lunedì 28 dicembre 2015

Valadon, Utrillo, Utter


Montmartre è una vecchia puttana abile nel vendersi a caro prezzo ai turisti di bocca buona, riservando i dolci momenti d’intimità ai più cari amici.
Sono passati più di quarant’anni dalla prima volta che sono salito sulla butte: almeno due vite fa, visto il rapido scorrere del tempo in quest’era tecnologica. Conservo ricordi di fredde serate invernali, le strade deserte e semibuie, cercando luoghi tranquilli dove cenare - e vecchie locande col ceppo nel camino acceso e una buona cucina famigliare non erano difficili da scovare. Di place du Tertre ho una visione chiara e precisa stampata nella mente: senza tante grida, sotto gli alberi due uomini si scazzottavano di santa ragione.
Eppure, sebbene negli anni Settanta la butte non fosse ancora invasa dal turismo becero quanto lo è oggi, ai miei occhi appariva già un corpo morto: il Bateau-Lavoir era andato in fumo nel 1970, i mulini a vento abbattuti, le vecchie strade scavate nel gesso ricoperte d’asfalto, la bohème estinta.
Oggi lassù ci salgo di rado, se non per cercare vecchie targhe che ricordano gli indirizzi abitati da scrittori e pittori che hanno lasciato un profondo solco nella nostra civiltà. Solo le targhe, però, perché le stalle allora popolate da gente come Picasso o Max Jacob ormai non esistono più, sostituite da anonimi palazzi - e di molti dei vecchi locali pubblici è rimasto soltanto il nome, talvolta nemmeno all’indirizzo giusto.
Come sempre, prima di partire mi documento. Per comprendere Montmartre mi sono procurato un certo numero di libri, tutti facilmente reperibili in rete e scaricabili in formato pdf. Per anzianità è giusto iniziare con le Lettres de Montmartre par Mr. Jeannot Georgin, a Londres 1750. A seguire: L’abbaye royale de Montmartre publié et annoté par Édouard Barthelemy, Paris 1883; Montmartre di Georges Renault & Henri Chateau, Paris 1897; Paris Atlas, testo di Fernand Bournon, con 28 carte e 595 riproduzioni fotografiche, Paris 1900; The Illustrators of Montmartre di Frank L. Emanuel, London 1904; Curiosité Historiques et Pittoresques du Vieux Montmartre di Charles Sellier, Paris 1904; Le vieux Montmartre con testo e disegni di André Warnod, Paris 1915 - a cui aggiungo, buon ultimo, un lavoro di sua figlia Jeanine: Le Bateau-Lavoir, Paris 1986.


Tra tutte le vie di Montmartre poche eguagliano la rue Cortot per il numero di artisti che vi hanno abitato. Collegante rue du Mont-Cenis con rue des Saules, la vecchia rue Saint-Jean oggi dedicata allo scultore parigino Jean-Baptiste-Camille Cortot (1796-1843) fino al 1899 di notte era rischiarata da una sola lanterna ad olio, alla faccia della Ville-lumière.
Qui non intendo elencare tutti i nomi degli artisti e il numero corrispondente al loro studio o alla loro abitazione, limitandomi a un solo recapito: il numero 12 - un tempo 16, rue St Jean - dove si trova la Maison Rosimond, oggi Musée du Vieux Montmartre. Oltre che all'attore Claude Rose - o Roze, o de la Rose, detto Rosimond ma anche Jean-Baptiste Du Mesnil, un allievo di Molière e come lui morto sulla scena -, a questo indirizzo hanno abitato e lavorato Pierre-Auguste Renoir, Vincent Van Gogh, Paul Gauguin, Raoul Dufy, Francisque Poulbot, Pierre Reverdy, André Antoine, Maximilien Luce, Léon Bloy e altri ancora.
Tra il 1912 e il 1926 il primo piano della casa che dà sul giardino diventa la residenza-studio del “trio infernale”: Suzanne Valadon, suo figlio Maurice - nato dall’incontro con lo spagnolo Miquel Utrillo - e André Utter, il compagno di Suzanne (più giovane di suo figlio). Tre pittori a cui la vita ha regalato alti e bassi incredibili, momenti raccontati con leggerezza da John Storm, Nel cuore di Montmartre. La vita di Suzanne Valadon, Castelvecchi 2015, a cui rinvio per ogni dettaglio.


Un secondo libro - stavolta più vicino alla Valadon artista, arricchito da molte illustrazioni di quadri e disegni - è Suzanne Valadon, scritto da Janine Warnod e stampato per Flammarion nel 1981.


Passano gli anni, scende l’oblio e anche la casa-studio che fu abitata da Suzanne, André e Maurice subisce le ingiurie del tempo, rovina che si prolunga fino a tempi a noi vicini, quando le autorità cittadine decidono di mettervi mano e dopo dieci anni di complessi restauri il 17 ottobre 2014 lo stabile riapre alle visite, riproponendo i locali e lo studio arredati con mobili d’epoca, ricreando l’arredamento originale così come conservato dalle immagini fotografiche.
E arriviamo ad oggi. In occasione del 150mo anniversario della nascita di Suzanne - figlia di padre ignoto, nata a Bessines-sur-Gartempe il 23 settembre 1865 e battezzata col nome di Marié-Clementine Valadon, il cognome della madre - le mura di questa casa-atelier ospitano la grande mostra che porta il titolo Suzanne Valadon, Maurice Utrillo, André Utter, la cui visita è stata prorogata fino al 13 marzo 2016.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
5 novembre 2015

































Utrillo, Valadon e Utter, 1919
Valadon, Utter e Utrillo, 1920




mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Alice B. Toklas


Come di consueto, ogni anno passo almeno una settimana en flanand per le strade di Parigi, sulle tracce di pittori, scultori, scrittori, poeti e altra genìa sparsa, con un indirizzo d’obbligo: 27, rue de Fleurus.
Anche quest’anno la fortuna mi è stata amica: il mio arrivo a questo indirizzo è coinciso col sopraggiungere della stessa signora che un anno fa mi aveva autorizzato ad entrare nel giardino.
“Dopo l’uscita di Midnight in Paris di Woody Allen”, mi dice la mia ospite, “gli americani sono arrivati a frotte, ma di italiani interessati a questo indirizzo ricordo solo lei”. Sarà.
Ho scattato nuove immagini, ho letto altri libri e altri articoli, quasi sempre pubblicati oltre oceano.
Com’è noto, non amo rubare il lavoro altrui: se altri hanno scritto prima di me su di un argomento, trovo giusto cedere loro il passo piuttosto che scimmiottare con mie parole quanto letto altrove.
E qui userò lo stesso metodo, facendo precedere le mie immagini da un brano estratto da The Alice B. Toklas Cook Books, scritto a Parigi nel 1954.
In Italia, questo libro è reperibile in più edizioni, con titoli ed editori diversi:
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
Fatto curioso, le due traduttrici hanno consegnato alle stampe due testi praticamente identici, eccezion fatta per rari e poco significativi dettagli.
E adesso cedo il passo ad Alice Babette Toklas, la “mogliettina” factotum di Gertrude Stein.  

Piatti per artisti

Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus, la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutte tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.

~ Branzino Picasso ~

Preparai un court-bouillon di vino bianco secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes. Feci bollire il tutto per un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon. Poi lo scolai, lo asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.

Mi sentii orgogliosissima del mio capolavoro, e quando lo servii Picasso diede in esclamazioni di meraviglia. Poi aggiunse: Non sarebbe stato meglio prepararlo in onore di Matisse invece che mio?

Picasso seguì per parecchi anni una dieta molto rigida; in effetti riuscì chissà come a non sgarrare neppure durante la guerra mondiale e l’occupazione. Si rilassò soltanto dopo la liberazione. Tipico no? La carne rossa gli era proibita, ma questo non era un problema perché in quei giorni i francesi servivano molto raramente carne di manzo, con l’eccezione dell’inevitabile filetto alla sauce Madère. Nemmeno il pollo era tenuto in grande considerazione, mentre il cosciotto di agnello arrosto era visto con maggior simpatia. Oppure gli servivamo del tenero lombo di vitello preceduto da un soufflé di spinaci, dato che il medico gli aveva raccomandato di mangiare molti spinaci e il soufflé era il modo meno insipido di presentarli. Si poteva rendere più appetitoso con l’aggiunta di una salsa. Il problema era quale salsa Picasso potesse mangiare nonostante la dieta. Gli davo una scelta. Cuocevo il soufflé in uno stampo ben imburrato immerso in un recipiente di acqua bollente. Quando era cotto al punto giusto lo sistemavo in un piatto da portata sul cui bordo disponevo eguali quantità di salsa hollandaise, salsa alla panna e salsa di pomodoro. La mia speranza era che i colori delle salse riuscissero a far sembrare meno antipatico il soufflé di spinaci. Un dilemma crudele, disse Picasso quando gli venne servito il soufflé.

[…] Parecchie volte ho avuto la tentazione di uccidere una cuoca stupida o ostinata, ma di solito mi limitavo a immaginarlo, la fantasia sostituiva l’omicidio effettivo. Poi venne da noi a lavorare un allegro, incantevole austriaco. Era un cuoco perfetto. Svelto e silenzioso, Frederich, lo chiamerò così, cucinava per noi i piatti più sofisticati e complessi, non si spaventava davanti a nulla. Ci preparava gelati in piccoli recipienti a forma di uovo che disponeva su nidi di zucchero filato colorato. Adorava preparare torte a forma di oggetti diversi per ciascuna persona, a seconda della sue caratteristiche: di libro per Gertrude Stein, di rosa per sir Francis Rose, di pavone per un’amica molto vanitosa e di cagnolino per me. Riceveva di continuo le visite di una ragazza molto graziosa, Duscha, che sembrava uscita direttamente da un’opera di Offenbach. Io e Gertrude Stein li adoravamo. A Natale chiedemmo loro di accettare, fra gli altri doni, una cena innaffiata di champagne in un ristorante di loro gusto per il tradizionale réveillon. A poco a poco Frederich cominciò a confidarsi con me. La sua vita non era più felice come una volta. All’inizio c’era solo la sua fidanzata Duscha, il suo angelo, ma adesso ce n’era un’altra, un demonio, che voleva sposarlo, e minacciava di ucciderlo se si fosse rifiutato. Ci raccontò che lui e Hitler erano nati nello stesso villaggio e che tutti in quel villaggio erano simili tra di loro e molto particolari. Eravamo nel 1936 e ormai sapevamo benissimo che Hitler era davvero un po’ strano. Frederich, d’altra parte, non era tanto strano quanto debole, amante del vino, delle donne e della musica. Ma continuava a essere un cuoco perfetto. Per parecchi anni aveva lavorato nel ristorante di Frau Sacher e spesso ci preparava la famosa Sacher Torte.

[…] Un pomeriggio, mentre io e Gertrude Stein stavamo tornando a casa, vedemmo una persona uscire dalla nostra porta nel cortile. Era una donna dagli occhi neri, piccoli e brillanti. Il demonio, disse Gertrude Stein. Probabilmente, risposi. L’occhiata che le avevo dato bastò a riempirmi di preoccupazione per Frederich. Volevamo che fosse felice e che restasse a cucinare per noi. Più tardi andai a trovarlo in cucina. Era seduto al tavolo, la testa nascosta tra le braccia. Quando mi vide sussultò. Che cosa c’è, gli chiesi. Il demonio, Madame, il demonio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono una bottiglia di preziosissimo Tocai. Voleva avvelenarmi, uccidermi. Ha versato un bicchiere di vino e me l’ha dato. Proprio mentre stavo per bere alla sua salute mi sono accorto che non aveva versato da bere per sé, il suo bicchiere era vuoto, e che non aveva tolto il tappo con il cavatappi. Voleva avvelenarmi. Le ho buttato addosso la bottiglia. L’ho strattonata. L’ho buttata fuori. Oh, Madame, quel demonio riuscirà a farlo, riuscirà a uccidermi. Lo mandai in camera sua.
La mattina dopo non trovai Frederich in cucina. Verso mezzogiorno chiesi alla concierge di salire nella sua stanza per vedere che cosa fosse successo. Tornò dicendo che la porta era aperta e la stanza vuota, c’era solo un baule legato con delle cinghie. Non aveva visto Frederich, quella mattina, ma la signora coi capelli scuri era andata a trovarlo un paio d’ore prima. Che cosa potevamo fare? Niente, se non aspettare che arrivasse Duscha. Arrivò nel tardo pomeriggio. Bella, raffinata ed elegante come sempre, ma con gli occhi rossi e gonfi. Frederich le aveva mandato un telegramma lungo come una lettera, il che era una prova, disse, di quanto dovesse star male. Se n’era andato con quel demonio, inutile cercarli, avrebbero lasciato Parigi. Lui avrebbe sempre amato il suo angelo ma la loro felicità era rovinata per sempre. Lei doveva andare ad avvertire le buone signore, le avrebbero pagato quello che gli dovevano, tre settimane e sei giorni di salario, e con quei soldi avrebbe dovuto comprarsi una frivolité come ultimo souvenir del suo innamoratissimo Frederich.
Mentre leggevo il telegramma, Duscha singhiozzava delicatamente in un delizioso fazzolettino bianco. L’accompagnai in salotto e la lasciai in compagnia di Gertrude Stein, mentre preparavo il tè. Quando mi vide arrivare con il vassoio, mi venne incontro di corsa. Ripose subito il fazzoletto, bevve tranquillamente parecchie tazze di tè e mangiò gli ultimi perfetti dolci viennesi preparati da Frederich, che non avremmo mai più gustato. E adesso che cosa farai, chiedemmo a Duscha. Continuerò a lavorare per la buona principessa, lei capirà. Quando non avrò più gli occhi rossi e avrò dimenticato il dolce debole Frederich ricomincerò a vivere. Le diedi i soldi del salario del suo amante infedele. Lei mi ringraziò e si mise a contarli. Con un sospiro e un singhiozzo piegò con cura le banconote e le ripose nella borsetta. Facci avere tue notizie, le dissi quando se ne andò.
Non ne avemmo per settimane, poi ricevemmo una partecipazione di nozze. In Francia le partecipazioni hanno il nome della famiglia della sposa a sinistra, e quello della famiglia dello sposo a destra. La famiglia di Duscha, da un lontano e impronunciabile villaggio in Austria, aveva l’onore eccetera eccetera e poi la famiglia dello sposo, due nonne e un nonno, i genitori, i fratelli, le sorelle, il tutto cosparso di medaglie al valore e Légions d’Honneur e titoli onorifici, annunciava il matrimonio del figlio con Duscha. Era entrata a far parte di una famiglia della buona borghesia e non avrebbe avuto più niente da temere.

POTEREBBE INTERESSARTI ANCHE










martedì 18 agosto 2015

Indagine su Guernica di Picasso


Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi” e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.

Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste, posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero 7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu, ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989, Mursia 1993, pp. 28 e 29:

Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.

Aggiunge qualche giorno dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.

* * *

Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata “pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935 (bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.

Scrive lo storico Giorgio Bonaccina, Le bombe dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:

È stato detto che nei paraggi di Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono, lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai “dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”.

La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i lavori del 1933 sul tema Minotauro che preparano il terreno a Guernica) già il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare l’attenzione altrove.

Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un problema interno, esportalo. E così è per Guernica, che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.

* * *

Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941 nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.

Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore, di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:

Antonina VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions Albin Michel, Paris 1961
Edizione italiana: Storia di Picasso
Traduzione di Renzo Federici
Giulio Einaudi editore 1961
pp. 362-63

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».

Patrick O’BRIAN
Pablo Ruiz Picasso. A Biography, 1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15

Fu nell’estate che seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942 migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di résistants, di comunisti, di ebrei, di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau, Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora, appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari, mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se non alcune cartoline di Guernica che Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No», rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso. Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze, lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.

Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28

Tout de suite, il faut froid. Mon énorme poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand regarde une reproduction de Guernica et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : « Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.

Conclusione: dopo aver letto non meno di trenta biografie su Picasso, un’opinione in merito me la sono fatta: quel botta e risposta, almeno così come raccontata, è un’invenzione “popolare” e questo lo si capisce chiaramente anche, ma non solo, dalle parole che Perry fa recitare a Picasso: j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel. Che tradotto vuol dire: se nei momenti più tristi questa storia è servita a tenere alto il morale del popolo francese …va bene così. Si stampi.

lunedì 10 agosto 2015

Il Puerto de Ibañeta e la Chanson de Roland


Lo spagnolo Puerto de Ibañeta - detto Col de Roncevaux dai francesi e Colle di Roncisvalle dagli italiano – è il nome dato al valico pirenaico le cui due opposte vallate terminano (o iniziano: una salita altro non è che una discesa vista dal basso) a Pamplona e a Sant-Jean-Pied-de-Port. Quante volte ho valicato questo colle? tante, in tutte le stagioni, col sole, con la pioggia (sovente) e con la neve - e quante diapositive vi ho scattato? tante, ora sepolte in cantina.


Ovunque lo sguardo si posi appaiono cippi di pietra che intendono commemorare il ben noto falso storico reso “fatto di cronaca vera” dalla fortunata leggenda medievale che vuole sia questo il luogo del martirio del prode/beato Orlando, compagno d’armi di Carlomagno, gran massacratore di popoli, quindi vicino ad essere proclamato santo dai gestori di Santa romana chiesa.


Il mio ultimo passaggio è datato 16 maggio 2015: quel giorno a Pamplona splendeva il sole, a Sant-Jean-Pied-de-Port pure, ma non al Puerto de Ibañeta, avvolto nelle nebbie e bagnato da una fitta pioggia, di quella a gocce sottili sottili che subito arrivano alle mutande (sempre che uno le indossi, ovviamente). Ci spaventiamo per così poco? no di certo. Posteggiata l’auto, per me è un must risalire i dolci pendii e da qui scattare nuove fotografie (in digitale, stavolta), immagini qui sotto inserite in sequenza temporale di scatto.

Riparato sotto una rossa mantella vedo passare un homo viator diretto all’ormai prossima sosta di Roncisvalle e la mia memoria subito attiva il tasto rewind fermandosi sugli anni Ottanta, periodo in cui io, Daniella e nostro figlio Marco - non dimenticando Zorba e Felix, due asini presi a nolo per il trasporto dei bagagli – giravamo per le terre di Francia e di Spagna alla ricerca delle antiche strade per Santiago de Compostela. Quelle vere, però, non le iper-segnalate piste di oggi che fanno dire agli spagnoli: un tempo le strade portavano ai corpi santi, oggi portano ai ristoranti.

Bibliografia. Volendo stare su di un terreno facile, per una breve storia di questo valico rinvio a Carlo Magno. Il signore dell’Occidente, Giulio Einaudi editore 2004 (cfr: le pp. 73-80), mentre per la turpinea leggenda propongo un indirizzo internet dove è possibile consultare e/o scaricare la riproduzione fotografica di una manoscritta Chanson de Roland del XII secolo.



In lingua moderna, Il Liber IV sancti Jacobi apostoli e la Historia Karoli Magni et Rotholandi o Historia Turpini - in origine rispettivamente libro V e libro IV del Codex Calixtinus conservato nell’archivio della cattedrale di San Giacomo di Compostella - sono stati riadattati e pubblicati col titolo Compostella. Guida del pellegrino di San Giacomo. Storia di Carlo Magno e di Orlando. Introduzioni di Raymond Oursel e Franco Cardini. Edizioni Paoline 1989.


Aggiungo: chi è interessato alla recente evoluzione del commercializzato pellegrinaggio a Santiago, l’Università di Bergamo ha messo in rete dei dati statistici leggibili all’indirizzo


Se strada facendo decidete per una sosta a Burguete, villaggio poco lontano da Roncisvalle, non dimenticate E il sole sorge ancora, il romanzo di Ernest Hemingway poi ribattezzato per il mercato inglese Fiesta e così rimasto anche in Italia per Einaudi e Mondadori - ma non per Jandi Sapi, il suo primo editore.

prima edizione in lingua italiana: gennaio 1944

prima edizione Einaudi: 23 aprile 1946

Restando in tema di pellegrinaggio, mi piace ricordare sia l’aforisma di Ambrose Gwynnette Bierce: Pellegrino, viaggiatore che si prende sul serio - sia quanto scritto nel 1941 da Yogmaya, prima poetessa “ufficiale” nepalese:

Vanno in pellegrinaggio per lavare i peccati
tiranni e imbroglioni corrono incontro al loro destino.
Prima saccheggiano i miseri averi dei disgraziati
poi si pagano le spese con quel bottino.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
16 maggio 2015