Visualizzazione post con etichetta Reverdy. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Reverdy. Mostra tutti i post

domenica 8 maggio 2016

Picasso e Max Jacob visti da Misia Sert

Max Jacob, by Pablo Picasso (1907)

MISIA
di Misia Sert
Titolo originale: Misia
1952 Librairie Gallimard
Traduzione di Nancy Marotta
Adelphi Edizioni 1981
pp. 227-238

[…] Sì, proprio per un eccesso d’amore Reverdy si allontanava da un mondo dai molti spigoli che rischiavano di ferirlo a morte.
E tuttavia, degli amici, delle pietre e della luce di Parigi l’artista che egli era aveva bisogno come ogni altro. Di Picasso, per esempio, non poteva fare a meno. Fin da giovane gli aveva dedicato un fervore che nessuna tempesta poté offuscare.
Il caso di Picasso, ora che la sua vita, come la mia, è entrata nel suo ultimo ciclo, mi appare un esempio ben tipico dell’equivoco a cui è improntata la vita artistica dopo la guerra del 1914. Lo snobismo di coloro che parlando di lui si contentano di alzare le spalle definendolo un «grosso bluff» mi esaspera, se possibile, anche più di quello dell’orda dei sedicenti iniziati che fanno di Picasso un Dio Indiscutibile, la cui minima stupidaggine scarabocchiata su uno straccetto sarà costosamente incorniciata e troneggerà al posto d’onore nell’appartamento del fortunato possessore. Ambedue gli atteggiamenti sono ridicoli, ma, ahimè!, col tempo sono divenuti egualmente pericolosi. Perché la vastità della fama di Picasso, probabilmente unica nella storia, trattandosi d’un artista vivente - visto che dall’Australia all’Oklahoma non c’è essere umano che sappia leggere che non conosca il suo nome -, comporta una responsabilità altrettanto ponderosa. Si rende egli veramente conto delle proporzioni di questa responsabilità, soprattutto nei confronti dei giovani? Questa gioventù sconvolta, straziata, cresciuta davanti allo spettacolo del crollo di tutto quello che le si era insegnato a rispettare... Una gioventù che non crede più a niente, perché ha visto scalzare i valori reputati indiscutibili, calpestare la morale più elementare -ma pur sempre assetata di ideali e di bellezza come lo saranno tutti i giovani di ogni epoca finché ci sarà il mondo...
Che lui lo voglia o no, Picasso è uno dei rarissimi astri che sono passati attraverso lo sconquasso e le macerie di questo mezzo secolo senza che la sua capacità di attrazione abbia cessato di crescere. Anzi. Per centinaia di migliaia di intellettuali sparsi in ogni parte del globo, oggi il suo nome non evoca solo un genere di pittura, ma piuttosto una scuola, una posizione spirituale o morale - perfino una certa visione dell’esistenza - un atteggiamento che va molto al di là dell’estetica e sconfina con la filosofia e addirittura con la politica. Per quanto possa sembrare inverosimile, parlate con dei ragazzi di vent’anni e vedrete che essere per Picasso non vuol certo dire limitarsi a preferire il cubismo a un’altra corrente e, in genere, la pittura di Picasso a quella di un altro artista. Vi renderete subito conto che ciò implica ogni sorta di diverse posizioni relative a un mucchio di problemi. Posizioni molto spesso negative e quasi sempre vaghe, nel senso che l’adepto avrebbe una grande difficoltà a definirle.
Ai tempi della mia giovinezza eravamo un gruppetto di qualche decina di persone ad amare un quadro di Bonnard, una poesia di Mallarmé o un balletto di Stravinsky. Oggi, troverete non migliaia, ma milioni di essere umani pronti a dichiararvi che adorano Picasso. Tra queste il vostro calzolaio, il muratore all’angolo della strada o il signore che viene a riparare lo scarico del lavandino.
Nell’universalità di una simile religione, in sé e per sé non vedo niente di male. Ciò che mi sconvolge, e insieme mi terrorizza, è l’idea di un dio del quale gli appassionati adepti ignorano completamente i precetti - dato che lui stesso non ha mai cercato di stabilirli. Egli è stato trasportato da una marea montante che l’ha deposto su una sommità fittizia dove chiunque può raffigurarselo attraverso la luce d’un prisma moltiplicato all’infinito, che permette a ognuno di vederlo secondo l’angolazione scelta.
Eppure l’uomo, sotto questa inverosimile ondata di gloria, non ha cessato di essere la tenera argilla di cui è plasmato ogni artista: ed è questo che mi mantiene profondamente legata a lui. Non posso credere che egli non abbia mai dubitato - e anche in certi momenti, disperato. Tuttavia, il pubblico s’impadronisce avidamente di qualunque cosa di Picasso senza che mai si sia levata la voce del bambino del racconto di Andersen che, malgrado la cieca ammirazione delle folle prosternate, gridò nella sua innocenza: «Ma il re è nudo!». Lui, Picasso, in molti casi lo sapeva. Non si fanno 365 capolavori all’anno... e a Picasso è capitato di dipingere diverse tele al giorno...
Ho troppo amato e apprezzato le sue qualità profonde e costanti per fargli il torto di credere che lui per primo possa essere pienamente soddisfatto di alcune delle innumerevoli opere che la gente si è accaparrata come fossero obbligazioni del Canale di Suez.
Picasso è un tenero, e il suo gusto è così perfetto da avere del miracoloso. Per giudicarlo, guardate la casa che si è scelto in rue des Grands-Augustins. Ne conosco poche così sobriamente belle e nobili.
... Ma quest’uomo la cui influenza è sopravvissuta a tutti gli sconvolgimenti è, per un certo verso, di una fragilità smisurata: niente, ai suoi occhi, ha mai valso la pena di sopportare cinque minuti di imposizione, di sforzo e, soprattutto, di noia. La sua giovinezza, intrecciata con quella di Apollinaire in un’epoca in cui era così poco grave dire con la massima serietà: «sinistra e destra, bene e male, nero e bianco, non presentano che differenze apparenti ma puramente convenzionali...», non solo l’ha segnato profondamente, ma gli ha fatto prendere una strada che si è immediatamente rivelata quella d’un favoloso successo. Come si può biasimarlo?
Pure, a rischio di sembrare più realista del re, mi sento obbligata a dire: «Picasso ha in sé infinitamente più di quanto ha dato».
Forse farò sorridere i suoi zelanti ammiratori. «Che cosa si può chiedere di più che essere il sommo tra i più illustri?» mi si dirà.
Il fatto è che, avendolo conosciuto così giovane, credo che meritasse molto di più di quella vita - per quanto gloriosa -, nel corso della quale non credo che Picasso uomo abbia realizzato tutto quello che aveva in sé.
Certamente i mercanti e coloro che si sono autoconsacrati sacerdoti della sua religione gli hanno fatto un grandissimo torto (un po’ come i proustiani hanno fatto venire a molta gente la nausea di Marcel Proust). Quando parlo di mercanti lascio da parte Rosenberg; quando egli, alla fine, partì per l’America, lasciò Picasso libero di occuparsi della divulgazione della propria pittura, abbandonandolo inerme nelle mani di quella specie di amici che vi fanno fare solo importanti e gravi sciocchezze...
Rosenberg avrà anche ammucchiato dei Picasso nelle sue cantine in attesa che i prezzi decuplicassero, tirandoli fuori solo col contagocce. Ma almeno seppe scegliere con un fiuto meraviglioso i quadri migliori, ed ebbe l’abilità di esperii a ragion veduta. Le sue mostre offrivano al pubblico qualche decina di tele abilmente selezionate e messe splendidamente in risalto dalle cornici, dalla disposizione e dal colore dello sfondo, che donavano loro quell’aspetto raro e prezioso di cui questa pittura (malgrado i prezzi richiesti) aveva un assoluto bisogno. Almeno la percezione dell’importanza dell’opera di Picasso era ancora circoscritta a un nucleo di collezionisti che era perfettamente plausibile provassero interesse per lui. Ahimè! poco dopo la guerra andai a una di quelle grandi esposizioni ufficiali al Museo d’Arte Moderna, quai de Tokio: ai quadri di Picasso era riservata un’immensa sala dai muri nudi e freddi; erano appesi a chiodi e ganci senza alcuna cornice e come a casaccio, secondo le dimensioni o l’ordine d’arrivo.
Ero appena entrata in quella sala che una vera e propria angoscia mi strinse il cuore. Una folla di perdigiorno, di macellai e di erbivendoli vagava là dentro sganasciandosi dalle risate davanti all’una o all’altra di quelle povere tele consegnate tutte nude alla pubblica idiozia... Avevo il senso d’un sacrilegio. Lacrime che ero incapace di controllare colavano scioccamente dai miei occhi increduli davanti a un tale massacro... Un guardiano, stile Courteline, mi batté gentilmente sulla spalla per dirmi: «Su, su, signora mia, non bisogna prendersela... Che direste allora se, come me, foste obbligata a star qui tutto il giorno!».
L’uomo del sipario di Parade, della scenografia di Tricorne, l’amico di cui seguivo da più di trent’anni la battaglia che ingaggiava continuamente con se stesso, aveva acconsentito a tutto questo...! (All’improvviso mi ricordai di una sua minuscola tela, una tauromachia di un verde ideale, per la quale avevo trovato una cornice talmente perfetta che per anni quei pochi centimetri di pittura mi erano sembrati l’oggetto più prezioso del mondo...).

Sipario per Parade, by Pablo Picasso (1917)
Poco dopo aver visitato quella sinistra Esposizione provai il bisogno di andare a trovare Picasso nel suo studio in rue des Grands-Augustins. Sentivo il bisogno di trovarmi faccia a faccia con l’uomo, l’amico che m’aveva scelta come testimone alle sue nozze, come madrina del suo primo figlio. Attraversai il grande cortile lastricato del palazzo povero e sontuoso che gli si addiceva tanto e salii i gradini di una delle più belle scale di Parigi per accedere al pianerottolo dove lavorava. Mi mostrò le alte stanze dai soffitti sostenuti da travi enormi, gli angoli - il suo tesoro che accoglieva statuette d’arte negra, oggetti semplici scolpiti in materiali levigati dai secoli - e più in là, con una gioia infantile, la vasca da bagno e i lavabi nei quali, appena ebbe girato i rubinetti, scese un’acqua così bollente che ci trovammo istantaneamente in un bagno di vapore! (Di quest’ultimo dettaglio era particolarmente orgoglioso... e a ragione, se ci si raffronta a un periodo in cui il carbone e il riscaldamento rappresentavano il colmo del lusso!).
Con le sue mani commoventi, staccò dal muro i quadri per metterli alla portata della mia vista indebolita. Ce n’erano decine e decine... Come mi sarebbe piaciuto potergli dire che li adoravo! Come sarebbe stato felice di vedermene portare via uno!... Ahimè! Di tutto ciò che faceva in quel periodo non c’era una sola tela di fronte alla quale avrei potuto vivere. L’amavo infinitamente troppo per essere capace di barare con lui sui miei sentimenti. Quando mi riaccompagnò alla porta e mi abbracciò, vidi i suoi grandi occhi limpidi velarsi di lacrime... cosa non avrei dato per potergli dire: «Adoro quella tela la...».
Mi ritrovai in macchina; piangevo senza ritegno per tutto ciò che non era stato...
La mostra dei quadri senza cornici corrispondeva pressappoco all’epoca in cui Picasso s’era iscritto al partito comunista. Aveva finito per farlo probabilmente per stanchezza, a forza d’essere sollecitato dalla gente che gli stava intorno. Forse fu lui il più sorpreso di tutti nel vedere, un bel mattino, la sua fotografia e il suo nome campeggiare più o meno su tutta la prima pagina dell’«Humanité». Si vede che, un giorno che era in vena di firme (cosa che gli succedeva il meno possibile, data la sua ripugnanza per ogni decisione...), ne avevano approfittato per fargli firmare una scheda d’adesione!
Picasso comunista, che bandiera per i Soviet! E cosa poteva esserci di più logico da parte loro che sfruttare al massimo un nome tanto prestigioso?... Ma qui cominciava il pericolo. Picasso era da tempo la bandiera di se stesso. Perché limitarsi a un partito e diventare il suo migliore strumento di propaganda? Che Picasso sia «a sinistra», anzi completamente di sinistra, ringraziamo Iddio! Ma, è forse questo, per un artista, motivo valido per farsi prigioniero della più rigida delle dottrine? Picasso se ne è reso conto molto presto: tuttavia l’enorme peso che lui rappresentava era già stato buttato sulla bilancia.
Che responsabilità spaventosa! Quante migliaia di intellettuali, di giovani ansiosi di rendersi utili avevano già seguito senza la minima esitazione colui che ammiravano con ardore?... Forse, la sua decisione egli l’ha revocata con la stessa facilità con cui l’aveva presa... ma gli altri, hanno potuto permettersi un gesto del genere?
Questa sensazionale adesione ha ricordato a molti nostri amici quella di Gide. Conosco André Gide fin dall’infanzia. Una prolungata - e quanto penosa! - crisi di coscienza l’aveva portato a vedere la verità (o quello che lui credeva le fosse più vicino) nel comunismo. Dopo il suo viaggio in URSS aveva aperto gli occhi. Resosi conto della portata e delle dimensioni del suo errore, attraversò ancora una volta un’atroce crisi spirituale e si sentì in dovere di pubblicare subito un libro la cui stesura dovette essere un vero e proprio calvario. Sebbene per me sia sempre stato un amico, io non mi sento vicina a Gide: il suo rigido protestantesimo, le sue lunghe dispute con se stesso sono l’opposto di quanto mi attrae. L’amore, secondo me, è una rivelazione accecante che si impone in maniera talmente evidente che non c’è più ragione di discuterne. Ma Gide è uno scrittore, un filosofo. Mi reputerei molto sciocca se non riconoscessi tutta l’importanza della sua opera e, per di più, ho una particolare stima di lui per la sincerità che ha dimostrato in tutto.
In un secolo in cui non si parla che di persone ‘impegnate’, probabilmente era necessario che un pensatore della statura di André Gide definisse la propria posizione riguardo una dottrina che sta sconvolgendo il mondo. Ma Picasso?... Che andava a fare in quella galera? Nessuno può obbligare un pittore a impugnare una bandiera politica...
So benissimo che oggi la regola è che i musicisti facciano dell’architettura, i pittori della letteratura, gli scrittori della scultura, ecc... Per quanto mi riguarda, ho orrore dei pasticci. Non che non mi piaccia scherzare, ma ho sempre trovato giusto che ci siano dei limiti. Credo che, a forza di estenderli, e col povero pretesto di fare scalpore, si è spesso arrivati sull’orlo del baratro. Se Picasso si diverte a dire a qualche amico: «Anch’io posso scrivere un lavoro teatrale» e a scrivere una farsa in cinque atti intitolata Le désir attrapé par la queue, non ci vedo niente di male, e probabilmente se fossi stata presente l’avrei anche trovato molto divertente. Che ci sia un editore così balordo da pubblicare questa ingenua farsa goliardica e farne un’edizione su carta di lusso speculando sul nome dell’autore, questo mi sembra molto stupido (a maggior ragione se si tiene conto che Picasso aveva superato l’età per questi divertimenti). Ma che poi si arrivi a spingere il «perché non autore drammatico?... perché non ceramista?... perché non... ecc. » fino al «perché non comunista?» ... a questo punto mi rifiuto di stare al gioco. Un uomo della sua levatura ha, di fronte alle nuove generazioni, una responsabilità che è funzione diretta della sua fama.
Non bisogna credere, con questo, che a causa della sua celebrità io neghi a Picasso il diritto di fare quel che gli pare e di distrarsi come più gli piace. Nessuno più di me sarà mai per l’assoluta libertà in ogni campo.
Nello stesso tempo ho sempre pensato che un grande destino comporti enormi doveri. Perché coloro che diventano un polo di attrazione trascinano inevitabilmente nella loro scia una quantità di uomini. Intorno a quelli che, come Picasso, hanno avuto in dono alla nascita un po’ di luce, si riuniscono un’infinità di giovani che cercano, lontano dallo spirito dei partiti che li hanno sempre ingannati, di trovare qualcosa in cui credere. La fede (non uso affatto questo termine nel suo significato religioso) è un bisogno essenziale. Che incubo sarebbe un mondo in cui non ci fossero che disincantati! E come non capire, stando così le cose, che la libertà di alcuni privilegiati deve arrestarsi là dove comincerebbe a distruggere il pensiero di quelli che credono in loro?
Per quanto strano possa sembrare, Picasso ha sempre avuto ai miei occhi il colore della tenerezza, e la sua tavolozza aveva tutte le sfumature essenziali per esprimere l’amore.
Certe cose non si perdonano solo a chi si ama più profondamente. Forse è quanto succede a me nei riguardi di Picasso. I suoi veri amici sono stati anche i miei. Non posso parlare di lui se non con loro. Non sopporto più né i suoi detrattori né i suoi sedicenti ‘difensori’. Ci sarà della gente che vi dirà: «Misia trova ridicoli i piatti di Picasso». Non è assolutamente vero. Anzi, alcuni mi piacciono molto. E penso che avrebbe fatto malissimo a non farli, se ne aveva voglia. In compenso, sono convintissima che mentre li faceva non pensava di venderli a trecentomila franchi. Credo anche che se ci avessimo mangiato, tête-à-tête, del manzo lesso e il cameriere ne avesse rotti un paio, Picasso si sarebbe fatto una gran risata. Ma queste sono cose che non provo neanche a spiegare ai ‘picassisti’... come molte altre.
Oltre a Reverdy, Max Jacob è stato uno dei pochissimi che l’hanno realmente conosciuto e amato. Povero Max Jacob! Nello spaventoso disordine delle poche carte che il caso ha lasciato nei miei cassetti, di lui ritrovo soltanto - a parte quelle quartine che mi aveva scritto per Marcelle Meyer - una lettera terrificante, l’ultima, datata 1944. In miseria, braccato nel suo villaggio di Saint-Benoît, viveva là i suoi ultimi giorni prima dell’orrenda morte a Drancy:
«Nella mia angoscia, chiedo aiuto... l’amicizia che mi avete tanto spesso dimostrato mi torna abbastanza forte alla memoria perché io abbia l’audacia di rattristarvi con lo spettacolo del mio dolore... la casa di famiglia saccheggiata, distrutta con tutti i ricordi della mia infanzia. La mia sorella più grande è morta di dolore. Mio cognato morto in un campo di concentramento. Mio fratello portato in prigione... Ho sopportato tutto, rassegnato alla maledizione della mia povera razza! Ma ora il colmo dell’orrore: la mia sorella più giovane, la mia preferita, quella che chiamavo “piccola mia” è stata arrestata senza una ragione, portata prima al carcere provvisorio e poi a Drancy. È per lei che chiedo il vostro intervento, prima che venga deportata in Germania e che ci muoia in qualche cella... La poveretta non ha conosciuto che disgrazie, il suo unico figlio è in un manicomio.
«Cara amica, permettetemi di baciarvi le mani, l’orlo del vestito... Vi supplico, fate qualcosa...».
Mi ricordo che nel trovare questa povera lettera mi salirono agli occhi lacrime di indignazione e di pietà. La sola consolazione che ebbi nel dolore che provavo per quell’uomo così buono sul quale si accanivano tutto l’orrore e la crudeltà degli uomini fu di constatare che il cuore di Sert non era invecchiato di un solo anno nei quaranta che lo conoscevo. Appena l’ebbi messo a parte della lettera, senza pensare neanche per un istante a tutte le noie che poteva attirarsi intervenendo in favore di un ebreo sotto il terrore tedesco, mise immediatamente in moto tutte le persone influenti che era in grado di manovrare. Ahimè! Il povero Max fu trascinato a Drancy e l’ordine di liberazione che Sert riuscì a ottenere arrivò troppo tardi.
Non una sola volta, nel corso di quei quattro anni di dure prove, ho visto Sert rimanere insensibile davanti a una disgrazia o a un’ingiustizia, qualunque fossero la nazionalità, la razza o il partito di chi le subiva. Come a vent’anni, era rimasto uno di quegli uomini per i quali contano soltanto il valore individuale e la creatura umana.
Reverdy non si era ingannato quando, trent’anni prima, mi scriveva di lui: «... Io so che vita è la sua e voi dovete pensare, vista quella che ho scelto io, fino a che punto io possa apprezzarla. Quella nobiltà d’atteggiamento, quell’ardore paziente e discreto durante il lavoro e la grandezza di questo lavoro fanno della sua vita una bella linea senza fratture... Il tempo che passa, cara Misia, non è niente in confronto a quello che perdura...».

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE