Passé défini, 2, p. 160 e pp. 373-374). Kees Van Dongen (1877-1968), invece, non uscirà mai dallo spazio angusto cui lo confina quel giorno J. Cocteau: tra il mondano Jean-Gabriel Domergue (1885-1962) e il dadaista della pittura, Francis Picabia (1879-1953).
[5] Una copia dattiloscritta della lettera ci è stata trasmessa da Paul Morihien.
[6] Jean-Pierre Bourla, nato nel 1923 o 1924, aveva avuto al liceo Pasteur, nel 1941, nell’ultimo trimestre della terza liceo, J-P. Sartre come professore di filosofia e Max Jacob come consigliere poetico. Dalle memorie di Simone de Beauvoir conosciamo il suo tragico destino: spagnolo di origini ebree, fu arrestato, internato a Drancy e fucilato a vent’anni.
[7] Cocteau conosce Marcel Béalu, nato nel 1908, dal 1938. È Max Jacob che lo porta dal “cappellaio poeta” di Montargis (Le Foyer des artistes, p. 88). Nel 1941, Béalu ha pubblicato L’île au cri de silence (Cahiers de Rochefort) e Mémoires de l’ombre (Debresse) di cui Max Jacob, nella sua lettera del 2 aprile, riprodotta alle pp. 43-44, raccomanda la lettura a J. Cocteau.
[8] Da intendere piuttosto nel senso del Finistère dell’epoca di Pierre Loti (1850-1923, pseudonimo di Julien Viaud). Perché lo scrittore della Charente, ufficiale di marina, formatosi a Brest, lo descrive soltanto nel suo romanzo Pécheur d’Islande (1886), la cui storia si svolge a Paimpol. Vengono descritte anche le lande del Nord Finistère.
[9] La selezione fatta da François Sentein corregge prudentemente in «block-haus» come se non si potesse dar credito alla fantasia verbale di Max Jacob.
[10] È l’«École de Pont-Aven», che alla fine dell’Ottocento raggruppa intorno a Paul Gauguin pittori quali Émile Bernard e Paul Sérusier.
[11] André Dunoyer de Segonzac (1884-1974) faceva parte dei pittori - più numerosi degli scrittori - che avevano risposto nel 1942 all’invito dei loro colleghi tedeschi. Come paesaggista, Segonzac è più noto per gli acquerelli che per le pitture a spatola.
[12] Poeti inglesi, che all’inizio dell’Ottocento vivevano nella regione dei laghi, nel Nord-Est dell’Inghilterra e tra i quali i più noti furono Wordsworth e Coleridge. Questa pochade critica, che comprende lo chansonnier Pierre-Jean de Béranger (1780-1857) e risale fino al pittore Jean-Baptiste Greuze (1725-1805), richiederebbe molti commenti.
[13] Radiguet, che Max Jacob conobbe poco prima di Jean Cocteau, cfr. n. 1 p. 129.
[14] Sebbene Cocteau non la menzioni nel suo diario, abbiamo inserito questa lettera, di cui Paul Morihien ci ha consegnato la versione dattiloscritta, probabilmente con la data in cui è stata ricevuta. Con le grida di allarme del 2 e del 28 febbraio (Cfr. p. 310 e 325), la lettera segna una tappa commovente del calvario di Max.
[15] Sebbene non vi sia nessun riferimento, inseriamo nel diario questa lettera, che preannuncia in modo così tragico quella del 28 febbraio. (Cfr. p. 325.)
[16] Lettera non ritrovata. Max Jacob viene arrestato dalla Gestapo il 24 febbraio, alle 11 del mattino, mentre stava uscendo dalla messa in cui aveva appena servito nella cripta della basilica. Lo conducono dapprima nella prigione di Orléans. In questa circostanza, R. Lannes resta commosso dall’atteggiamento di Cocteau: «Dà prova di un cuore più grande di quanto gli abbia mai visto» (Frammento del diario, in data del 27 febbraio 1944).
[17] Jean Cocteau accumula tutte le possibilità di successo: Sacha Guitry e soprattutto José Maria Sert hanno già dato prova della loro influenza, l’uno nel salvare Tristan Bernard, l’altro, Maurice Goudeket. In quanto a Georges Prade, magnate della stampa e consigliere comunale di Parigi, persiste sino in fondo in una «collaborazione attiva», secondo l’espressione di H. Michel (Paris allemand cit., p. 162). Ricordiamo che nel consiglio comunale sedeva accanto a Darquier de Pellepoix, noto antisemita. Jean Luchaire, come il suo direttore, era amico di Otto Abetz.
[18] Abbiamo inserito qui, e con un titolo che non tradisce Cocteau, un lungo frammento della petizione firmata da parecchi amici di Max, tra i quali A. Salmon, H. Sauguet, S. Guitry, P. Colle. Paul Morihien, in bicicletta, era andato in giro per tutta Parigi a raccogliere le firme. Cfr. É. Charles-Roux, L’Irrégulière, ou Mon itinéraire Chanel, Parigi, Grasset, 1974, p. 548.
[19] Il 28, Max fu trasferito da Orléans a Drancy. Si sa che durante il tragitto aveva redatto almeno altre due lettere, che uno dei gendarmi della scorta imbucherà alla gare d’Austerlitz: una a Paul Bonet, rilegatore d’arte, per il quale Max miniava i libri, l’altra al canonico Albert Fleureau, parroco di Saint-Benoît-sur-Loire. Lucien Scheler pubblica l’ultima lettera in La Grande Espérance des poètes, 1940-1945 (éd. Temps actuel, 1982, p. 270).
[20] Il 4 marzo 1944, alle 21.30, nel suo sessantottesimo anno... Il 2, Max, per una congestione polmonare, fu inviato all’infermeria del campo. «Il male progrediva rapidamente e Max si lasciò morire, mormorando: “Sono con Dio”» (Lucien Scheler, op. cit., p. 270). Il diario di R. Lannes conferma che la triste notizia arrivò a Cocteau il 15 marzo.
[21] Un’uguale consapevolezza di un inutile successo da parte spagnola, secondo Misia Sert: «L’ordine di liberazione che Sert finì con l’ottenere, giunse troppo tardi». (A. Gold e R. Fizdale, Misia, cit., p. 342.) La «Lettera qui allegata», è quella di p. 325.
[22] Il poeta Pierre Reverdy (1889-1960) conosce Max Jacob e J. Cocteau dal 1916. Tutti e tre parteciparono alle attività artistiche di «Lyre et Palette» a Montparnasse, ed è M. Jacob che presenta Reverdy al pubblico, quando lancerà la rivista «Nord-Sud». Come M. Jacob, P. Reverdy viveva proteggendosi in un’abbazia benedettina: Solesmes.
[23] Membro dell’Académie Mallarmé, il poeta Saint-Pol Roux (Paul-Pierre Roux, 1861-1940) era stato la prima vittima della barbarie, nel giugno 1940, nel suo castello di Coceilian, vicino a Camaret.
[24] Il diario di R. Lannes permette di datarla. Fu celebrata il 21 marzo. «L’atmosfera è “da catacomba”. Per poco, si sarebbero sentiti ruggire i leoni alle porte». Lannes nota la presenza di Éluard, Sauguet, Herrand, Marchat, Salmon, Pierre Colle, Misia Sert, Chanel, Mollet. A questa lista, aggiungiamo quella di L. Scheler: «C’erano Cocteau e Picasso - compagni del Bateau-Lavoir - Dora Maar, Pierre Reverdy, [...], François Mauriac, [...], Paulhan e Raymond Queneau» (op. cit., p. 336). R. Lannes conclude così il racconto della cerimonia: «Quando ci siamo ritrovati con Yanette Délétang-Tardif, Colle e Salmon, nella camera di Jean Cocteau, poco dopo, abbiamo misurato con tristezza lo spazio cruento che la scomparsa di Max aveva lasciato tra noi». (Frammento datato 21 marzo 1944.)