domenica 24 novembre 2019

Un giorno a Parigi - Le nozze di Apollinaire


Parigi, 4 novembre 2015. Dopo tanta pioggia caduta nella notte al mattino non c’è da aspettarsi un granché e uno sguardo dalle finestre certifica che il cielo è grigio elefante con nuances grigio topo. Meglio dedicarsi a una ricca colazione a base di baguettes e croissants calde di forno, marmellata e tanto café-au-lait, poi si vedrà.


Nel racchiuso spazio denominato Square Laurent-Prache - all’interno dell’area di competenza della chiesa dell’abbazia di Saint-Germaine-des-Prés - sopra una stele marmorea su cui è inciso A GUILLAUME APOLLINAIRE vi è la mozzata testa di Dora Maar, un bronzo di Pablo Picasso - e per la storia della realizzazione di questo tributo mi affido alle annotazioni estratte dai miei archivi.

1927. Picasso esegue una serie di disegni che propone al comitato per il monumento a Guillaume Apollinaire, non approvati.
1928. In autunno Picasso si trasferisce nel laboratorio dello scultore Juli Gonzáles, rue de Médéah, dove si dedica al monumento in onore di Apollinaire.
Nel 1942 Picasso modella la grande testa di Dora Maar, poi utilizzata per il monumento in onore ad Apollinaire in square Laurent-Prache, a lato della chiesa di Saint-Germain-des-Prés.
1958. A Parigi s’inaugura il Monument à Apollinaire.

Una brutta storia questa del monumento, come si evince dalle date, sinonimo di continui ripensamenti (di convenienza politica) da parte delle autorità che governano Parigi, poco interessati a rendere omaggio a colui che più di altri ha saputo rinnovare la sopita poesia francese del suo tempo. Tiremm innanz.





Sul lato opposto della place il Prometheus di Ossip Zadkine è un punto fermo, sempre lì, implacabilmente eretto sul suo piedistallo.





Poco oltre, le fauci de Les Deux Magots e del Café de Flore sono pronte a inghiottire il viandante in cerca di un ristoro.
Parlando di Picasso, così scrive Brassaï:

[1935] La vita di bohème riprendeva il sopravvento. Provato e ferito dai contrasti coniugali, addirittura disgustato della pittura, rimasto solo nei suoi due appartamenti, aveva fatto appello al grande amico d’infanzia Jaime Sabartés che, dopo essere stato a Montevideo, si era trasferito da molto tempo negli Stati Uniti con sua moglie. Picasso gli chiese di ritornare in Europa e di venire ad abitare a casa sua, con lui… Era una specie di grido di disperazione… Era la crisi più grave della sua vita. Sabartés arrivò a novembre e andò ad abitare dal suo amico in rue La Boétie; incominciò a riordinargli le carte, i libri, a decifrarne le poesie e a batterle a macchina… Da allora, come il viaggiatore e la sua ombra, quello con gli occhi più acuti accompagnato da quello più miope, li si incontrava quasi sempre assieme da Lipp, ai Deux-Magots, al Café de Flore, i tre centri d’attrazione di Saint-Germain-des-Prés, che incominciava allora a soppiantare Montparnasse.



1936. Ai Deux Magots una sera Picasso, gli Éluard e altri amici restano affascinati da un insolito spettacolo: una giovane donna gioca a conficcare velocemente la lama di un coltello tra le dita, ferendosi. È questo il primo incontro con Henriette Theodora Marković, in arte Dora Maar, in seguito compagna di Pablo Picasso nonché la modella della testa poi finita sul monumento ad Apollinaire.
Dopo l’edicola vi è l’Ecume des Pages, la libreria che ha preso il posto lasciato vacante da La Hune, un luogo dove a suo tempo - anni Ottanta, quando avevo un ufficio a Parigi - amavo trascorrere le ore tra il dopocena e l’ora chiusura della libreria consultando (e acquistando) tanti libri introvabili in Italia. Vecchi ricordi mai sopiti.


La pioggia cade a livello accettabile. Al numero 202 del boulevard Saint-Germain, angolo rue Saint-Guillaume - strana coincidenza - una lapide ricorda che dal gennaio 1913 al 9 novembre 1918 qui è vissuto e morto l’autore di Alcools e di Le Poète assassiné. Purtroppo, i punti geografici raramente corrispondono alla realtà storica. Il palazzo di oggi poco o nulla a che vedere con quello abitato da Apollinaire, che aveva preso in affitto un piccolo appartamento all’ultimo piano con accesso dalla corte interna.






Scrive Cecily Mackworth in Vita cubista, pagine varie da me raggruppate:

Due giorni dopo, il 17 marzo [1916], in una trincea del Bois des Buttes vicino a Berry au Bac, Apollinaire fu ferito da una scheggia di granata che gli passò l’elmetto e penetrò nel cranio, sopra la tempia destra. Dopo una sommaria operazione nell’ambulanza fu inviato a Château-Thierry, infine all’ospedale militare di Val-de-Grâce a Parigi. Il referto medico informava che avrebbe dovuto essere trapanato immediatamente, ma non si sa per quale ragione, l’operazione fu rimandata e Apollinaire fu trasferito all’ospedale italiano, in cui l’amico Férat era medico ordinario. Qui fu curato da parecchie belle ragazze della nobiltà italiana, che riuscirono ad infondergli coraggio. In quel periodo corresse le bozze di un volume di racconti che prese il titolo da Le poète assassiné. Aveva inoltre una buona ragione per essere soddisfatto. Due anni prima, seguendo le istruzioni di Toussaint Luca, si era dato da fare per essere naturalizzato; gli era stato assicurato che dopo essere stato accettato come volontario nell’esercito francese, gli avrebbero concesso la cittadinanza. Sfortunatamente c’era l’affare delle statuette e una ricca (e spesso tendenziosa) documentazione negli archivi della polizia. Anche il suo legame con il cubismo non lo aveva aiutato affatto e la sua domanda, per un’obbiezione o l’altra, era sempre stata archiviata. Finalmente venne portata a termine una lunga inchiesta la quale concludeva che “dal punto di vista nazionale non si può obbiettare niente che possa farlo apparire sospetto”. La naturalizzazione gli fu concessa proprio nel momento in cui il suo reggimento tornava al fronte, pochi giorni prima cioè che venisse ferito. Così, solo molto tempo dopo, Apollinaire seppe che si era realizzato uno dei più ardenti desideri della sua vita.
La ferita, però, che si pensava dovesse guarire perfettamente, aveva invece intaccato qualche punto vitale del centro nervoso, tanto che una paralisi progressiva gli colpì il braccio sinistro, accompagnata da una forte depressione nervosa.
Alla fine risultò chiaro che il paziente poteva essere salvato solo mediante la trapanazione. L’operazione a quei tempi era una delle più terribili, ma Apollinaire la sopportò con coraggio e buon umore tanto da stupire medici e infermiere.
La paralisi fu arrestata e subito scomparve: ora era convalescente. Non appena gli tornarono le forze, cominciò di nuovo a lavorare furiosamente, inspiegabilmente, come se la parola destino, che aveva sempre avuto per lui un significato profondo e misterioso, contenesse una nuova e più precisa minaccia.
Dopo l’operazione Apollinaire non fu mai più l’uomo di prima. All’ospedale era diventato più grosso che mai, sotto la testa bendata gli occhi avevano un’espressione di selvaggia ansietà che non lo avrebbe mai più abbandonato. Soggiaceva a crisi d’irritabilità, si accrebbe la vanità infantile che era stata sempre particolare del suo carattere e con l’accrescersi di questa divenne sempre più suscettibile.
Quando Apollinaire uscì dall’ospedale con la testa fasciata e la divisa quasi nuova da ufficiale, divenuta un po’ troppo stretta per lui, si trovò in una città completamente diversa. Era l’agosto del 1916, la terribile ed estenuante battaglia di Verdun continuava ancora e l’esito era incerto. La carneficina, lungo tutto il fronte occidentale, non sembrava voler diminuire e la maggior parte dei suoi amici ufficiali erano stati feriti o uccisi. Ma egli talvolta rimpiangeva di aver abbandonato l’esercito. Dopo il forte spirito cameratesco del reggimento, a lui, convalescente, sembrava che i civili, a casa, non sapessero nulla della guerra, se ne interessassero poco e vivessero avviluppati nel loro egoismo. Ovunque era diffuso lo spirito di speculazione e si speculava su ogni tipo di merce, anche la più inimmaginabile.
La posizione di Apollinaire era incerta. La Francia era disperatamente a corto di uomini e specialmente di ufficiali esperti. I feriti venivano ricoverati, curati e rinviati quanto prima possibile in trincea. Dalize, Mac Orlan, Vildrac erano stati tutti feriti nei primi giorni della guerra e adesso erano di nuovo in servizio attivo, così Georges Braque, che aveva avuto una ferita gravissima alla testa ed era stato trapanato come Apollinaire. Questi non era stato ancora congedato e la licenza di due mesi per convalescenza stava per finire. Finalmente André Billy, che aveva amici influenti in molti settori, ottenne per lui un posto nella sezione stampa della censura. Là Apollinaire cominciò un nuovo servizio come funzionario civile, per quanto dipendesse ancora dall’esercito e fosse sempre in uniforme; era obbligato a presentarsi tutt’i giorni, e puntualmente, in ufficio. Il suo compito era quello di eliminare dalle pagine dei quotidiani e delle riviste tutto ciò che poteva essere considerato utile al nemico, o di spirito disfattista. Così egli stesso contribuiva a molti degli articoli che passarono nelle sue mani e spesso ebbe il piacere di pubblicare qualche suo scritto “approvato dal censore” apponendovi le proprie iniziali.
Durante i primi anni della guerra qualsiasi attività artistica che non avesse un carattere decisamente patriottico era sembrata un po’ sospetta. Ora la guerra era divenuta una cosa quasi normale e Parigi stava riprendendo, anche se in modo piuttosto timido e sporadico, la sua vita intellettuale. L’appartamento di Louise Faure-Favier in quai Bourbon era uno dei luoghi più in vista, dove potevano incontrarsi scrittori e artisti in licenza, quasi stupiti di ritrovarsi ancora vivi, e in quelle poche e brevi ore cercavano di rivivere lo spirito pieno di allegria del 1914. In quel mondo alieno in cui ora viveva, Apollinaire trovava qui uno dei pochi luoghi che ancora lo facessero sentire a casa.
Apollinaire, a trentasette anni, era molto diverso dall’uomo di dieci anni prima o forse aveva visto, sentito, indovinato troppe cose.
La Jolie Rousse era stato un addio alla vecchia vita e aveva rivelato un insolito arretramento, un’esitazione di fronte al futuro. Aveva segnato la scelta per l’ordine, ma una scelta che sembra fatta con riserva, con la coscienza inquieta. Anche il titolo ha un significato, sebbene non appaia a prima vista. Apollinaire aveva avuto molte delusioni, per tutta la vita era stato privato di quella tenerezza che aveva sempre desiderato. Ora, infine, aveva conosciuto una giovane con i capelli di un rosso fiammeggiante, dai riflessi dorati, che rappresentava per lui esattamente quell’ardente “ragione” che era giunto a identificare con la verità. Jacqueline Kolb seppe calmare la sua ansia, sorvegliare la sua salute, togliergli i timori e le apprensioni che tanto spesso l’assalivano. Ella era il sostegno; riuscì talvolta a fargli ritrovare la vecchia capacità di tanta allegria, che riconosceva come il dono più prezioso e che temeva tanto di perdere.
Apollinaire e Jacqueline Kolb si sposarono nella chiesa di Saint-Thomas d’Aquin il 2 maggio del 1918, Picasso, Ambroise Vollard, Lucien Descaves e Gabrielle Picabia furono i testimoni. Misero su casa in un appartamento del boulevard Saint- Germain e la vita continuò con lo stesso ritmo eccitante. Apollinaire si alzava presto, faceva il caffè, mentre canterellava le cinque o sei note al ritmo delle quali, invariabilmente, componeva le poesie. Poi cominciava la giornata di lavoro al ministero, intervallato dalla tormentosa attività giornalistica, da cui proveniva la maggior parte delle sue entrate. Si stava sforzando a scrivere un romanzo, dietro urgente richiesta dei suoi editori, e a comporre il libretto per un’opera che aveva immaginata durante una conversazione con Diaghilev. La pubblicazione di Calligrammes aveva accresciuto la sua celebrità, gli aveva portato nuovi obblighi e lo spingeva a fronteggiare nuovi attacchi.
L’eccessivo lavoro gli aveva sottratto molte forze, poco prima del matrimonio era stato ricoverato all’ospedale italiano con una polmonite. Jacqueline, trasformata in infermiera, era rimasta al suo fianco; con l’aiuto dei medici, il conforto di Jacqueline e la robusta costituzione, era riuscito a trionfare sulla malattia. Ora in quell’autunno del 1918, mentre il mondo era in un’aspettativa piena di tensione per la fine della guerra, proruppe l’epidemia mortale di spagnola che ben presto infuriò in tutta la Francia. Apollinaire ne fu colpito, lottò per alcuni giorni, poi, quando tutti lo credevano fuori pericolo, ebbe una ricaduta. In guerra non aveva mai temuto la morte, e ora combatté per la vita con disperata energia, ma il 9 novembre era già chiaro che non c’era più niente da fare. Proprio in quel giorno era stato stipulato l’armistizio e se ne attendeva l’annuncio di minuto in minuto. Durante tutto il giorno Apollinaire aveva sentito la folla per la strada sotto la finestra, che cantava “Abbasso Guglielmo! Abbasso Guglielmo!” e nel delirio gli era sembrato che tutta Parigi si fosse levata in una dimostrazione di ostilità contro di lui... Mais riez riez de moi... Ayez pitie de moi... Morì alle sei del pomeriggio, stringendo la mano del dottore e implorandolo: “Mi salvi, dottore, ho ancora tanto da dire!” Aveva appena trentott’anni.

Continuo a seguire le tracce lasciate da Guil Apollinare. Più avanti, a destra, prendo per rue du Bac e subito mi si para di fronte la facciata della chiesa di Saint Thomas d’Acquin, la stessa dove si è sposato Apollinaire e dove, non molto tempo dopo, si sono celebrati i suoi funerali.

Estraggo da Picasso/Apollinaire. Correspondance, pp. 164-165:

Monsieur Pablo Picasso 20 24 ou 28 rue Victor Hugo Montrouge Seine
[30 avril 1918]
Cher Pablo
Je me marie jeudi - tu es mon témoin - sois à la mairie du 7e arr. rue de Grenelle - C’est près de la rue Bellechasse - à 10 ½ précises - salle des mariages - mais réponds si c’est entendu - nous t’attendons avec ta fiancée - nous déjeunerons tous ensemble après la cérémonie religieuse qui aura lieu à St Thomas d’Acquin
Ton ami
Guil Apollinaire

Questa carte-lettre non segnala il posto scelto per il pranzo. Rimedio: Chez Poccardi, Boulevard des Italiens.







Entro. La chiesa è vuota ma i miei occhi “vedono” sia gli sposi - Guillaume Apollinaire ed Amélie Kolby detta Jacqueline - che i testimoni - Pablo Picasso in prima linea - raggruppati di fronte all’altare e intenti ad eseguire quanto il rito prevede: in piedi, in ginocchio, di nuovo in piedi, seduti…
Dietro all’altare vi sono delle sedie. Passando per un’apertura laterale le raggiungo. Da qui, dalla posizione del sacerdote, quanto sopra mi appare più chiaro e non riesco a trattenere un sorriso: quanto avrei voluto esserci quel giorno!
La porta della sacrestia si apre e un giovane sacerdote mi raggiunge. Ci sorridiamo e alla maniera francese ci diamo la mano augurandoci un reciproco bonjour monsieur. Dico: in questa chiesa si è sposato Guillaume Apollinaire con Picasso testimone… Lui annuisce ma non risponde. Ho capito che non sa. Mi saluta e così come è arrivato così sparisce dietro la porta.
Mi siedo e mi prendo il mio tempo.
Quando esco la pioggia è ormai del tutto cessata.





domenica 17 novembre 2019

Arrampicare ai Corni. Scritti (7/7)

Corno Orientale di Canzo
parete Nord-Est
Via Giuseppe Verderio
puntata numero otto
l’ultima


Il 3 novembre 2019 ho inviato questa mail:

Il racconto della Via dedicata al Beppe è quasi arrivato alla conclusione. Il 3 novembre 1969 uscivo dal tondo strapiombo dell’Onda che caratterizza il versante nordest del Corno Orientale di Canzo. Come si leggeva in molte relazioni pubblicate sulla Rivista del CAI, la mia uscita in vetta non era poi diversa da tante altre - e questo perché la stragrande maggioranza degli alpinisti erano operai, impiegati, artigiani, professionisti, ovvero persone che dal lunedì al sabato dovevano lavorare e quindi, per poter rientrare, molte vie restavano in sospeso e poi terminate, per risparmiare tempo, calandosi dall’alto. Oggi nessuno si fa più scrupoli: quante vie sono state aperte calandosi fin da subito dall’alto, chiodando i passaggi standosene in sicurezza, magari con grande uso del trapano a batteria? Aggiungo: dopo le due ore di arrampicata necessarie per raggiunge l’ultimo chiodo del 2.11, dopo 8 ore per domare lo strapiombo, dopo un volo che non finiva mai, ho dovuto vivere l’ora abbondante di sosta sul minuscolo appoggio sul ciglio dell’Onda, non assicurato. Col senno di poi avrei potuto forare la roccia e mettere un chiodo a pressione, ma allora non l’ho fatto perché non volevo mettere un chiodo in più oltre lo stretto necessario. Infine la scoperta che quello che vedevo da sotto non corrispondeva alla realtà: gli ultimi 35 metri erano sì verticali, ma relativamente facili, con un solo passaggio strapiombante da me quotato V+. Ah saperlo...
Una fotografia “blocca” il momento: quella dove mi si vede in vetta, col duvet rosso: guardate la mia mano sinistra, quella che per otto ore ha ruotato il punteruolo, forando la dura roccia dei Corni di Canzo; più che una mano sembra una chele, un arto anchilosato. Il 3 novembre 1969 era una giornata gelida e il rosso-blu del cielo al tramonto lo dimostra. Oggi, 50 anni dopo, è una giornata uggiosa, di pioggia.
Gcm


Nei giorni a seguire alcuni amici mi hanno regalato un loro scritto, oltremodo gradito, che qui espongo in ordine d’arrivo.

Alberto Benini
Una via per un amico

La dissezione anatomica cui Giancarlo ha sottoposto la sua imprese targata 1969 induce ed autorizza a fare un po’ di cornice a questo racconto. Nient’altro che riflessioni a margine scritte da chi quella parete l’ha già “guardata su” e che quindi non ha nulla di specifico da aggiungere.
Un po’ come in tutti i resoconti di avventure alpine c’è qualcosa che è comune e qualcosa che lo è meno. Potremmo dire elementi paradigmatici ed elementi unici e caratteristici. Fra i primi indicherei senz’altro la scelta di aprire una via per dedicarla ad un compagno caduto in montagna. Tradizione che sarebbe interessante analizzare dalla sua nascita ai giorni nostri. Anche il tipo di problema che viene affrontato è significativo dell’epoca: uno strapiombo. Forse meno l’idea di dargli un nome suggestivo “l’onda”, quasi un’anticipazione delle fantasie di Ivan Guerrini che arriveranno qualche anno dopo.
Elementi certamente meno comuni sono la scelta di una parete dei Corni, certo meno prestigiosa della Grignetta, anche se va detto che anche per la reginetta delle Prealpi gli anni 60 non rappresentarono certo un momento di grandi scoperte, seppur con qualche eccezione. Diciamo che gli effluvi del maggio francese dovevano ancora impiegare del tempo per giungere qui, sulle Alpi della Brianza e per trovare una declinazione montanara.
Anche la scelta di bivaccare in tenda a breve distanza dall’attacco, seppur legata e evidenti motivi pratico-economici, contribuisce a richiamare elementi centrali della narrazione (oggi si direbbe storytelling) alpinistica di quegli anni e vero elemento di misura, insieme al numero di chiodi usati, per le grandi imprese, almeno per il pubblico non specialista…
Circa i tempi dice tutto Giancarlo: Il 3 novembre 1969 uscivo dal tondo strapiombo dell’Onda che caratterizza il versante nordest del Corno Orientale di Canzo. Come si leggeva in molte relazioni pubblicate sulla Rivista del CAI, la mia uscita in vetta non era poi diversa da tante altre - e questo perché la stragrande maggioranza degli alpinisti erano operai, impiegati, artigiani, professionisti, ovvero persone che dal lunedì al sabato doveva lavorare e quindi, per poter rientrare, molte vie restavano in sospeso e poi terminate, per risparmiare tempo, calandosi dall’alto.
Ma forse l’elemento più interessante del recit si situa al di fuori delle due categorie che ho indicato prima: ed è l’infrazione alla corretta sintassi alpinistica che vede la cordata procedere ordinatamente lungo la via, nel regolare succedersi nel movimento e nella sosta dei suoi componenti. Una situazione descritta con innegabile capacità inventiva da Erri De Luca nel suo Il contrario di uno tirando in ballo un efficace paragone con un bruco che procede per contrazioni ed estensioni.
Alla fine della via Giancarlo, per una serie di motivi, ben circostanziati nel brano, si slega, lascia cadere le corde e attende che gli amici gliele calino dalla vetta. Un’infrazione che fa venire in mente il lancio di corda con cui Bonatti risolve il problema del tetto nella sua ascesa solitaria al Dru.
Non sto intessendo arbitrari e temerari paragoni. Dico solo che si tratta di un’infrazione alle normali regole di progressione. Di una di quelle infrazioni che dimostrano lo spirito di iniziativa di cui uno scalatore può andare provvisto.
Un’ultima osservazione: ho usato prima l’espressione “Alpi di Brianza”. Non è invenzione di ieri: risale alla Storia della Brianza (impresa dell’editore Paolo Cattaneo) cui ho avuto l’onore di collaborare, scrivendo insieme a Sergio Poli un capitolo su escursionismo e alpinismo in Brianza. Siamo partiti dall’assunto che la Brianza stia ai Corni di Canzo e al Moregallo come la Pianura Padana stia alle Alpi. E che di conseguenza queste piccole, ma importanti “Alpi della Brianza” siano state il terreno di elezione per gli alpinisti che abitavano a nord di Milano.
E l’impresa di Giancarlo e dei suoi amici, in ricordo di Giuseppe Verderio, è lì a confermarlo.
Ab_


Pietro Corti
L’ONDA

Ricorre in questi giorni (10 novembre 2019) l’anniversario di una via aperta cinquanta anni fa sulla parete nord est del Corno Orientale di Canzo. Una parete di dimensioni ragguardevoli, caratterizzata da un muro compatto che in alto si inarca in una grande onda di pietra. Uno strapiombo liscio e repulsivo che nel 1969 entra nel mirino di Giancarlo Mauri, valente alpinista della sezione di Vimercate del C.A.I.
Sono gli anni delle grandi vie in arrampicata artificiale in Dolomiti, che hanno visto tra le massime realizzazioni salite come la Direttissima dei Sassoni (1963) e la Camillotto Pellissier (Mauro - Minuzzo, 1969) alle Cime di Lavaredo, oppure la via di Cesare Maestri alla Roda di Vael del 1960. Salite psicologicamente e fisicamente allucinanti, effettuate con larghissimo impiego di chiodi a pressione, infissi in piccoli buchi della roccia dopo un estenuante lavoro di martello e bulino. Giorni e giorni in parete, immersi in un vuoto assoluto, appesi a minuscoli pezzi di metallo lunghi pochi centimetri, spesso dovendo “farcire” i buchi fatti a mano con piccole scagliette di legno, o quello che capitava, per aumentare la tenuta del chiodino.
Isolamento totale e possibilità di ritirata praticamente nulla. Per rifornirsi di chiodi, viveri e materiali da bivacco, si utilizzavano lunghissimi cordoni ombelicali calati fino alla base e poi recuperati con fatica.
Una categoria di salite per le quali era stata coniata la difficoltà di “Sesto Grado Superiore”, non essendo possibile paragonarle alle leggendarie salite di Sesto Grado dei maghi degli anni ’30. Questo espediente tuttavia non farà che aumentare la confusione nella valutazione delle salite su roccia che sfocerà, pochi anni dopo, nel rifiuto della scalata artificiale e nell’avvento del Settimo grado di Messner, Reinhard Karl e pochi altri fortissimi scalatori visionari.
Ma allora, alla fine degli anni ’60, il concetto di “estremo” era ancora disegnato sull’orlo di quegli enormi strapiombi, e molti giovani (Messner compreso, anche se per poco) furono attirati da quel tipo di arrampicata così spettacolare. Un periodo che Giancarlo Mauri ha interpretato a modo suo, cavalcando l’onda di pietra del Corno Orientale di Canzo.
Giancarlo è un alpinista che, a suo dire, è sempre stato decisamente refrattario alle zone “alla moda”, e questa sua caratteristica lo ha portato, in quel momento, a individuare nelle pieghe delle pareti dei Corni quello che cercava da tempo: una struttura difficile, dove nulla è scontato, da interpretare metro dopo metro.
I Corni racchiudono un piccolo universo di strutture rocciose che alternano zone compattissime ad altre decisamente più delicate, ma che in nessun caso si lasciano scalare con facilità. Tutt’altro genere rispetto alle splendide dirimpettaie, le guglie della Grigna, ricche di fessure e solidi appigli. Sarà un caso infatti che dopo le sue prime scorribande sulla roccia, proprio sui Corni, il pioniere della scalata lombarda Eugenio Fasana (Gemonio 1886 - Milano 1972) si sia presto rivolto alla Grignetta, non prima però di avere messo a segno un colpo formidabile sulla parete nord est del Corno Centrale, sfiorando il Sesto Grado in arrampicata libera… Nel 1910. Ed è la via più “facile”!
L’avventura di Giancarlo e Diego Pellacini sulla Direttissima della parete nord est viene vissuta pienamente, salendo in più riprese (le giornate a novembre sono corte, e al lunedì bisogna timbrare il cartellino), con un contorno di notti passate sotto le stelle alla Bocchetta di Luera intorno ai fuochi di bivacco, disdegnando il comfort del vicinissimo rifugio S.E.V. Senz’altro, più che per romanticismo, a causa della desolante leggerezza del portafoglio dei protagonisti.
La via si sviluppa per circa 200 metri, ed è caratterizzata dall’impressionante strapiombo che, alla fine, esce di quasi venti metri rispetto alla verticale… Roba che da queste parti non ce n’è in giro molta, Grigne comprese. L’utilizzo dei chiodi a pressione si rivela subito obbligato, vista la compattezza della roccia.
Il racconto originale svela anche un risvolto inquietante, con i chiodi appena utilizzati per la progressione con le staffe, che escono dalla roccia penzolando sulla corda, precludendo al Giancarlo Mauri, capocordata per tutta la salita, qualsiasi ritirata. L’unica via d’uscita va cercata oltre il bordo dello strapiombo, che diventa la porta verso la salvezza. La relazione descrive infine la manovra rocambolesca per portare a casa la pelle...
Come talvolta accade, quindi, anche una salita sulla montagna “domestica”, a poco più di un’ora di cammino dalla periferia della città, si rivela una faccenda piuttosto complicata e rischiosa. Storie del genere non sono rare nei ricordi di molti scalatori delle montagne lecchesi, ai quali è capitato di assaggiare il forte sapore del pericolo su queste pareti così vicine al fondovalle…
Si ha notizia di una sola ripetizione dell’Onda o, meglio, di una ripetizione parziale, come si legge nella notevole documentazione di Giancarlo Mauri. Il che porta ad una considerazione, valida per questa come per le altre vie di questo stampo, ai Corni (dove ce n’è un discreto numero) e altrove…
Ha ancora senso oggi, nell’epoca dell’arrampicata sportiva in falesia e delle vie moderne in montagna aperte con trapano e fix - mi si perdoni l’estrema semplificazione - la ripetizione di questi itinerari? Senz’altro la loro scarsissima frequentazione fino ad arrivare, in molti casi, all’abbandono, potrebbe di per sè valere come risposta. Eppure forse non è così semplice… Anche dopo aver provato un po’ tutti gli stili di scalata che si sono susseguiti negli ultimi 45 anni (cioè fin dove arriva la mia esperienza diretta), ad eccezione, guarda caso, proprio dell’arrampicata artificiale sistematica, trovo difficile darmi una risposta. Sono così numerose le motivazioni, ed i condizionamenti, che ognuno si porta dentro.
Troppo bella e appagante la scalata sportiva, sia in falesia che in montagna, troppo intense le sensazioni su certe “multipitch” moderne, dove la presenza di protezioni a prova di bomba non sminuisce l’impegno complessivo. Lo sanno bene tutti coloro che si sono cimentati su quel tipo di vie, dovendo in certi casi buttare le doppie per non essere riusciti a passare, magari anche per paura…
Una via come quella sull’Onda appartiene ad un passato più che remoto, e non è (non ancora? Ma forse non lo sarà mai. Mai dire mai...) entrata nel novero delle antiche vie in artificiale ripercorse in libera, limitandosi a rinforzare le soste con fix giusto per assicurarsi il biglietto di ritorno.
Bisogna allora liberarsi dall’attuale canone estetico che valuta “bella” una via solo se sale su roccia ottima e con protezioni (o proteggibilità) di buona qualità, e mettere nel conto molti altri ingredienti.
È uno sforzo non facile, comunque, ma che forse può riaprire prospettive oggi diventate poco comuni.
P.
CORNO ORIENTALE DI CANZO DIRETTISSIMA ALLA PARETE NORD EST - VIA GIUSEPPE VERDERIO, Giancarlo Mauri e Diego Pellacini il 2-3 e 9 novembre 1969. 195 m, V/A3


Franco Pescali
L’ONDA

“I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.”
Ennio Flaiano

Avviso ai naviganti: questo mio racconto sarà partigiano, perché parlerò di mio zio.
Proprio così mio zio.
Fratello di Enrica, mia madre, figli di due meravigliose persone come Cesare Mauri e Antonietta Villa.
Sono stato fortunato da avere uno zio così.
Come parte della mia generazione sono cresciuto a suon di libri di Jules Verne e di Salgari, dove i personaggi delle avventure vivevano esperienze in terre lontane, affrontavano bestie feroci, oppure viaggiavano in posti rischiosi.
Ed io da piccino, ma non solo da piccolo, rimanevo affascinato dalle avventure che mi raccontava mio zio. Montagne, popoli, libri, fotografie, quadri (voi non lo sapete ma il Mauri è stato anche un valente pittore) ogni volta che incontravo lo zio con la “barba” venivo travolto come nel quadro la grande onda di Kanagawa del pittore giapponese Hokusai, da mondi lontani, suoni, culture diverse.
Con lui, sono stato nelle cattedrali più sperdute, sono stato a tirare un asino che non voleva camminare durante un cammino di Santiago, sono stato su pareti ripide in montagna, con lui ho scoperto autori, libri, critici, che mai e poi mai avrei pensato esistessero.
Diciamo che per me è stato come Phileas Fogg personaggio principale del romanzo avventuroso il giro del mondo in ottanta giorni, romanzo che insieme a Pinocchio considero uno dei libri che andrebbero fatti leggere ai bambini delle elementari.
Ma veniamo alla Via Giuseppe Verderio.
Purtroppo non ho ricordi di quell’epica impresa del novembre del 1969, mentre ho un ricordo vivissimo dei giorni successivi alla morte di Giuseppe avvenuta il 2 marzo 1969.
Mi ricordo, che andai a trovare mio zio insieme a mia madre (avevo cinque anni) nella casa dei miei nonni a Vimercate; trovai Gianni, seduto sul divano che si comportava in modo “strano”, rispetto a tutte le altre volte.
Poi ad un certo punto dopo aver parlato tanto con mia madre e i suoi genitori, mi chiamò e mi fece sedere accanto lui. Mi abbracciò forte. Con quell’abbraccio capii che era successo qualcosa di grave, qualcosa che aveva fatto piangere anche mia madre.
Io immagino la vita come un sentiero.
Su questo sentiero che percorriamo ogni giorno, verso una vetta in alcune fasi dell’ascesa troviamo persone; alcune ti consigliamo di tornare indietro, altre che ti annoiano, alcune che ti insegnano.
Credo che a me, Gianni mi abbia insegnato a “vedere” il mondo.

In memoria di Giuseppe Verderio.


Davide Valsecchi
ONDA IMMOBILE

“La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’è. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.”
Dicono che l’alpinismo sia “la conquista dell’inutile”, io con il tempo avevo iniziato a credere fosse un modo garbato di dire “inutile conquista”. Per quasi un decennio ho ritenuto che l’arrampicata fosse qualcosa di futile e pretestuoso: “Perché passare dove la roccia è verticale quando puoi andare in cima passando dai prati dell’altra parte?”. L’uomo aveva raggiunto la Luna, conquistato tutti gli ottomila: c’era stato un “compressore”, poi le bombole d’ossigeno, poi elicotteri ed i trapani a batteria. L’alpinismo e l’arrampicata erano morti e sepolti, trasformati in una caricatura buona giusto per le “reclam” degli orologi senza limiti o dell’acqua gasata in bottiglia di plastica. Non era qualcosa che meritasse più la mia attenzione. Poi mia madre morì ed ogni mia certezza vacillò di colpo: dopo due furiosi anni spesi in giro per il modo, mi ritrovai ancora inquieto e senza scopo sotto le grandi pareti dei Corni, davanti alla grande Onda del Corno Orientale. Tra i tre (a volte quattro) è quello più basso, quello la cui cima si raggiunge “in piano”, quello che nasconde la propria grandezza tra le ombre. Là, su quella roccia verticale, mi raccontavano ci fosse una via dedicata a mio nonno, che morì tra le braccia di mia madre adolescente, in un giorno d’inverno, mentre camminavano insieme tra la neve in montagna. Non arrampicavo più da oltre dieci anni, da quando ero tornato dal Pakistan: la mia era un’idea senza senso, ma avrei provato a riempire il vuoto e placare la rabbia salendo quelle pareti dimenticate da tutti. Fu così che scoprii la storia di Giuseppe e Giancarlo.
“Le leggi che governano le formiche governano anche le stelle”. La gravità è una di queste leggi: una forza capace di muovere i pianeti, catturare la luce, distorcere il tempo. Nella buia solitudine del Corno Orientale la gravità si allea con la parte più buia del proprio spirito, quell’infinita tristezza che senza sosta cerca di trascinarci verso il basso. Lassù, tra quella roccia che sembra un mare agitato, la gravità ci spinge al limite, stravolge le percezioni, tanto dello spazio quanto del tempo. All’improvviso, sotto la Grande Onda, il mondo verticale appare orizzontale, guardare in alto significa semplicemente guardare in avanti. Sotto la Grande Onda ogni certezza si affievolisce fino a scomparire: “In fisica con il termine onda si indica una perturbazione che nasce da una sorgente e si propaga nel tempo e nello spazio, trasportando energia o quantità di moto senza comportare un associato spostamento della materia”. La sorgente di quell’onda immobile si trova dentro di noi? Lassù la gravità ti trascina da dietro verso il basso mentre davanti a te la Grande Onda sembra precipitarti addosso: quando finalmente raggiungi la vetta, dopo interminabili ed incerte ore appeso, hai il “mal di terra”, ti sdrai sul prato cercando di riallineare le tue percezioni ed il tuo equilibrio prima di ricominciare finalmente a camminare come un essere umano. Disteso finalmente ti abbandoni esausto alla gravità lasciando che ora sia l’intera grande parete a sostenerti, a darti equilibrio. Per un istante sei finalmente senza peso: la gravità e la grande onda ti hanno travolto, colpito e saggiato. Con la loro forza hanno trascinato verso il basso tutto ciò che non era più parte di te. Dolore, rimpianti e tristezza sono precipitati nel vuoto, per un istante sei nuovamente libero ed accanto a te, in quel mondo nuovo, ti sono di ancora vicine le persone che hai portato con te, oltre la gravità, oltre la grande Onda.
«Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia». Se Giancarlo non avesse raccontato la sua storia, sua e di Giuseppe, forse oggi, come molti altri, sarei ingenuamente convinto che l’arrampicata abbia solo scopo di salire sulla roccia. Sotto la grande Onda si compiono grandi “viaggi”, tra questi la Verderio resterà probabilmente uno dei viaggi più leggendari, probabilmente irripetuto ed irripetibile, nella tradizione dell’Isola Senza Nome. Grazie.
«Ha ripreso a nevischiare. Foto ricordo. Siamo soli. La via dedicata alla memoria di Giuseppe Verderio adesso è davvero finita. È il nostro ultimo legame terrestre. Il nostro piccolo monumento.»
Davide “Birillo” Valsecchi


Ruggero Meles

Non sono uno storico dell’alpinismo e ho arrampicato poco ai Corni di Canzo. Anche la parete NE del Corno Orientale salita da Giancarlo Mauri e dedicata a Giuseppe Verderio suo giovane compagno di cordata nei lontani anni sessanta non l’ho frequentata molto. Beppe Verderio aveva progettato la salita con Giancarlo, ma purtroppo era morto il 2 marzo 1969 nella discesa dalla Corna di Medale dopo una salita d’allenamento sulla via Cassin con Giancarlo, prima di poter effettuare il tentativo sulla parete del Corno Orientale. Non posso dunque esprimere un preciso giudizio tecnico sull’impresa, anche se guardando l’impeccabile documentazione fotografica che Giancarlo ha messo in rete credo proprio che ripeterla richieda un’abbondante copertura di pelo sullo stomaco e un’ottima capacità di chiodatura in artificiale (e non parlo di spit o fix infissi dopo aver bucato con il trapano, ma di chiodi a pressione che hanno fatto venire i capelli bianchi anzitempo a molti arrampicatori della mia generazione…). Credo però di poter fare delle considerazioni più generali. La storia non si fa con i se, ma la prima domanda che mi pongo è: chissà cosa avrebbe combinato la giovane cordata Mauri-Verderio se Giuseppe non fosse caduto quel maledetto 2 marzo? Guardando l’incredibile documentazione fotografica di Giancarlo sembrava una cordata ed un’amicizia davvero ben assortita che lasciava presagire grandi cose sulle rocce e al piano. Beppe con la pipa in bocca, già con un’espressione da uomo adulto, sembra qui con noi, intento a guardarci dalla foto. E qui mi viene una seconda considerazione sul tempo che sembra passare. Giancarlo lo cattura in immagini e ricordi con un rigore implacabile, lo fissa quasi ad impedirgli di ripiombare nel nulla. Ci ricorda ciò che è stato e come è stato e forse questa sua capacità di fermare il tempo ha cominciato a germogliare dentro di lui proprio quel giorno di marzo del millenoventosessantove nel tentativo di cercare di capire che quello che accade, anche se spesso lo dimentichiamo, è esistito davvero. Non sono “nulla” le straordinarie notti passate in tenda con gli amici, (a due passi dal rifugio…), purtroppo non è “nulla” la foto di Giancarlo di fronte al cespuglio dove ha ritrovato il corpo dell’amico e, per fortuna, non è stato riassorbito nel nulla nemmeno quel luminoso 18 maggio 1975 con Giancarlo, Daniella e il piccolo Marco impegnato nel suo primo bivacco tra i prati.
Dunque grazie all’Onda che Giancarlo ci ha regalato, che non ho nessuna intenzione di tentare di salire, ma che nella prima giornata di sole andrò a guardare dal basso…


Gianmaria Mandelli
Ricordi e constatazioni

Il Corno Orientale di Canzo, che praticamente non è di Canzo ma nel territorio di Valmadrera, è un po’ il simbolo dell’alpinismo valmadrerese essendo stata la prima vera parete inviolata ad essere salita da alpinisti valmadreresi. Non a caso, insieme al Corno Ratt, è la parete con le rocce più evidenti che si affaccia su Valmadrera, e non a caso entrambi le pareti, sono state prese di mira, negli anni immediatamente prima della seconda guerra mondiale, dai giovani Darvini e Pierino che nel 1939, sul Corno Orientale e nel 1940 sul Corno Ratt, le hanno scalate entrambe. Parlare del Corno Orientale per me è un po’ come parlare del salotto buono di casa, dove potrei portare qualche visitatore che con buona disponibilità potrebbe assaporare il piacere di arrampicare su quelle magnifiche rocce. Senza nulla togliere alle altre pareti dei Corni e del Moregallo il Corno Orientale esprime l’essenza dell’arrampicata sui Corni, dove tecnica, abilità e forza bruta devono essere dosate con dovuta sapienza. Le sue pareti variano dal verticale allo strapiombante e hanno anche una costante che a volte lascia perplessi, sono estremamente lisce e i pochi appigli che mostrano sono di un piatto che raramente si incontra, perciò molto selettive. Questo è soprattutto il motivo per il quale nell’epoca d’oro dell’arrampicata artificiale sono state prese di mira, nella ricerca del superamento degli strapiombi, che in quel periodo venivano domati con l’impiego di parecchi chiodi, che però portavano l’alpinista a passare parecchie ore in parete e a sforzi fisici non indifferenti.
La prima volta che mi trovai nel diedro della via Stella Alpina sul Corno Orientale, notai con un po’ di apprensione, la linea di chiodi a pressione che saliva dritta nello strapiombo della grande onda che caratterizza il settore rivolto a nord del Corno. Ad alcuni chiodi erano appesi dei vecchi cordini e delle staffe che facevano capire anche ad un incompetente quanto strapiombava quella parete. Erano gli anni settanta del secolo scorso, e insieme a Giorgio Tessari stavo lavorando ad una guida che doveva raccogliere tutte le relazioni di vie alpinistiche dei Corni e in generale delle montagne che dominano Valmadrera. La guida uscì nel 1979 (…quarant’anni fa!) e quella via, della quale non avevamo notizie precise, che percorreva il grande strapiombo dell’onda, la chiamammo CAI Melzo, avendo avuto indicazioni che era stata aperta da soci di quella sezione. Si raccontava che i primi salitori bivaccavano nei dintorni del Corno e che la giornata conclusiva dell’apertura della via era stata caratterizzata da una fitta nevicata che aveva costretto gli alpinisti ad abbandonare parte del materiale in parete per poter raggiungere la fine delle difficoltà velocemente. Le staffe e i cordini rimasero appesi ancora alcuni anni, poi negli anni ottanta, Roberto Assi che era nativo di Melzo, incuriosito da quella via che doveva essere frutto di suoi concittadini, si avventurò nella ripetizione. Ne uscì, a quanto mi riferì, abbastanza impressionato da quel vuoto nel quale ci si doveva immergere per salire, appesi a dei sottili chiodi a pressione. Le sue poche parole, che risvegliarono in me un sano dubbio, furono quelle che mettevano in dubbio l’apertura della via da parte di cittadini di Melzo, conoscendone la realtà di quella sezione. Così non ricordo come o perché, parecchio tempo dopo la pubblicazione della guida, cominciai ad interessarmi ai nomi degli autori della via e successivamente incontrai anche uno dei due apritori. Giancarlo mi chiarì poi il mistero che circondava quella via e mi fornì anche delle foto della prematura nevicata (era il 4 novembre) che li aveva investiti durante l’ultima giornata. Immaginai Giancarlo (non un peso piuma, vista la corporatura) appeso a quei chiodi nel vuoto più completo e non potei che complimentarmi con lui per il coraggio che aveva avuto nel portare a termine quella via. Negli anni successivi agli anni sessanta le vie di quel genere caddero in disuso e gli alpinisti odierni si guardano bene prima di andare a cacciarsi su strapiombi del genere, non tanto per etica, ma proprio per una fifa boia, che accomuna i soggetti che al giorno d’oggi frequentano l’arrampicata.
Gli anni settanta del secolo scorso riportarono alla ribalta l’arrampicata libera, ma i giovani alpinisti di allora, pur contestando i troppi chiodi usati per scalare le pareti più strapiombanti delle Alpi, avevano anche un po’ di coraggio nell’affrontare linee logiche con un uso limitato di protezioni. Ora invece succede il contrario, si affrontano linee illogiche cercando sempre la difficoltà, abbondando sul numero delle protezioni (fisse mi raccomando!), lasciando il coraggio nello zaino, alla base della parete. Come diceva il buon Don Abbondio: ”Se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare”, e purtroppo, tranne i pochi casi di alcuni campioni, che tutti adorano ma nessuno imita, assistiamo ad un degrado dell’alpinismo ridotto a passatempo all’aria aperta.

venerdì 15 novembre 2019

Arrampicare ai Corni. Commenti (6/7)

Il 14 settembre 2019 ho inviato questa mail:

Sto riprendendo a scrivere di montagna, mettendo in rete i miei appunti.
Li trovate qui, se volete:

- Gigi Grana, alpinista e operaio





Tra meno di due mesi ricorrerà il 50mo anniversario della Via Giuseppe Verderio da me aperta sulla parete Nord-Est del Corno Orientale di Canzo.
Statemi bene.
Giancarlo Mauri

Queste le risposte “alpinistiche” ricevute, in ordine cronologico:

19.09.2019
Ciao Giancarlo,
grazie per avermi segnalato i tuoi scritti.
In questo periodo arrampico poco.
[…] Ti scrivo però, forse un po’ di corsa, perché ci tenevo alla ricorrenza del 50mo della Giuseppe Verderio (che non avrei colto senza tua indicazione).
È una via particolare, sull’Onda (come la chiamano oggi), per certi versi unica ed irripetibile.
Chiunque tentasse di “riammodernarla” sostituendo i chiodi ad espansione sarebbe un pazzo scriteriato.
Chiunque tentasse di ripeterla, così come è, con i suoi 50 anni, dovrebbe essere mosso da profondi motivi personali.
Sarebbe una salita grandiosa e terribile.
Io, francamente, la guardo con ammirazione ma non potrei ripeterla.
Sulla Luigi Paredi, dedicata a mio nonno, ho “navigato” sui vecchi chiodi ad espansione, ma era una placca liscia “quasi” appoggiata.
L’onda è uno strapiombo che hai affrontato dritto per dritto, come una nave che spinge a fondo i motori puntando alla cresta dell’onda per non essere travolta.
Senza un buon motivo, come lo hai avuto tu, non si può fronteggiare in quel modo qualcosa di simile.
Ciao e grazie!
Davide “Birillo” Valsecchi

* * *

November 1, 2019


La prima guida all’arrampicata dei Corni, di cui ho notizia, fu scritta da Giorgio Tessari e Gian Maria Mandelli nel 1979. Un volume piccolo, quasi tascabile, denso di relazioni, foto in bianco e nero, schizzi delle vie disegnati a mano: “Valmadrera: montagne ed itinerari alpinistici”. La prima ristampa, con aggiornamento, fu pubblicata nel 1996. Due volumi preziosi ed ancora oggi molto validi. Tuttavia ciò che per me ha davvero spalancato un mondo è stata la terza guida, “L’isola Senza Nome: storie di uomini e montagne, dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” pubblicata nel 2005. Probabilmente quel libro ha influito sulla mia vita come pochissimi altri. Tornato dall’Africa ne trovai una copia mentre curiosavo in biblioteca e, da allora, l’ho sfogliato migliaia di volte. Sebbene sia ormai un libro introvabile ne ho posseduto ben due copie. Anche se, purtroppo, ora solo una. La prima infatti la diedi anni fa, in una sera d’inverno, ad un celebre e giovane alpinista erbese: da allora non ci siamo più rivolti parola. Certo, nella vita non si può mai sapere, ma temo che non rivedrò mai quella mia vecchia copia. Tuttavia Ivan Guerini mi ha fatto dono della sua copia, ricevuta con tanto di dedica da Gianni Mandelli, ed in qualche modo l’equilibrio ha ritrovato la sua strada. La grande differenza di questo libro rispetto alle due guide che l’hanno preceduto è chiara fin dal titolo: “L’isola Senza Nome”, un luogo ben preciso - “dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” - che in realtà non esiste, non ha nome, e che in qualche modo è isolato, distante, unico e disgiunto da tutto il resto. Un libro che non è una semplice guida all’arrampicata ma la raccolta di “storie di uomini e montagne”. Fino ad allora tutti mi avevano sconsigliato di arrampicare lassù, raccontandomi che erano vie brutte, pericolose, con vetuste soste tenute insieme con il filo di ferro: “Rischi solo di farti male o lasciarci la pelle!!”. Grazie a questo libro quelle vie restavano “terribili” - e tutt’oggi io credo lo siano - ma acquisivano una storia, una profondità umana che mai avrei immaginato. In quel libro si poteva ripercorrere un secolo di arrampicata scoprendo, con incredibile sorpresa, momenti di straordinario coraggio ed intensa passione. Per me, che ero ventenne a cavallo degli anni 90, l’arrampicata si era trasformata nello “sport” con cui far pubblicità agli orologi “che spaccano il secondo”, mentre all’alpinismo era toccata la pubblicità dell’acqua gasata “purissima” in bottiglie di plastica. Niente che avesse in qualche modo a che fare con il mio viaggio in Pakistan o con la montagna che mi aveva insegnato mio padre, niente che potesse attrarre lo slancio della mia gioventù. Ma in quel libro, in quell’isola ribelle, vi era un mondo nuovo ed allo stesso tempo antico, un mondo intenso, brutale, spaventoso ma capace di scintillare su quella roccia lucida circondata dal verde, un mondo intriso di un’umanità travolgente, capace di brillare nel buio dell’incertezza, capace di accomunare ed unire le generazioni attraverso un secolo di tradizione: “storie di uomini e montagne”. Non potevo che restarne attratto, non potevo che desiderare farne parte.
Una di queste storie è stata scritta da Giancarlo Mauri e ripercorre le vicende che lo portarono all’apertura della via “Giuseppe Verderio” al Corno Orientale. Aperta il 2-3 e 9 novembre del 1969 da Giancarlo Mauri e Diego Pellacini in ricordo dell’amico “Beppe” caduto il 2 marzo di quello stesso anno dalla vetta del Medale. Quest’anno ricorre il 50° anniversario dei fatti narrati in quella storia: “Arrampicare ai Corni”. Confesso che sono state tante le cose “strane” che mi sono capitate lassù ed oggi, anche più della prima volta, trovo speciale il racconto di Giancarlo. C’è qualcosa di trascendentale su queste montagne, qualcosa che spinge a guardare in faccia i propri sogni e le proprie paure. Nel silenzio di quelle pareti aleggiano fantasmi e spiriti che sussurrano le verità che non vogliamo ascoltare, i ricordi che non vogliamo lasciarci sfuggire.
Davide “Birillo” Valsecchi

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2.11.2019
Di questa storia dell’Onda mi piace un sacco l’avventura: dormire in tenda (freddo boia) a 10 minuti dal rifugio, il su e giù dalla parete, gli arditi tratti in libera e poi la progressione in arrampicata artificiale tipica di quegli anni lì. Anche dalle foto, non sembra una roba di pochi tiri, ma ha tutta la dignità di una tosta salita alpina.
Dove si riesce chiodi normali (spesso “psicologici”), poi i terribili chiodini a pressione. Tre centimetri di metallo ruzzati a forza in un buchino fatto a martellate col bulino, ai quali appendere la propria pellaccia... come un quadro alla parete.
Magnifici Conquistatori dell’inutile. Haha
Apprezzo tantissimo ’ste cose, nonostante oggi arrampico praticamente solo in falesia. Per varie ragioni, soprattutto cliniche. Ma anche, lo confesso, per una certa pigrizia. Avvicinamenti brevi, ambiente confortevole, belle sequenze di scalata, spesso difficile (almeno fino a dove oggi posso permettermelo) e di soddisfazione, sportivamente parlando.
Però ricordo con grande piacere quel “ravanage” che racconti, che ho ampiamente goduto su certe nuove salite sulle strutture di Introbio, Medale, Cima Calolden etc. Spesso inconsapevolmente protetti (i miei soci ed io) da qualche buona stella che non finirò mai di ringraziare.
E poi le tue immagini: bellissime. Una in particolare; e non è di scalata... Te la riallego così se intendemo mejo.



Ciao
P [Pietro Corti]