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venerdì 20 marzo 2015

Picasso visto da Hélène Parmelin

L'Aubade, 1965

Fedele alla mia scelta editoriale di riproporre brandelli di vite altrui - Leonardo, Hemingway, Joyce e (adesso) Picasso - allego un breve capitolo estrapolato dal citatissimo (dai biografi) libro Picasso dice… di Hélène Parmelin - traduzione dal francese di Domenico Tarizzo, Rizzoli Editore, Milano 1971, pp. 57-63.



Picasso moralista (seguito)

Tranquillamente allineati sul terreno, chiusi negli esagoni dorati delle piastrelle di ceramica, dei diavoli o dei fauni, degli uomini insomma, facendo sfoggio di tutta la loro virilità, perseguitano col loro ardore, decisi a violarle, ninfe chiomate, fuggenti, spaurite, con tutte le loro grazie esposte: delle donne insomma.
Queste sarabande sfrenate di seni, capelli, sessi, barbe, fianchi, con i piccoli tratti d’unghia ai margini, sono contenute nel piccolo spazio di una piastrella. «Sarebbe carino, un’intera stanza piastrellata così» dice Picasso.
Le ha fatte in una settimana dell’agosto 1962. Nessuna donna o ninfa è consenziente. Ma appare evidente che l’uomo, il diavolo, il fauno avrà l’ultima parola. Nessuna bella fuggitiva si sottrarrà a lungo a simili armi, né a volontà così deliberatamente aggressive. E così trionfanti.

Ieri, grigia giornata d’ottobre, ho fatto con un amico una lunga passeggiata nel parco di Versailles, scendendo verso il grande canale e il Trianon, in mezzo ad alberi d’oro, in una divina solitudine, ben presto però un po’ triste.
Fortunatamente c’erano delle statue, che il parco deserto rendeva più piacevoli del consueto: una quantità di Ercoli e di Apolli, ogni genere di amabile divinità più frequentabile del silenzio dei viali. Le loro foglie di vite ben assestate, più aderenti di guaine d’atleta, donavano alle loro figure una dolcezza ermafrodita.
Ercole stesso, malgrado la clava e l’immancabile leone Nemeo, ne traeva una sorta di angelismo morbido, ben in carattere con la sua natura di statua di Versailles, povero Ercole!...
Picasso si sarebbe divertito se avesse saputo che camminando severamente in questo parco solitario e gelido (ma con gli occhi fissi sulle foglie di vite come la dama di una caricatura in visita al museo) io pensavo al posto che occupano i sessi nella sua pittura: non intendo l’uomo e la donna ma i loro attributi.
Un posto enorme. E in piena evidenza, realistico, in una parola. Intendo cioè dire che il posto che occupano non è maggiore di quello del quale la natura li ha resi degni...
Nella pittura di Picasso tutto è naturalmente conforme alla realtà, comprese quelle parti del corpo umano che nell’uomo e nella donna hanno una funzione primaria.
Il sesso di una donna, il suo occhio, la mano, il piede hanno diritto allo stesso sguardo da parte del creatore responsabile.
Gli occhi, nei volti raffigurati da Picasso, si muovono, si allungano, si ergono verticalmente o si volgono le spalle, sono come fiori o pesci, si incalzano come ondate o si sovrappongono come croci; i nasi si dispiegano, espongono il loro profilo e le loro nari, si aprono, si raddoppiano, si siedono o si coricano sul volto, tutto all’interno di una realtà sovreccitata, di una verità più vera, di una poesia più libera; nello stesso modo i sessi diventano qui pittura come in nessun’altra opera conosciuta. Con la medesima naturalezza, con la medesima disinvoltura. Come forse accade solo nei poeti.
E pensare a Picasso, a tutto questo e ai poeti, mi rimanda ad Apollinaire, di cui Picasso parla così spesso, come parla spesso di Max Jacob. «E Salmon?» mi chiede sempre quando arrivo.
Ad ascoltarlo parlare di quel tempo di poeti, si può immaginare la loro gioventù intenta a produrre quell’infinita libertà che li ha fatti ciò che sono. Se Picasso canta una canzone «di Max» o parla di Apollinaire, avviene qualcosa per cui si è al di là del tempo. Si è altrove. Ed è qualcosa di sfrenato, di generoso, di traboccante, una creatività impetuosa, una follia di parole e di idee in cui in piena naturalezza si colloca la verità ed esplode.
«Ombre del mio amore.» Penso a quei poemi di Apollinaire, dove i seni e le “natiche di rosa” di Lou fioriscono tra i canti del soldato-poeta, in mezzo agli orrori della guerra.

O gracieuse et callipyge
Tous les culs sont de la Saint-Jean...

un roseo ardore d’amore esasperato di sbocciare e di poter solo immaginare, in mezzo alla morte, la meraviglia di amare una donna e la donna e di far di questa rosea pelle un sogno tra i cannoni e le trincee, tutto ciò si dispiega nei versi, l’amore e il desiderio che moltiplicano l’amarezza della morte, la morte che ingigantisce l’immaginazione dell’amore... Finché avanza ciò che, negli stessi poemi, Apollinaire profeticamente chiama «il fatale zampillare del mio sangue sul mondo».
C’era tanto Picasso in Apollinaire, c’è tanto Apollinaire in Picasso.
Il fauno d’amore e l’uomo in guerra sono lo stesso loro personaggio, l’uomo in guerra e l’uomo in tutto.

Che facciano l’amore o la guerra, gli uomini e le donne di Picasso rivelano in piena naturalezza di non essere angeli. Per Matisse, il sesso scivolava via, spariva tra le cosce dell’odalisca. Esisteva soprattutto in armonie, colori e arabeschi, per lo più era solo un punto di intersezione del corpo, raramente diceva il suo nome.
Gli splendidi nudi di Matisse non hanno sesso, come non hanno sguardo. I nudi di Picasso hanno l’uno e l’altro. Per lui il sesso del nudo è una parte indispensabile del corpo di cui va cercando la realtà: sembrerebbe un’affermazione lapalissiana, eppure il pudore da secoli livella i corpi. Anche se a nessuno è mai venuto in mente di cancellare dal volto il naso, questa appendice protesa e annusante.
Per Picasso, il sesso, della pittura e della realtà, è un segno dai molteplici significati come l’occhio, è l’occhio del corpo, il suo punto cruciale, un fiore che sboccia in tratti, macchie o colori in cima allo stelo che nasce dal congiungimento delle gambe. È sempre quello di un innamorato e di un poeta, senza ritegno e senza malinteso.
E se Picasso canta l’amore, conosce un solo modo di farlo. Per di più, vi sono quella sua vivacità spagnola, quella felicità dell’amore, quel costante stupore dell’impeto in tutto, quella capacità di vita senza freno, che danno alla sua opera un respiro così ampio.
Un giorno Picasso voleva far piacere a un amico. Disse:
Ti faccio un disegno”.
«Splendido!»
Cosa vuoi come soggetto?
«Vorrei un disegno sull’amore.»
Picasso disegnò un uomo e una donna che fanno l’amore. Era un disegno magnifico e un magnifico amore. Vi è sempre in Picasso, come in tutti gli esseri che amano l’amore, una specie di intenerimento e di emozione di fronte alla coppia, e ciò colmava il disegno di calore e di tenerezza.
«Ma che cosa posso farne?» disse imbarazzato l’amico. «Non oserò mostrarlo e tanto meno appenderlo.»
Lo tenne nascosto per anni. Quando fu finalmente esposto, quel disegno non turbò mai nessuno.
Picasso ricordò a lungo l’incidente, che trovava terribile.
E a qualcuno che un giorno diceva, non so più a proposito di cosa, che in arte non può esserci pudore, rispose che la pittura poteva dipingere qualsiasi soggetto, a condizione che fosse vera pittura.
Solo quando la pittura non è tale, può esserci oltraggio al pudore.

Tutta la pittura di Picasso glorifica la virilità, e non solo la glorifica, ma l’associa com’è naturale alla potenza, alla violenza, ed eventualmente alla distruzione e alla vittoria.
In un quadro non sopprimerebbe né il sesso dell’uomo né il seno della donna.
Tutti i suoi tori portano ostentatamente gli attributi che fanno la loro potenza. Tutti i terribili cavalli dei guerrieri e delle guerre conducono la loro battaglia di stalloni contro gli uomini, schiacciano l’umanità col sesso in piena evidenza, guerriero e cavallo a un tempo.
Lì è la loro forza e il simbolo della conquista.
Il toro nell’arena, senza i segni della sua virilità diventa l’animale da macello, di quel macello che si sta per farne. Ma se è toro, qui risiede il segreto del suo furore eterno e della sua indomabilità.
Resta l’amore, e Dio sa quanto ne sia impregnata l’opera di Picasso, perché l’amore è la vita stessa. Con tutte le risorse e con tutte le materie del suo mestiere egli ha generato la più numerosa folla di amanti, centauri, ninfe, dei, belle, uomini e donne, spagnole e matadores, nudi a colazione sull’erba, donne d’Algeri, grandi nudi in piedi, seduti, coricati, migliaia di disegni in cui la coppia eternamente cerca l’amore e se ne inebria.
Eppure non vi è nulla di più casto della pittura e del pittore che dipinge. Basta guardare «Il pittore e la modella». La modella è sempre nuda. Come la realtà. Il pittore sempre severo nelle sue vesti di pittore, dietro il cavalletto, preoccupato esclusivamente del problema di dipingere di fronte al nudo. Anche se il clima d’amore nel quale egli può vivere lo riempie e gli dona l’incomparabile ricchezza dei giorni dell’amore, la tela lo chiude e lo astrae. Allora la verità dell’amore si esprime, pittoricamente, all’interno del quadro, nell’intimo di quello strano mondo che è quello del pittore nell’atto di di­pingere.

Il mondo rimprovera a Picasso, e ci vorrà molto tempo prima che smetta, la sua libera rappresentazione della figura umana e l’emancipazione che egli ha dato ai tratti del viso e del corpo per meglio esprimerne la vita.
Eppure nessuno ha esaltato come lui la donna e la sua femminilità, la sua bellezza e fragilità, la sua dolcezza, la sua maternità. Davanti a questo corpo egli è un eterno stupefatto e continua a cantarlo. E a interrogarlo. È quello che egli piange, torce, squarcia nei disastri della guerra o nei massacri degli Innocenti. È il soggetto che preferisce dipingere, più di ogni altra cosa al mondo.

Quando Picasso ha dipinto la serie dei «Déjeuners sur l’herbe», l’esposizione si aprì a Parigi con le tele da un lato e i disegni dall’altro.
Nel frattempo nello studio di Mougins i «Déjeuners sur l’herbe» continuavano a crescere e a moltiplicarsi.
Quando da Parigi si parlava per telefono con Picasso a Mougins, e gli si raccontava delle esposizioni e dei vernissages, lui rispondeva sempre: «Ma qui continua, sapete. La cosa va avanti!». Disegnava e disegnava «Déjeuners sur l’herbe». A forza di disegnarli o di dipingerli, tutti i personaggi che vi partecipavano cominciavano a vivere una vita propria, a esistere, con i caratteri dati loro dai disegni, da un «Déjeuner» all’altro. Tra quei bei nudi campagnoli e i barbuti intellettuali sempre impegnati a parlare, con le loro mani eloquenti, i loro bastoni da passeggio e i cappelli, un bel giorno accadde quel che fatalmente doveva accadere.
«Ci si meraviglia persino» disse Picasso «che non sia successo prima.» Il nudo di Manet di Picasso stava finalmente per diventare preda di quei bei parlatori correttamente vestiti. O almeno essi stavano facendogli una corte... visibile.
«Non si può immaginare cosa stia succedendo» diceva Picasso «Cose orribili!...»

Così terminò, in modo perfettamente naturale, la lunga e severa conversazione, sull’erba della colazione, tra i nudi e i signori.

Coppia che fa l'amore, 1902
Due nudi e un gatto, 1903
Gli amanti, 1904
Il pittore e la modella (Eva), 1914
Lo stupro (L'abbraccio)
Suite Vollard, tav. 29, verso il 1933
Lo scultore e la sua modella
Suite Vollard, tav. 63, 3 aprile 1933
Il Minotauro beve in compagnia dello scultore e di due modelle
Suite Vollard, tav. 85, 18 maggio 1933
Il Minotauro aggredisce un'amazzone
Suite Vollard, tav. 87, 23 maggio 1933
Toro 3, 1945
Toro 5, 1945
Toro 8, 1946
Toro 11, 1946
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1962