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mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck


Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” - e supponendo sia ben nota a tutti  l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nellaltro riportano  a quell’indirizzo.
Uno è Montmartre & Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di Gertrude e Alice B Toklas poi.


 Un pomeriggio in rue de Fleurus

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.

Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.

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venerdì 20 marzo 2015

Picasso visto da Hélène Parmelin

L'Aubade, 1965

Fedele alla mia scelta editoriale di riproporre brandelli di vite altrui - Leonardo, Hemingway, Joyce e (adesso) Picasso - allego un breve capitolo estrapolato dal citatissimo (dai biografi) libro Picasso dice… di Hélène Parmelin - traduzione dal francese di Domenico Tarizzo, Rizzoli Editore, Milano 1971, pp. 57-63.



Picasso moralista (seguito)

Tranquillamente allineati sul terreno, chiusi negli esagoni dorati delle piastrelle di ceramica, dei diavoli o dei fauni, degli uomini insomma, facendo sfoggio di tutta la loro virilità, perseguitano col loro ardore, decisi a violarle, ninfe chiomate, fuggenti, spaurite, con tutte le loro grazie esposte: delle donne insomma.
Queste sarabande sfrenate di seni, capelli, sessi, barbe, fianchi, con i piccoli tratti d’unghia ai margini, sono contenute nel piccolo spazio di una piastrella. «Sarebbe carino, un’intera stanza piastrellata così» dice Picasso.
Le ha fatte in una settimana dell’agosto 1962. Nessuna donna o ninfa è consenziente. Ma appare evidente che l’uomo, il diavolo, il fauno avrà l’ultima parola. Nessuna bella fuggitiva si sottrarrà a lungo a simili armi, né a volontà così deliberatamente aggressive. E così trionfanti.

Ieri, grigia giornata d’ottobre, ho fatto con un amico una lunga passeggiata nel parco di Versailles, scendendo verso il grande canale e il Trianon, in mezzo ad alberi d’oro, in una divina solitudine, ben presto però un po’ triste.
Fortunatamente c’erano delle statue, che il parco deserto rendeva più piacevoli del consueto: una quantità di Ercoli e di Apolli, ogni genere di amabile divinità più frequentabile del silenzio dei viali. Le loro foglie di vite ben assestate, più aderenti di guaine d’atleta, donavano alle loro figure una dolcezza ermafrodita.
Ercole stesso, malgrado la clava e l’immancabile leone Nemeo, ne traeva una sorta di angelismo morbido, ben in carattere con la sua natura di statua di Versailles, povero Ercole!...
Picasso si sarebbe divertito se avesse saputo che camminando severamente in questo parco solitario e gelido (ma con gli occhi fissi sulle foglie di vite come la dama di una caricatura in visita al museo) io pensavo al posto che occupano i sessi nella sua pittura: non intendo l’uomo e la donna ma i loro attributi.
Un posto enorme. E in piena evidenza, realistico, in una parola. Intendo cioè dire che il posto che occupano non è maggiore di quello del quale la natura li ha resi degni...
Nella pittura di Picasso tutto è naturalmente conforme alla realtà, comprese quelle parti del corpo umano che nell’uomo e nella donna hanno una funzione primaria.
Il sesso di una donna, il suo occhio, la mano, il piede hanno diritto allo stesso sguardo da parte del creatore responsabile.
Gli occhi, nei volti raffigurati da Picasso, si muovono, si allungano, si ergono verticalmente o si volgono le spalle, sono come fiori o pesci, si incalzano come ondate o si sovrappongono come croci; i nasi si dispiegano, espongono il loro profilo e le loro nari, si aprono, si raddoppiano, si siedono o si coricano sul volto, tutto all’interno di una realtà sovreccitata, di una verità più vera, di una poesia più libera; nello stesso modo i sessi diventano qui pittura come in nessun’altra opera conosciuta. Con la medesima naturalezza, con la medesima disinvoltura. Come forse accade solo nei poeti.
E pensare a Picasso, a tutto questo e ai poeti, mi rimanda ad Apollinaire, di cui Picasso parla così spesso, come parla spesso di Max Jacob. «E Salmon?» mi chiede sempre quando arrivo.
Ad ascoltarlo parlare di quel tempo di poeti, si può immaginare la loro gioventù intenta a produrre quell’infinita libertà che li ha fatti ciò che sono. Se Picasso canta una canzone «di Max» o parla di Apollinaire, avviene qualcosa per cui si è al di là del tempo. Si è altrove. Ed è qualcosa di sfrenato, di generoso, di traboccante, una creatività impetuosa, una follia di parole e di idee in cui in piena naturalezza si colloca la verità ed esplode.
«Ombre del mio amore.» Penso a quei poemi di Apollinaire, dove i seni e le “natiche di rosa” di Lou fioriscono tra i canti del soldato-poeta, in mezzo agli orrori della guerra.

O gracieuse et callipyge
Tous les culs sont de la Saint-Jean...

un roseo ardore d’amore esasperato di sbocciare e di poter solo immaginare, in mezzo alla morte, la meraviglia di amare una donna e la donna e di far di questa rosea pelle un sogno tra i cannoni e le trincee, tutto ciò si dispiega nei versi, l’amore e il desiderio che moltiplicano l’amarezza della morte, la morte che ingigantisce l’immaginazione dell’amore... Finché avanza ciò che, negli stessi poemi, Apollinaire profeticamente chiama «il fatale zampillare del mio sangue sul mondo».
C’era tanto Picasso in Apollinaire, c’è tanto Apollinaire in Picasso.
Il fauno d’amore e l’uomo in guerra sono lo stesso loro personaggio, l’uomo in guerra e l’uomo in tutto.

Che facciano l’amore o la guerra, gli uomini e le donne di Picasso rivelano in piena naturalezza di non essere angeli. Per Matisse, il sesso scivolava via, spariva tra le cosce dell’odalisca. Esisteva soprattutto in armonie, colori e arabeschi, per lo più era solo un punto di intersezione del corpo, raramente diceva il suo nome.
Gli splendidi nudi di Matisse non hanno sesso, come non hanno sguardo. I nudi di Picasso hanno l’uno e l’altro. Per lui il sesso del nudo è una parte indispensabile del corpo di cui va cercando la realtà: sembrerebbe un’affermazione lapalissiana, eppure il pudore da secoli livella i corpi. Anche se a nessuno è mai venuto in mente di cancellare dal volto il naso, questa appendice protesa e annusante.
Per Picasso, il sesso, della pittura e della realtà, è un segno dai molteplici significati come l’occhio, è l’occhio del corpo, il suo punto cruciale, un fiore che sboccia in tratti, macchie o colori in cima allo stelo che nasce dal congiungimento delle gambe. È sempre quello di un innamorato e di un poeta, senza ritegno e senza malinteso.
E se Picasso canta l’amore, conosce un solo modo di farlo. Per di più, vi sono quella sua vivacità spagnola, quella felicità dell’amore, quel costante stupore dell’impeto in tutto, quella capacità di vita senza freno, che danno alla sua opera un respiro così ampio.
Un giorno Picasso voleva far piacere a un amico. Disse:
Ti faccio un disegno”.
«Splendido!»
Cosa vuoi come soggetto?
«Vorrei un disegno sull’amore.»
Picasso disegnò un uomo e una donna che fanno l’amore. Era un disegno magnifico e un magnifico amore. Vi è sempre in Picasso, come in tutti gli esseri che amano l’amore, una specie di intenerimento e di emozione di fronte alla coppia, e ciò colmava il disegno di calore e di tenerezza.
«Ma che cosa posso farne?» disse imbarazzato l’amico. «Non oserò mostrarlo e tanto meno appenderlo.»
Lo tenne nascosto per anni. Quando fu finalmente esposto, quel disegno non turbò mai nessuno.
Picasso ricordò a lungo l’incidente, che trovava terribile.
E a qualcuno che un giorno diceva, non so più a proposito di cosa, che in arte non può esserci pudore, rispose che la pittura poteva dipingere qualsiasi soggetto, a condizione che fosse vera pittura.
Solo quando la pittura non è tale, può esserci oltraggio al pudore.

Tutta la pittura di Picasso glorifica la virilità, e non solo la glorifica, ma l’associa com’è naturale alla potenza, alla violenza, ed eventualmente alla distruzione e alla vittoria.
In un quadro non sopprimerebbe né il sesso dell’uomo né il seno della donna.
Tutti i suoi tori portano ostentatamente gli attributi che fanno la loro potenza. Tutti i terribili cavalli dei guerrieri e delle guerre conducono la loro battaglia di stalloni contro gli uomini, schiacciano l’umanità col sesso in piena evidenza, guerriero e cavallo a un tempo.
Lì è la loro forza e il simbolo della conquista.
Il toro nell’arena, senza i segni della sua virilità diventa l’animale da macello, di quel macello che si sta per farne. Ma se è toro, qui risiede il segreto del suo furore eterno e della sua indomabilità.
Resta l’amore, e Dio sa quanto ne sia impregnata l’opera di Picasso, perché l’amore è la vita stessa. Con tutte le risorse e con tutte le materie del suo mestiere egli ha generato la più numerosa folla di amanti, centauri, ninfe, dei, belle, uomini e donne, spagnole e matadores, nudi a colazione sull’erba, donne d’Algeri, grandi nudi in piedi, seduti, coricati, migliaia di disegni in cui la coppia eternamente cerca l’amore e se ne inebria.
Eppure non vi è nulla di più casto della pittura e del pittore che dipinge. Basta guardare «Il pittore e la modella». La modella è sempre nuda. Come la realtà. Il pittore sempre severo nelle sue vesti di pittore, dietro il cavalletto, preoccupato esclusivamente del problema di dipingere di fronte al nudo. Anche se il clima d’amore nel quale egli può vivere lo riempie e gli dona l’incomparabile ricchezza dei giorni dell’amore, la tela lo chiude e lo astrae. Allora la verità dell’amore si esprime, pittoricamente, all’interno del quadro, nell’intimo di quello strano mondo che è quello del pittore nell’atto di di­pingere.

Il mondo rimprovera a Picasso, e ci vorrà molto tempo prima che smetta, la sua libera rappresentazione della figura umana e l’emancipazione che egli ha dato ai tratti del viso e del corpo per meglio esprimerne la vita.
Eppure nessuno ha esaltato come lui la donna e la sua femminilità, la sua bellezza e fragilità, la sua dolcezza, la sua maternità. Davanti a questo corpo egli è un eterno stupefatto e continua a cantarlo. E a interrogarlo. È quello che egli piange, torce, squarcia nei disastri della guerra o nei massacri degli Innocenti. È il soggetto che preferisce dipingere, più di ogni altra cosa al mondo.

Quando Picasso ha dipinto la serie dei «Déjeuners sur l’herbe», l’esposizione si aprì a Parigi con le tele da un lato e i disegni dall’altro.
Nel frattempo nello studio di Mougins i «Déjeuners sur l’herbe» continuavano a crescere e a moltiplicarsi.
Quando da Parigi si parlava per telefono con Picasso a Mougins, e gli si raccontava delle esposizioni e dei vernissages, lui rispondeva sempre: «Ma qui continua, sapete. La cosa va avanti!». Disegnava e disegnava «Déjeuners sur l’herbe». A forza di disegnarli o di dipingerli, tutti i personaggi che vi partecipavano cominciavano a vivere una vita propria, a esistere, con i caratteri dati loro dai disegni, da un «Déjeuner» all’altro. Tra quei bei nudi campagnoli e i barbuti intellettuali sempre impegnati a parlare, con le loro mani eloquenti, i loro bastoni da passeggio e i cappelli, un bel giorno accadde quel che fatalmente doveva accadere.
«Ci si meraviglia persino» disse Picasso «che non sia successo prima.» Il nudo di Manet di Picasso stava finalmente per diventare preda di quei bei parlatori correttamente vestiti. O almeno essi stavano facendogli una corte... visibile.
«Non si può immaginare cosa stia succedendo» diceva Picasso «Cose orribili!...»

Così terminò, in modo perfettamente naturale, la lunga e severa conversazione, sull’erba della colazione, tra i nudi e i signori.

Coppia che fa l'amore, 1902
Due nudi e un gatto, 1903
Gli amanti, 1904
Il pittore e la modella (Eva), 1914
Lo stupro (L'abbraccio)
Suite Vollard, tav. 29, verso il 1933
Lo scultore e la sua modella
Suite Vollard, tav. 63, 3 aprile 1933
Il Minotauro beve in compagnia dello scultore e di due modelle
Suite Vollard, tav. 85, 18 maggio 1933
Il Minotauro aggredisce un'amazzone
Suite Vollard, tav. 87, 23 maggio 1933
Toro 3, 1945
Toro 5, 1945
Toro 8, 1946
Toro 11, 1946
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1962

mercoledì 7 gennaio 2015

La nascita del "cubismo" secondo Kahnweiler



Pierre ASSOULINE
Il mercante di Picasso. Vita di D. H. Kahnweiler (1884-1979)
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990
pp 66-73 e 82-83

I legami con Kahnweiler sono fatti di amicizia e di accordo, di mutuo rispetto e di fiducia. Nei suoi ricordi il 1907 è una data fondamentale perché segna l’apertura della galleria di rue Vignon e l’inizio di “una lotta bella e dura”, condotta di concerto dai due uomini. Da parte sua Kahnweiler parlerà sempre di Wilhelm Uhde con immenso rispetto e con infinita gratitudine. Perché una breve frase di Uhde, solo qualche parola, determineranno nel 1907 tutta la sua esistenza.
È l’inizio dell’estate. Un giorno uno sconosciuto entra nella galleria. È vestito in modo strano, si comporta in modo strano. I suoi capelli sono neri come il giaietto, un nero lucente come lignite fibrosa e dura. Ma il suo sguardo, ugualmente scuro, profondo e misterioso, illumina il viso. Silenzioso, attento, osserva i quadri a uno a uno e poi se ne va. Non ha aperto bocca. Kahnweiler è molto stupito nel vederlo tornare il giorno dopo, stavolta in compagnia. Ma quel grosso signore barbuto è anch’egli muto, si comporta come l’ometto tarchiato, guarda ogni tela e se ne va.
Kahnweiler ha già dimenticato l’episodio quando Uhde gli suggerisce di andare a fare un giro in uno studio di Montmartre e più precisamente in quello di Pablo Picasso: “c’è un quadro, una cosa molto strana, di tipo assiro...”
Due giorni dopo egli si inerpica per gli scalini che portano alla Butte, spinto dalla curiosità e dalla fiducia nel gusto di Uhde. Non sa niente o quasi di Picasso. Ha avuto un saggio del suo lavoro passando davanti alle vetrine di Sagot, Vollard o di Berthe Weill, e non l’aveva straordinariamente colpito. L’aveva considerato un poco sorpassato per l’influsso fauve, troppo trascurato nel trattare il colore.
Finalmente lo studio. L’arredamento è indefinibile, a metà strada fra la miseria e il pittoresco. Sulla porta sono stati infilati in fretta dei pezzi di carta. “Manolo è da Azon”, “È venuto Totote”, “Derain verrà nel pomeriggio”. È molto da artista, questa porta. Il pittore apre. È lui, Picasso? Questo giovane in camicia, col petto scoperto e le gambe nude? Ma è il giovane silenzioso dell’altro giorno, il visitatore misterioso! E l’amico che si era fatto accompagnare in carrozza era Vollard! Finalmente Kahnweiler capisce!
«Sa cosa mi ha detto Vollard uscendo dalla sua galleria? È un giovane a cui la famiglia ha regalato una galleria per la prima comunione... »
Il colpo è duro, perché viene da una persona che gode della sua completa ammirazione. Kahnweiler si guarda intorno. Che confusione, che guazzabuglio di oggetti disparati, di disegni ammucchiati, di tele posate qua e là. E quanta polvere... Manca il gas e l’elettricità in questa “casa del cacciatore di pellicce”, che passerà ai posteri con il nome di Bateau-Lavoir, una specie di vecchio battello ormeggiato sulla Butte, in cui ogni studio di artista sembrava la cabina di una nave ma senza averne il lusso. Per aver acqua bisogna riempire le brocche al primo piano. Per la luce, Picasso, che lavora molto di notte, si serve di una lampada a petrolio.
Il poeta Pierre Mac Orlan che dalla fine del secolo frequenta le strade di Montmartre descrive la “casa del cacciatore di pellicce” come un luogo orrido. Questi ateliers gli sembrano delle pretenziose scatole di fiammiferi, ma con le assi sconnesse. Alcuni usano come materasso copie dell’ “Intransigéant”, perché ha sei pagine più degli altri quotidiani. È la miseria più completa, ma la gente qui non parla mai di denaro.
E questo famoso quadro assiro? Va bene tutte le altre tele, ma “la” tela di cui parla Uhde... Eccola.
È un colpo. Kahnweiler prima è stupito, poi sconvolto. Ha l’impressione che stia accadendo qualcosa di meraviglioso, di straordinario, di inatteso. Questa visione è una vera e propria mazzata. Tanto più forte perché inaspettata, la mente ancora colma dei pregiudizi suscitati dalle tele rosa e blu. Assiro non è la parola giusta. Ammirevole, certo. Folle e mostruoso insieme, e così commovente, è in ogni caso un’opera importante e indubbiamente nuova. A corto di aggettivi e di superlativi, annientato egli si lascia sfuggire: “È indefinibile...”
Come analizzare e giudicare questa novità assoluta? Kahnweiler non può impedirsi di intellettualizzare e concettualizzare subito questa rivelazione. Questo quadro, che passerà alla storia come Les demoiselles d’Avignon, richiede una valutazione che non si basi solo sul gusto. Non basta vederlo. Bisogna approfondire e capire in che cosa il ritmo delle forme entri in contraddizione con la rappresentazione del mondo esterno.
In questo grande quadro di cm. 235 x 245, Kahnweiler distingue due parti. A sinistra due donne dipinte in chiaroscuro, di colore chiaro, che - da questo punto di vista - non sono diverse dalle opere del periodo rosa. Ma diversamente da quanto ha fatto finora, non è un disegno rialzato. Le forme sono molto modellate, quasi squadrate a colpi d’ascia. A destra due donne, una ritta e l’altra accovacciata. Il colore violento è steso a strisce parallele, qui soprattutto sta la rottura, iniziata e annunciata da questo strano quadro. E qui Kahnweiler intuisce lo sconvolgimento, sente che una tradizione è stata rovesciata. I frutti e i parati che circondano queste donne sono meno importanti; il quadro nel complesso gli sembra incompiuto perché non raggiunge un risultato coerente. A sinistra si è ancora nel 1906, le forme vengono create ancora dall’ombra del chiaroscuro, come prima. A destra si è già nel 1907: il disegno e il colore creano la forma con la direzione dei tratti che la compongono. E una forma squadrata in angoli duri. Questo primo abbozzo cambia tutto: il cubismo ha la sua origine nella parte destra delle Demoiselles d’Avignon.
Picasso gli appare follemente audace. Invece di affrontare i problemi della pittura ad uno ad uno, ha scelto di affrontarli nel loro complesso. Non ha fatto una composizione piacevole, ma ha articolato sulla superficie piana una vera e propria struttura. È un quadro duro e angoloso, come gli spigoli che delimitano le teste. Kahnweiler riassume in poche parole questo insuperabile problema che Picasso affronta con un soprassalto disperato e patetico: è la rappresentazione di cose colorate in tre dimensioni su una superficie piana incorporate nell’unità di questa superficie. Certo non tutto è rivoluzionario nelle Demoiselles d’Avignon. Picasso disorienta perché sboccia in un paesaggio agitato dai fauves e per lui la luce è solo un mezzo per valorizzare i corpi. Inoltre l’aver sottoposto le parti al ritmo dell’insieme del quadro crea una deformazione. Ma questo aspetto spettacolare a Kahnweiler non pare la cosa essenziale. Egli ricorda che è stata tentata anche da Cézanne e Seurat, Van Gogh e Gauguin.
Dove sta allora la novità? A destra, ma in che cosa? Nel fatto che il pittore non cerca di imitare il mondo esterno, ma di coglierne il significato. Per Kahnweiler non c’è alcun dubbio che questa nuova scrittura plastica non segna solo la fine del fauvisme. È un passo decisivo nella storia della pittura, una vera rottura. Si capisce come chi ha visto questo quadro l’abbia giudicato una pazzia.
Kahnweiler ne è colpito. Ma è il solo. Quando Picasso ha mostrato il suo quadro straordinario ai suoi amici, ha avuto solo giudizi ironici. Parole che talvolta volevano scoraggiarlo, ma che finivano per essere sarcastiche e offensive. Quando riceve per la prima volta Kahnweiler nel suo studio è completamente solo, abbandonato di fronte alle sue creature. Gli amici gli sono vicini, ma sono preoccupati come davanti a un trapezista che lavori senza rete. «È come se qualcuno bevesse petrolio per sputare fuoco», ha detto Braque.
Derain, che considera l’impresa disperata, dice a Kahnweiler: «Un giorno troveremo Picasso impiccato dietro il suo grande quadro. »
Lo scandalo resta nei limiti della Butte di Montmartre. Picasso è diventato matto. Il suo studio, che il poeta Max Jacob definisce “il laboratorio dell’arte moderna”, prepara mostruose alchimie. Lo stesso Uhde a cui Picasso ha mandato un biglietto disperato per presentargli le sue Demoiselles non ne è stato spaventato come gli altri, ma per lo meno sconcertato. Assiro... Stupito, ma prudente. Gli ci sono volute parecchie settimane di riflessione per capire e accettare.
Tutti costoro non sono però degli imbecilli. Pittori, critici, poeti collezionisti... Li conosce bene, non sono degli accademici, sono degli esperti, aperti e sono degli amici. Essi trovano sulla tela le deformazioni del reale, ecco un braccio, dei seni, ma in quali condizioni! Tutto ciò non può che ispirare un sentimento d’orrore. Più tardi Picasso confiderà a Kahnweiler: «... dicevano che mettevo il naso di traverso... ma bisognava pure che lo mettessi di traverso perché si accorgessero che era un naso!».
In questo momento straordinario il giovane mercante si sente come Vollard, che la prima volta che ha visto un Cézanne ha provato quasi un pugno allo stomaco, o come Durand-Ruel quando ha conosciuto Claude Monet a Londra nel 1870. Le vie della coscienza estetica sono impenetrabili.
Solidarietà. Ecco che cos’è. Ai piedi delle Demoiselles d’Avignon Kahnweiler e Picasso si osservano, si scrutano, si capiscono. Tutto è detto. Non occorrono altri commenti. Picasso sa che d’ora in poi non sarà più solo. Kahnweiler sa che ha fatto bene a non andare in Sudafrica a occuparsi di miniere di diamanti. Farà il mercante di quadri a Parigi. L’incontro con quest’uomo e con questo quadro da un senso alla sua vita. Probabilmente è quella che, nei libri, viene chiamata nascita di una vocazione. Al suo ingresso in questo studio era già un mercante e quando ne esce lo è ancora; ma non è più lo stesso uomo.
Essi si valutano con lo sguardo. Il mercante ha ventitré anni, il pittore ne ha ventisei. Nei giorni che seguono questo duplice choc essi si rivedono. Kahnweiler compera da Picasso qualche guazzo recente e tre piccoli quadri, già eseguiti nello spirito nuovo, nello spirito della parte destra delle Demoiselles che tanto turbano i visitatori. Fra i tanti studi ed abbozzi vi sono numerosi studi preparatori di questo quadro. E il quadro? Picasso non lo vende. «Non è finito», dice.
Kahnweiler non insiste e non perché non lo voglia, ma non osa. Non ha la forza di carattere per affrontare il pittore, che è chiaramente diffidente. Non lo è solo con Kahnweiler, ma con tutti. Ancora di più con i mercanti. Comunque Vollard e Berthe Weill erano già stati sconcertati da alcune sue tele del periodo blu. Non parliamo delle Demoiselles d’Avignon. Picasso è libero. Non conosce questo tedesco ma è colpito dalla sincerità del suo entusiasmo, perché è eccezionale. È uno dei pochi che crede totalmente in lui, in ciò che è più profondo, nel momento in cui Picasso tocca il fondo della sua miseria morale: la solitudine assoluta. Per avere la sua adesione, vincere le sue esitazioni e superare la sua antica diffidenza, Kahnweiler dovrà provare che nonostante la giovane età e l’inesperienza è capace di difendere le sue convinzioni.
D’ora in poi i loro destini sono legati.
Diventando suo amico Kahnweiler entra nella cerchia degli intimi, conosce il poeta Max Jacob e Guillaume Apollinaire, che vive con Marie Laurencin vicino a casa sua ad Auteuil. Spesso essi fanno delle passeggiate insieme, simpatizzano, chiacchierano, nasce una vera amicizia che sarà spesso turbata da grandi tempeste. Infatti fin dai loro primi incontri Kahnweiler è persuaso che Apollinaire è un grande poeta, e lo ammira sinceramente, ma che non è un buon critico d’arte. Ha con la pittura un rapporto sensuale e intellettuale. Si comporta come un amico con i pittori che gli piacciono, attratto soprattutto dalle novità. In breve, Guillaume non è un critico d’arte, checché ne dica, e il mercante non perde occasione per ricordarglielo, cosa che a volte guasta i loro rapporti.
Kahnweiler rivende subito i suoi primi Picasso a Hermann Rupf. Ha appena il tempo di esporli. Ma egli ne vuole altri, e così prende l’abitudine di andare al Bateau-Lavoir a far visita al pittore. Ha imparato a conoscerlo. Kahnweiler capisce che non bisogna svegliarlo presto al mattino perché gli piace lavorare di notte. Chi lo scuote all’ora in cui abitualmente aprono gli uffici avrà in cambio un pessimo umore. C’è un’altra cosa che offusca il suo sguardo: gli dispiace separarsi dalle sue tele, quando vende i suoi quadri è spesso teso perché li vede andar via. Così fin dall’inizio Kahnweiler impara a non essere troppo insistente. Sono due amici quasi coetanei, ma fra di loro c’è una certa distanza, dovuta forse all’ascendente del pittore, alla sua sicurezza, alla fiamma della sua fede. Sono qualità che ha anche Kahnweiler, ma apparentemente con minor forza.
Se si pensa alla sua prudenza... Forse è questo il motivo per cui si abbona all’Argus de la presse, per ricevere tutti i ritagli di giornale in cui sono citati il suo nome, quello della galleria e di alcuni pittori. Il 15 luglio 1907 inaugura un grande quaderno nero in cui incolla sulla prima pagina il suo primo articolo ricevuto: L’invasion espagnole: Picasso di Félicien Fagus, pubblicato su “La Gazette de l’art”.
Ma ora la galleria Kahnweiler è agli inizi, vista dall’esterno sembra così artigianale che molti pensano che il mercante stia improvvisando. Ma è un’impressione falsa, anche se egli impara sul campo, lo fa dopo aver stabilito principi e linee di condotta ben ancorate.
Egli comincia così con Uhde, con Rupf e soprattutto con Dutilleul a costituire un piccolo nucleo di amatori fedeli. Kahnweiler li avverte a ogni nuovo arrivo e quasi sempre essi fanno acquisti. Non potrebbe essere più semplice. E partecipare alle mostre? È inutile, a che serve? Kahnweiler è persuaso che molte persone ci vanno, spesso in gruppo, solo per arrabbiarsi o sghignazzare. Non è necessario andare a esporsi ai loro sarcasmi. Quanto al giudizio della critica, dell’accademia e anche del grande pubblico, gli è del tutto indifferente. La pittura è un’arte d’elite. Su questo non recede. Perché dunque cercare le masse?
Detto questo, quando alla fine di agosto Derain gli raccomanda di esporre le sue tele al Salon d’automne che si tiene nell’ottobre del 1907, si affretta ad accontentarlo. Anche Braque vi espone. Il giovane mercante non è ancora molto conosciuto in quest’ambiente prestigioso, perché i suoi quadri vengono indicati con il nome di Kahmweiler o Kohuweiler, quando non Rahnweiler o peggio. In questo Salon il grande avvenimento è una retrospettiva di Cézanne, a un anno dalla morte. Per arrivarci il visitatore deve passare davanti alle tele di Abel-Truchet, un pittore che con l’astuzia del trattino è riuscito ad avere finalmente il primo posto nel catalogo.
Questa retrospettiva che presenta ben cinquantasette tele è importante. Essa permette a uomini come Kahnweiler, Braque, Picasso di misurare il cammino fatto e quanto resti da fare. Grazie a questa esposizione possono prendere meglio le distanze. Essa si tiene al momento giusto, subito dopo lo choc delle Demoiselles d’Avignon. Parecchi pittori della giovane generazione ne escono impressionati, talvolta sconvolti. Fernand Léger, che allora ha ventisei anni, e che qualche anno prima è stato colpito dalle tele del maestro di Aix, esposte su quelle stesse pareti, non rimpiange di aver distrutto allora la maggior parte dei quadri di influenza fauve o impressionista.
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L’altro critico lo interessa per ragioni del tutto diverse. Louis Vauxcelles è un uomo che conta nell’ambiente, un uomo influente, come si direbbe oggi. Repubblicano e difensore di Dreyfus, Louis Mayer ha assunto lo pseudonimo di Vauxcelles dopo gli studi alla scuola del Louvre e alla Sorbona, quando si è dato al giornalismo. Ha una penna affilata e presto si fa un nome. Il suo giudizio non è particolarmente penetrante, perspicace o rivoluzionario. Al contrario, l’arte moderna lo interessa poco. Ma è un uomo attivissimo, che tiene molte conferenze, scrive molte prefazioni a cataloghi e soprattutto molti articoli in riviste e in giornali. È il più fecondo critico d’arte di Parigi, un vero grafomane, una fortuna insperata per i caporedattori a corto di articoli.
Kahnweiler ha già avuto occasione di leggere le sue cronache, ma quel 14 novembre 1908 ha una ragione particolare per cercare la sua firma sulle colonne del “Gil Blas”, poiché vi è la critica dell’esposizione di Braque in rue Vignon. Infatti, girando una pagina legge: “[Egli] costruisce piccole figure metalliche, distorte e incredibilmente semplificate. Non si cura di modellare la forma e riduce tutto, paesaggi, luoghi, persone e case a diagrammi geometrici e a cubi. Non lo mettiamo in ridicolo perché è in buona fede. E aspettiamo”.
Dei cubi... È la prima volta che questa formula viene usata per indicare questo tipo di pittura. Anche se, a quanto si dice, un membro della giuria del Salon d’automne ha detto ‘‘Braque fa dei piccoli cubi”, è la prima volta che questo termine viene usato a questo scopo. Bene o male, adeguata o inopportuna, la parola è lanciata. Così il cubismo viene battezzato da uno che non lo apprezza. Il termine voleva essere cattivo e ironico, di uso limitato e, in ogni caso, puntuale, entrerà invece nella storia.
Vauxcelles sembra essere predestinato a queste situazioni paradossali, perché è stato lui che, proprio tre anni prima, in un articolo sul “Gil Blas” aveva voluto prendersi gioco dei quadri di Matisse, Vlaminck, Roualt e Derain esposti al Salon d’automne. Notando fra tutte quelle tele una scultura di stile molto “italiano”, aveva scritto: “il candore di questo busto stupisce in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello fra le bestie feroci”.
Così il cubismo, come il fauvisme, avrà per sempre un nome inventato da un detrattore. Cosa che tutto sommato rientra nell’ordine delle cose, perché anche il termine impressionismo è nato in circostanze analoghe. Monet, non sapendo quale titolo dare a una delle tele dipinte dalla sua finestra a Le Havre, aveva detto all’incaricato di preparare il catalogo di una mostra collettiva: «Scrivete: Impressioni». Il titolo fu poi Impression, soleil levant. Ma L. Leroy, cercando di essere aspro, ironico e di farsi beffe di lui (“siccome sono impressionato, qualche impressione dovrà pur esserci là dentro...”), suo malgrado, gli ha dato un’importanza storica, poiché il termine ha avuto la fortuna che ben conosciamo.
Kahnweiler trae una certa filosofia dalla coincidenza nel modo in cui l’impressionismo, il fauvisme e il cubismo sono stati battezzati. Senza saperne spiegare il motivo lo considera di buon auspicio, giungendo a fantasticare che forse potrebbe essere il segno distintivo di un movimento autentico. Per lo stesso motivo egli invita a diffidare “dei movimenti coscienti e organizzati”, che si autodefiniscono, mostrando così un carattere artificioso e il predominio dei capi sul gruppo. È pur vero che dai nabis ai surrealisti, passando attraverso i futuristi e i costruttivisti, i decenni seguenti non saranno avari di movimenti che si autoconsacrano.
Il 1908 sta per finire: non è il momento del bilancio, ma quello delle grandi decisioni. Le condizioni in cui si è svolta l’esposizione di Braque, il suo impatto e i commenti che ha suscitato, hanno dato ragione al mercante. In accordo con i suoi pittori egli decide di non fare più delle personali in rue Vignon e di non mandare più quadri alle mostre. Perché mostrare quadri a persone che non sono in grado di capirli? Li espone nella sua galleria a seconda degli arrivi, e questo può bastare, ma non li mostrerà all’esterno e non farà niente per farsi conoscere attraverso i mezzi deleteri della pubblicità. Questo non gli impedisce di continuare a diffondere le sue fotografie all’estero a richiesta dei collezionisti e delle riviste d’arte.
Così, nel momento in cui il cubismo nasce a Parigi, la capi­tale francese è uno dei luoghi in cui ci sono minori possibilità di vederlo, a parte pochi studi, che naturalmente non sono aperti al pubblico, e una piccola galleria che lo è solo un po’ di più... Per trovare il cubismo a Parigi bisogna proprio cercarlo.