La Nouvelle Revue Française. N.F.R., Gallimard, Paris 1964 - Edizione italiana: La Nouvelle Revue Française. Antologia critica. Scelta
e note a cura di Marco Fini e Mario Fusco. Lerici editori, Milano 1965, pp.
152-155.
Picasso e il rispetto per la natura
di André
Lhote
1° agosto 1921
Nessun artista esige
attenzione e ha bisogno di essere studiato quanto Picasso; nessuno è più di lui
adatto a scoraggiare le analisi sommarie che il pubblico preferisce. All’inaugurazione
della sua mostra, un poeta, avvezzo a riconoscere a prima vista in una galleria
le opere dell’amico, sconcertato dalla loro varietà, incominciò a chiedere: «Ma
dove è Picasso in tutto questo?». È opinione generalmente condivisa che il
pittore degli Arlecchini non abbia ancora «trovato se stesso»; che egli sia
tormentato dai dubbi; che un’intelligenza eccessiva e un occhio troppo
esclusivamente rivolto verso se stesso gli impediscano di acquistare quella personalità, alla quale oggi, per la
prima volta nella storia dell’arte, pubblico e artisti attribuiscono un’importanza
decisiva. La ragione principale di questa incomprensione, pressoché universale,
di cui Picasso soffre, risiede probabilmente nella straordinaria potenza
fantastica dell’inventore del cubismo; e per fantasia, intendo la fantasia tecnica, che è, in fondo, il
solo tipo di fantasia che realmente conti. Infatti, mentre un altro tipo di
fantasia (del quale I tre moschettieri
e La zattera della Medusa sono i
prodotti tipici) seduce facilmente le folle, niente è meno adatto a interessarle
di questa rarissima facoltà, che porta a un rinnovamento continuo dei mezzi d’espressione.
L’impressionismo,
reagendo all’aneddoto pittoresco e riportando in onore l’oggetto comune, liberò
il pittore da mille preoccupazioni di carattere letterario. Eppure, prima dell’avvento
del cubismo, troppi insistevano ancora nel trattare i temi più semplici da un
punto di vista sentimentale e, quindi, aneddotico. Un’eccessiva compiacenza nel
registrare un gioco di luce, il particolare di un tappeto, le pieghe di un
materiale, minacciava di allentare e limitare le qualità puramente pittoriche
dell’artista. Ma Picasso decise di lavorare sugli stessi temi sino all’esaurimento
non delle sue facoltà inventive, ma della sua fantasia, dando così di ogni tema
tante interpretazioni quanti erano i motivi d’invenzione che egli poteva in
esso trovare. Una chitarra o una ciotola su un tavolino gli fornirono per due
anni una fonte inesauribile di idee plastiche. In questa mostra, possiamo
vedere due diversi esempi di questa sorta di fotografia, in parte emotiva e in
parte intellettuale, da lui applicata alla natura morta.
Un pittore d’altri
tempi e di diversa scuola, disorientato da tanto arbitrio, mi domandò alla
mostra per quale ragione il pittore cubista si era permesso di rendere così
imperfettamente gli oggetti. «Che cosa rimane di quella tazza? - disse. - Una
vaga rotondità e una base informe. E i frutti sono ridotti a tre piccoli cubi».
Dopo di che, esplose indignato contro le inenarrabili libertà che quel pittore
si prendeva con la natura.
Colsi l’occasione
per scagliarmi contro il tenero rispetto che per la natura tanti critici
professano. Essi dimenticano che anche la pittura ha diritto al loro rispetto,
e che gettare uno sguardo distratto sulla superficie delle cose non sarà mai
sufficiente a determinare le leggi dell’arte. Perché tanta insistenza nel
limitare il campo naturale in cui il pittore può decidere di affermare il
proprio dominio?
In questo caso, la
natura veniva limitata all’oggetto materiale: una ciotola di porcellana bianca,
piena di frutta e dai contorni ben precisi. Ma per il pittore, il solo e unico
soggetto, quale egli lo vede, è l’armonia fra il tono della ciotola, quello
delle frutta e lo sfondo. Tutto il resto è letteratura. Le tele di Picasso,
risultati di un’indagine attenta, molteplice ed esauriente, costituivano la
miglior risposta possibile al mio interlocutore. L’immaginazione di costui è
limitata, monolitica, e riesce a intravedere soltanto un modo per esprimere la
realtà. Una volta dipinto il «ritratto» della natura morta, non c’è più posto
nella sua mente per una variazione.
Questo significa che
un esercizio così esclusivo permette una completa raffigurazione degli elementi
che la sua adorata natura gli ha posto davanti agli occhi? No di certo. La
pittura è soprattutto una scelta fra gli elementi contraddittori che uno spettacolo ci presenta. Nessun artista, per
quanto fedele ai canoni classici, può creare un’opera senza sacrificare una
grande quantità di forze potenziali a quelle che l’abitudine lo induce quasi
automaticamente ad adottare. Di conseguenza, quel mio amico, compiendo una
scelta premeditata fra le moltissime forme vive possibili, serve una causa
contraria a quella che egli esalta. E se anche noi adottiamo l’atteggiamento da
lui assunto, non manifestiamo forse una certa mancanza di rispetto per la
natura, che invece continuamente si rinnova?
Picasso e, sulla sua
scia, i pochissimi artisti che non sono soltanto degli intellettuali, hanno
imparato a variare il proprio angolo di visuale, e, trascurando sia le vecchie
prospettive sia le forme classiche di espressione, hanno portato alla luce
mondi insospettati, irriconoscibili all’occhio opaco di quei pittori che si
assoggettano alle direttive della scuola, sia essa ufficiale o libera.
Chiunque dipinga una
ciotola nel suo aspetto più consueto, ne riproduce la materia, limitando la sua
visione all’anatomia dell’oggetto
stesso. Questo metodo è buono, e ci ha dato, fra i tanti maestri, l’ammirevole
Chardin. Ma quando, all’osservazione visiva, si aggiunge un nuovo e sensibile
approfondimento, e si arriva a esprimere, con tutto il cuore, non soltanto il
profumo del frutto, ma quello del giardino dietro la finestra; quando si osa
prendere come tema non la ciotola, materiale e palpabile, una forma bianca e
ovale nel grigio rettangolo della finestra, ma in essa la verde vegetazione
degli alberi oltre il ferro del balcone, nonché lo splendore del cielo azzurro,
non .si dà forse prova di un eguale rispetto per la natura?
Vorrei chiedere ai
miei cortesi obiettori di lasciar da parte per un momento le proprie
prevenzioni e di guardare la grande tela luminosa, di una freschezza
impressionistica tale da fare invidia a Matisse, in cui la tovaglia riversa la
sua bianchezza sulla parete, il verde di invisibili alberi sguscia fra le
sbarre del balcone, e la finestra, infine, permette l’ingresso improvviso di un
enorme e aereo globo di blu. Tra la meticolosa enumerazione delle frutta che la
ciotola contiene (metodo classico) e la descrizione plastica dell’atmosfera in
cui la ciotola è immersa, esiste davvero una grande diversità di intenzioni?
In ambedue i casi -
la rappresentazione dell’oggetto (liberato dalle forze circostanti che
cospirano contro la sua integrità) e la rappresentazione del suo ambiente
pittorico - la Natura viene insieme rispettata e violentata. È impossibile
sfuggire a questa alternativa. Esiste infatti un contrasto irrimediabile fra l’oggetto
in quanto tale, nella sua materialità, purezza e integrità, e la luce, l’atmosfera
che lo qualificano - per non dire di quelle forze psicologiche, di cui un
giorno bisognerà tener conto, e che modificano il soggetto per quella che io
definirei una reazione della Sensazione.
Picasso deve essere elogiato sotto molti aspetti, ma secondo me egli è soprattutto da elogiare per aver avuto, dopo Cézanne, il coraggio di esprimere, non gli oggetti come abitualmente li vediamo, ma le mille qualità plastiche che li accompagnano, pure restando invisibili agli occhi di osservatori distratti.
Picasso deve essere elogiato sotto molti aspetti, ma secondo me egli è soprattutto da elogiare per aver avuto, dopo Cézanne, il coraggio di esprimere, non gli oggetti come abitualmente li vediamo, ma le mille qualità plastiche che li accompagnano, pure restando invisibili agli occhi di osservatori distratti.
PICASSO
UNA SELEZIONE DI OPERE
DAL 1910 AL 1920
in ordine cronologico