Corno Orientale di
Canzo
parete Nord-Est
Via Giuseppe Verderio
puntata numero otto
l’ultima
Il 3 novembre 2019 ho inviato questa mail:
Il racconto della Via
dedicata al Beppe è quasi arrivato alla conclusione. Il 3 novembre 1969 uscivo
dal tondo strapiombo dell’Onda che caratterizza il versante nordest del Corno
Orientale di Canzo. Come si leggeva in molte relazioni pubblicate sulla Rivista
del CAI, la mia uscita in vetta non era poi diversa da tante altre - e questo
perché la stragrande maggioranza degli alpinisti erano operai, impiegati,
artigiani, professionisti, ovvero persone che dal lunedì al sabato dovevano lavorare e quindi, per poter rientrare, molte vie restavano in sospeso e poi
terminate, per risparmiare tempo, calandosi dall’alto. Oggi nessuno si fa più
scrupoli: quante vie sono state aperte calandosi fin da subito dall’alto,
chiodando i passaggi standosene in sicurezza, magari con grande uso del trapano
a batteria? Aggiungo: dopo le due ore di arrampicata necessarie per raggiunge
l’ultimo chiodo del 2.11, dopo 8 ore per domare lo strapiombo, dopo un volo che
non finiva mai, ho dovuto vivere l’ora abbondante di sosta sul minuscolo
appoggio sul ciglio dell’Onda, non assicurato. Col senno di poi avrei potuto
forare la roccia e mettere un chiodo a pressione, ma allora non l’ho fatto
perché non volevo mettere un chiodo in più oltre lo stretto necessario. Infine
la scoperta che quello che vedevo da sotto non corrispondeva alla realtà: gli
ultimi 35 metri erano sì verticali, ma relativamente facili, con un solo
passaggio strapiombante da me quotato V+. Ah saperlo...
Una fotografia
“blocca” il momento: quella dove mi si vede in vetta, col duvet rosso: guardate
la mia mano sinistra, quella che per otto ore ha ruotato il punteruolo, forando
la dura roccia dei Corni di Canzo; più che una mano sembra una chele, un arto
anchilosato. Il 3 novembre 1969 era una giornata gelida e il rosso-blu del
cielo al tramonto lo dimostra. Oggi, 50 anni dopo, è una giornata uggiosa, di
pioggia.
Gcm
Nei giorni a seguire alcuni amici mi hanno regalato un loro scritto,
oltremodo gradito, che qui espongo in ordine d’arrivo.
Una via per un amico
La dissezione anatomica cui Giancarlo ha sottoposto la sua
imprese targata 1969 induce ed autorizza a fare un po’ di cornice a questo
racconto. Nient’altro che riflessioni a margine scritte da chi quella parete
l’ha già “guardata su” e che quindi non ha nulla di specifico da aggiungere.
Un po’ come in tutti i resoconti di avventure alpine c’è
qualcosa che è comune e qualcosa che lo è meno. Potremmo dire elementi
paradigmatici ed elementi unici e caratteristici. Fra i primi indicherei
senz’altro la scelta di aprire una via per dedicarla ad un compagno caduto in
montagna. Tradizione che sarebbe interessante analizzare dalla sua nascita ai
giorni nostri. Anche il tipo di problema che viene affrontato è significativo
dell’epoca: uno strapiombo. Forse meno l’idea di dargli un nome suggestivo
“l’onda”, quasi un’anticipazione delle fantasie di Ivan Guerrini che
arriveranno qualche anno dopo.
Elementi certamente meno comuni sono la scelta di una parete
dei Corni, certo meno prestigiosa della Grignetta, anche se va detto che anche
per la reginetta delle Prealpi gli anni ’60 non rappresentarono certo un
momento di grandi scoperte, seppur con qualche eccezione. Diciamo che gli
effluvi del maggio francese dovevano ancora impiegare del tempo per giungere
qui, sulle Alpi della Brianza e per trovare una declinazione montanara.
Anche la scelta di bivaccare in tenda a breve distanza dall’attacco,
seppur legata e evidenti motivi pratico-economici, contribuisce a richiamare
elementi centrali della narrazione (oggi si direbbe storytelling)
alpinistica di quegli anni e vero elemento di misura, insieme al numero di
chiodi usati, per le grandi imprese, almeno per il pubblico non specialista…
Circa i tempi dice tutto Giancarlo: Il 3 novembre 1969
uscivo dal tondo strapiombo dell’Onda che caratterizza il versante nordest del
Corno Orientale di Canzo. Come si leggeva in molte relazioni pubblicate sulla
Rivista del CAI, la mia uscita in vetta non era poi diversa da tante altre - e
questo perché la stragrande maggioranza degli alpinisti erano operai,
impiegati, artigiani, professionisti, ovvero persone che dal lunedì al sabato
doveva lavorare e quindi, per poter rientrare, molte vie restavano in sospeso e
poi terminate, per risparmiare tempo, calandosi dall’alto.
Ma forse l’elemento più interessante del recit si
situa al di fuori delle due categorie che ho indicato prima: ed è l’infrazione
alla corretta sintassi alpinistica che vede la cordata procedere ordinatamente
lungo la via, nel regolare succedersi nel movimento e nella sosta dei suoi
componenti. Una situazione descritta con innegabile capacità inventiva da Erri
De Luca nel suo Il contrario di uno tirando in ballo un efficace paragone con un bruco che procede
per contrazioni ed estensioni.
Alla fine della via Giancarlo, per una serie di motivi, ben
circostanziati nel brano, si slega, lascia cadere le corde e attende che gli
amici gliele calino dalla vetta. Un’infrazione che fa venire in mente il lancio
di corda con cui Bonatti risolve il problema del tetto nella sua ascesa
solitaria al Dru.
Non sto intessendo arbitrari e temerari paragoni. Dico solo
che si tratta di un’infrazione alle normali regole di progressione. Di una di
quelle infrazioni che dimostrano lo spirito di iniziativa di cui uno scalatore
può andare provvisto.
Un’ultima osservazione: ho usato prima l’espressione “Alpi
di Brianza”. Non è invenzione di ieri: risale alla Storia della Brianza
(impresa dell’editore Paolo Cattaneo) cui ho avuto l’onore di collaborare,
scrivendo insieme a Sergio Poli un capitolo su escursionismo e alpinismo in
Brianza. Siamo partiti dall’assunto che la Brianza stia ai Corni di Canzo e al
Moregallo come la Pianura Padana stia alle Alpi. E che di conseguenza queste
piccole, ma importanti “Alpi della Brianza” siano state il terreno di elezione
per gli alpinisti che abitavano a nord di Milano.
E l’impresa di Giancarlo e dei suoi amici, in ricordo di
Giuseppe Verderio, è lì a confermarlo.
Ab_
Pietro Corti
L’ONDA
Ricorre in
questi giorni (10 novembre 2019) l’anniversario di una via aperta cinquanta
anni fa sulla parete nord est del Corno Orientale di Canzo. Una parete di
dimensioni ragguardevoli, caratterizzata da un muro compatto che in alto si
inarca in una grande onda di pietra. Uno strapiombo liscio e repulsivo che nel
1969 entra nel mirino di Giancarlo Mauri, valente alpinista della sezione di
Vimercate del C.A.I.
Sono gli anni
delle grandi vie in arrampicata artificiale in Dolomiti, che hanno visto tra le
massime realizzazioni salite come la Direttissima dei Sassoni (1963) e la
Camillotto Pellissier (Mauro - Minuzzo, 1969) alle Cime di Lavaredo, oppure la
via di Cesare Maestri alla Roda di Vael del 1960. Salite psicologicamente e
fisicamente allucinanti, effettuate con larghissimo impiego di chiodi a
pressione, infissi in piccoli buchi della roccia dopo un estenuante lavoro di
martello e bulino. Giorni e giorni in parete, immersi in un vuoto assoluto,
appesi a minuscoli pezzi di metallo lunghi pochi centimetri, spesso dovendo
“farcire” i buchi fatti a mano con piccole scagliette di legno, o quello che
capitava, per aumentare la tenuta del chiodino.
Isolamento
totale e possibilità di ritirata praticamente nulla. Per rifornirsi di chiodi,
viveri e materiali da bivacco, si utilizzavano lunghissimi cordoni ombelicali
calati fino alla base e poi recuperati con fatica.
Una categoria
di salite per le quali era stata coniata la difficoltà di “Sesto Grado
Superiore”, non essendo possibile paragonarle alle leggendarie salite di Sesto
Grado dei maghi degli anni ’30. Questo espediente tuttavia non farà che
aumentare la confusione nella valutazione delle salite su roccia che sfocerà,
pochi anni dopo, nel rifiuto della scalata artificiale e nell’avvento del
Settimo grado di Messner, Reinhard Karl e pochi altri fortissimi scalatori
visionari.
Ma allora, alla
fine degli anni ’60, il concetto di “estremo” era ancora disegnato sull’orlo di
quegli enormi strapiombi, e molti giovani (Messner compreso, anche se per poco)
furono attirati da quel tipo di arrampicata così spettacolare. Un periodo che
Giancarlo Mauri ha interpretato a modo suo, cavalcando l’onda di pietra del
Corno Orientale di Canzo.
Giancarlo è un
alpinista che, a suo dire, è sempre stato decisamente refrattario alle zone
“alla moda”, e questa sua caratteristica lo ha portato, in quel momento, a
individuare nelle pieghe delle pareti dei Corni quello che cercava da tempo:
una struttura difficile, dove nulla è scontato, da interpretare metro dopo
metro.
I Corni
racchiudono un piccolo universo di strutture rocciose che alternano zone
compattissime ad altre decisamente più delicate, ma che in nessun caso si
lasciano scalare con facilità. Tutt’altro genere rispetto alle splendide
dirimpettaie, le guglie della Grigna, ricche di fessure e solidi appigli. Sarà
un caso infatti che dopo le sue prime scorribande sulla roccia, proprio sui
Corni, il pioniere della scalata lombarda Eugenio Fasana (Gemonio 1886 - Milano 1972) si sia presto rivolto alla Grignetta, non prima però
di avere messo a segno un colpo formidabile sulla parete nord est del Corno
Centrale, sfiorando il Sesto Grado in arrampicata libera… Nel 1910. Ed è la via
più “facile”!
L’avventura di Giancarlo e Diego Pellacini sulla Direttissima della parete
nord est viene vissuta pienamente, salendo in più riprese (le giornate a novembre
sono corte, e al lunedì bisogna timbrare il cartellino), con un contorno di
notti passate sotto le stelle alla Bocchetta di Luera intorno ai fuochi di
bivacco, disdegnando il comfort del vicinissimo rifugio S.E.V. Senz’altro, più
che per romanticismo, a causa della desolante leggerezza del portafoglio dei
protagonisti.
La via si
sviluppa per circa 200 metri, ed è caratterizzata dall’impressionante
strapiombo che, alla fine, esce di quasi venti metri rispetto alla verticale…
Roba che da queste parti non ce n’è in giro molta, Grigne comprese. L’utilizzo
dei chiodi a pressione si rivela subito obbligato, vista la compattezza della
roccia.
Il racconto
originale svela anche un risvolto inquietante, con i chiodi appena utilizzati
per la progressione con le staffe, che escono dalla roccia penzolando sulla
corda, precludendo al Giancarlo Mauri, capocordata per tutta la salita,
qualsiasi ritirata. L’unica via d’uscita va cercata oltre il bordo dello
strapiombo, che diventa la porta verso la salvezza. La relazione descrive
infine la manovra rocambolesca per portare a casa la pelle...
Come talvolta
accade, quindi, anche una salita sulla montagna “domestica”, a poco più di
un’ora di cammino dalla periferia della città, si rivela una faccenda piuttosto
complicata e rischiosa. Storie del genere non sono rare nei ricordi di molti
scalatori delle montagne lecchesi, ai quali è capitato di assaggiare il forte
sapore del pericolo su queste pareti così vicine al fondovalle…
Si ha notizia
di una sola ripetizione dell’Onda o, meglio, di una ripetizione parziale, come
si legge nella notevole documentazione di Giancarlo Mauri. Il che porta ad una
considerazione, valida per questa come per le altre vie di questo stampo, ai
Corni (dove ce n’è un discreto numero) e altrove…
Ha ancora senso
oggi, nell’epoca dell’arrampicata sportiva in falesia e delle vie moderne in
montagna aperte con trapano e fix - mi si perdoni l’estrema semplificazione -
la ripetizione di questi itinerari? Senz’altro la loro scarsissima
frequentazione fino ad arrivare, in molti casi, all’abbandono, potrebbe di per
sè valere come risposta. Eppure forse non è così semplice… Anche dopo aver provato
un po’ tutti gli stili di scalata che si sono susseguiti negli ultimi 45 anni
(cioè fin dove arriva la mia esperienza diretta), ad eccezione, guarda caso,
proprio dell’arrampicata artificiale sistematica, trovo difficile darmi una
risposta. Sono così numerose le motivazioni, ed i condizionamenti, che ognuno
si porta dentro.
Troppo bella e
appagante la scalata sportiva, sia in falesia che in montagna, troppo intense
le sensazioni su certe “multipitch” moderne, dove la presenza di protezioni a
prova di bomba non sminuisce l’impegno complessivo. Lo sanno bene tutti coloro
che si sono cimentati su quel tipo di vie, dovendo in certi casi buttare le
doppie per non essere riusciti a passare, magari anche per paura…
Una via come
quella sull’Onda appartiene ad un passato più che remoto, e non è (non ancora?
Ma forse non lo sarà mai. Mai dire mai...) entrata nel novero delle antiche vie
in artificiale ripercorse in libera, limitandosi a rinforzare le soste con fix
giusto per assicurarsi il biglietto di ritorno.
Bisogna allora
liberarsi dall’attuale canone estetico che valuta “bella” una via solo se sale
su roccia ottima e con protezioni (o proteggibilità) di buona qualità, e
mettere nel conto molti altri ingredienti.
È uno sforzo
non facile, comunque, ma che forse può riaprire prospettive oggi diventate poco
comuni.
P.
CORNO ORIENTALE
DI CANZO DIRETTISSIMA ALLA PARETE NORD EST - VIA GIUSEPPE VERDERIO, Giancarlo
Mauri e Diego Pellacini il 2-3 e 9
novembre 1969. 195 m, V/A3
Franco Pescali
L’ONDA
“I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono
cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.”
Ennio Flaiano
Avviso ai naviganti: questo mio racconto sarà partigiano,
perché parlerò di mio zio.
Proprio così mio zio.
Fratello di Enrica, mia madre, figli di due meravigliose
persone come Cesare Mauri e Antonietta Villa.
Sono stato fortunato da avere uno zio così.
Come parte della mia generazione sono cresciuto a suon di
libri di Jules Verne e di Salgari, dove i personaggi delle avventure vivevano
esperienze in terre lontane, affrontavano bestie feroci, oppure viaggiavano in
posti rischiosi.
Ed io da piccino, ma non solo da piccolo, rimanevo
affascinato dalle avventure che mi raccontava mio zio. Montagne, popoli, libri,
fotografie, quadri (voi non lo sapete ma il Mauri è stato anche un valente
pittore) ogni volta che incontravo lo zio con la “barba” venivo travolto come
nel quadro la grande onda di Kanagawa del pittore giapponese Hokusai, da mondi
lontani, suoni, culture diverse.
Con lui, sono stato nelle cattedrali più sperdute, sono
stato a tirare un asino che non voleva camminare durante un cammino di
Santiago, sono stato su pareti ripide in montagna, con lui ho scoperto autori,
libri, critici, che mai e poi mai avrei pensato esistessero.
Diciamo che per me è stato come Phileas Fogg personaggio
principale del romanzo avventuroso il giro del mondo in ottanta giorni, romanzo
che insieme a Pinocchio considero uno dei libri che andrebbero fatti leggere ai
bambini delle elementari.
Ma veniamo alla Via Giuseppe Verderio.
Purtroppo non ho ricordi di quell’epica impresa del novembre
del 1969, mentre ho un ricordo vivissimo dei giorni successivi alla morte di
Giuseppe avvenuta il 2 marzo 1969.
Mi ricordo, che andai a trovare mio zio insieme a mia madre
(avevo cinque anni) nella casa dei miei nonni a Vimercate; trovai Gianni,
seduto sul divano che si comportava in modo “strano”, rispetto a tutte le altre
volte.
Poi ad un certo punto dopo aver parlato tanto con mia madre
e i suoi genitori, mi chiamò e mi fece sedere accanto lui. Mi abbracciò forte.
Con quell’abbraccio capii che era successo qualcosa di grave, qualcosa che
aveva fatto piangere anche mia madre.
Io immagino la vita come un sentiero.
Su questo sentiero che percorriamo ogni giorno, verso una
vetta in alcune fasi dell’ascesa troviamo persone; alcune ti consigliamo di
tornare indietro, altre che ti annoiano, alcune che ti insegnano.
Credo che a me, Gianni mi abbia insegnato a “vedere” il
mondo.
In memoria di Giuseppe Verderio.
Davide Valsecchi
ONDA IMMOBILE
“La Cassin non sbuca
in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si
slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo,
una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’è. Scendiamo a rompicollo.
Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il
ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio,
classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.”
Dicono che l’alpinismo sia “la conquista dell’inutile”, io con il tempo avevo iniziato a
credere fosse un modo garbato di dire “inutile
conquista”. Per quasi un decennio ho ritenuto che l’arrampicata fosse
qualcosa di futile e pretestuoso: “Perché
passare dove la roccia è verticale quando puoi andare in cima passando dai
prati dell’altra parte?”. L’uomo aveva raggiunto la Luna, conquistato tutti
gli ottomila: c’era stato un “compressore”, poi le bombole d’ossigeno, poi
elicotteri ed i trapani a batteria. L’alpinismo e l’arrampicata erano morti e
sepolti, trasformati in una caricatura buona giusto per le “reclam” degli orologi senza limiti o dell’acqua gasata in
bottiglia di plastica. Non era qualcosa che meritasse più la mia attenzione.
Poi mia madre morì ed ogni mia certezza vacillò di colpo: dopo due furiosi anni
spesi in giro per il modo, mi ritrovai ancora inquieto e senza scopo sotto le
grandi pareti dei Corni, davanti alla grande Onda del Corno Orientale. Tra i
tre (a volte quattro) è quello più basso, quello la cui cima si raggiunge “in piano”, quello che nasconde la
propria grandezza tra le ombre. Là, su quella roccia verticale, mi raccontavano
ci fosse una via dedicata a mio nonno, che morì tra le braccia di mia madre
adolescente, in un giorno d’inverno, mentre camminavano insieme tra la neve in
montagna. Non arrampicavo più da oltre dieci anni, da quando ero tornato dal
Pakistan: la mia era un’idea senza senso, ma avrei provato a riempire il vuoto
e placare la rabbia salendo quelle pareti dimenticate da tutti. Fu così che
scoprii la storia di Giuseppe e Giancarlo.
“Le leggi che
governano le formiche governano anche le stelle”. La gravità è una di
queste leggi: una forza capace di muovere i pianeti, catturare la luce,
distorcere il tempo. Nella buia solitudine del Corno Orientale la gravità si
allea con la parte più buia del proprio spirito, quell’infinita tristezza che
senza sosta cerca di trascinarci verso il basso. Lassù, tra quella roccia che
sembra un mare agitato, la gravità ci spinge al limite, stravolge le
percezioni, tanto dello spazio quanto del tempo. All’improvviso, sotto la
Grande Onda, il mondo verticale appare orizzontale, guardare in alto significa
semplicemente guardare in avanti. Sotto la Grande Onda ogni certezza si
affievolisce fino a scomparire: “In
fisica con il termine onda si indica una perturbazione che nasce da una
sorgente e si propaga nel tempo e nello spazio, trasportando energia o quantità
di moto senza comportare un associato spostamento della materia”. La
sorgente di quell’onda immobile si trova dentro di noi? Lassù la gravità ti
trascina da dietro verso il basso mentre davanti a te la Grande Onda sembra
precipitarti addosso: quando finalmente raggiungi la vetta, dopo interminabili
ed incerte ore appeso, hai il “mal di
terra”, ti sdrai sul prato cercando di riallineare le tue percezioni ed il
tuo equilibrio prima di ricominciare finalmente a camminare come un essere
umano. Disteso finalmente ti abbandoni esausto alla gravità lasciando che ora
sia l’intera grande parete a sostenerti, a darti equilibrio. Per un istante sei
finalmente senza peso: la gravità e la grande onda ti hanno travolto, colpito e
saggiato. Con la loro forza hanno trascinato verso il basso tutto ciò che non
era più parte di te. Dolore, rimpianti e tristezza sono precipitati nel vuoto,
per un istante sei nuovamente libero ed accanto a te, in quel mondo nuovo, ti
sono di ancora vicine le persone che hai portato con te, oltre la gravità,
oltre la grande Onda.
«Scarpe? Roccia?
Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di
quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di
roccia». Se Giancarlo non avesse raccontato la sua storia, sua e di
Giuseppe, forse oggi, come molti altri, sarei ingenuamente convinto che
l’arrampicata abbia solo scopo di salire sulla roccia. Sotto la grande Onda si
compiono grandi “viaggi”, tra questi
la Verderio resterà probabilmente uno dei viaggi più leggendari, probabilmente
irripetuto ed irripetibile, nella tradizione dell’Isola Senza Nome. Grazie.
«Ha ripreso a
nevischiare. Foto ricordo. Siamo soli. La via dedicata alla memoria di Giuseppe
Verderio adesso è davvero finita. È il nostro ultimo legame terrestre. Il
nostro piccolo monumento.»
Davide “Birillo” Valsecchi
Ruggero Meles
Non sono uno storico dell’alpinismo e ho arrampicato poco ai
Corni di Canzo. Anche la parete NE del Corno Orientale salita da Giancarlo
Mauri e dedicata a Giuseppe Verderio suo giovane compagno di cordata nei
lontani anni sessanta non l’ho frequentata molto. Beppe Verderio aveva
progettato la salita con Giancarlo, ma purtroppo era morto il 2 marzo 1969
nella discesa dalla Corna di Medale dopo una salita d’allenamento sulla via
Cassin con Giancarlo, prima di poter effettuare il tentativo sulla parete del
Corno Orientale. Non posso dunque esprimere un preciso giudizio tecnico
sull’impresa, anche se guardando l’impeccabile documentazione fotografica che
Giancarlo ha messo in rete credo proprio che ripeterla richieda un’abbondante
copertura di pelo sullo stomaco e un’ottima capacità di chiodatura in
artificiale (e non parlo di spit o fix infissi dopo aver bucato con il trapano,
ma di chiodi a pressione che hanno fatto venire i capelli bianchi anzitempo a
molti arrampicatori della mia generazione…). Credo però di poter fare delle
considerazioni più generali. La storia non si fa con i se, ma la prima domanda
che mi pongo è: chissà cosa avrebbe combinato la giovane cordata Mauri-Verderio
se Giuseppe non fosse caduto quel maledetto 2 marzo? Guardando l’incredibile
documentazione fotografica di Giancarlo sembrava una cordata ed un’amicizia
davvero ben assortita che lasciava presagire grandi cose sulle rocce e al
piano. Beppe con la pipa in bocca, già con un’espressione da uomo adulto,
sembra qui con noi, intento a guardarci dalla foto. E qui mi viene una seconda
considerazione sul tempo che sembra passare. Giancarlo lo cattura in immagini e
ricordi con un rigore implacabile, lo fissa quasi ad impedirgli di ripiombare
nel nulla. Ci ricorda ciò che è stato e come è stato e forse questa sua
capacità di fermare il tempo ha cominciato a germogliare dentro di lui proprio
quel giorno di marzo del millenoventosessantove nel tentativo di cercare di
capire che quello che accade, anche se spesso lo dimentichiamo, è esistito
davvero. Non sono “nulla” le straordinarie notti passate in tenda con gli
amici, (a due passi dal rifugio…), purtroppo non è “nulla” la foto di Giancarlo
di fronte al cespuglio dove ha ritrovato il corpo dell’amico e, per fortuna,
non è stato riassorbito nel nulla nemmeno quel luminoso 18 maggio 1975 con
Giancarlo, Daniella e il piccolo Marco impegnato nel suo primo bivacco tra i
prati.
Dunque grazie all’Onda che Giancarlo ci ha regalato, che non
ho nessuna intenzione di tentare di salire, ma che nella prima giornata di sole
andrò a guardare dal basso…
Gianmaria Mandelli
Ricordi e constatazioni
Il Corno Orientale di Canzo, che praticamente non è di Canzo
ma nel territorio di Valmadrera, è un po’ il simbolo dell’alpinismo
valmadrerese essendo stata la prima vera parete inviolata ad essere salita da
alpinisti valmadreresi. Non a caso, insieme al Corno Ratt, è la parete con le
rocce più evidenti che si affaccia su Valmadrera, e non a caso entrambi le
pareti, sono state prese di mira, negli anni immediatamente prima della seconda
guerra mondiale, dai giovani Darvini e Pierino che nel 1939, sul Corno Orientale
e nel 1940 sul Corno Ratt, le hanno scalate entrambe. Parlare del Corno
Orientale per me è un po’ come parlare del salotto buono di casa, dove potrei
portare qualche visitatore che con buona disponibilità potrebbe assaporare il
piacere di arrampicare su quelle magnifiche rocce. Senza nulla togliere alle
altre pareti dei Corni e del Moregallo il Corno Orientale esprime l’essenza
dell’arrampicata sui Corni, dove tecnica, abilità e forza bruta devono essere
dosate con dovuta sapienza. Le sue pareti variano dal verticale allo
strapiombante e hanno anche una costante che a volte lascia perplessi, sono
estremamente lisce e i pochi appigli che mostrano sono di un piatto che
raramente si incontra, perciò molto selettive. Questo è soprattutto il motivo
per il quale nell’epoca d’oro dell’arrampicata artificiale sono state prese di
mira, nella ricerca del superamento degli strapiombi, che in quel periodo
venivano domati con l’impiego di parecchi chiodi, che però portavano
l’alpinista a passare parecchie ore in parete e a sforzi fisici non
indifferenti.
La prima volta che mi trovai nel diedro della via Stella
Alpina sul Corno Orientale, notai con un po’ di apprensione, la linea di chiodi
a pressione che saliva dritta nello strapiombo della grande onda che caratterizza
il settore rivolto a nord del Corno. Ad alcuni chiodi erano appesi dei vecchi
cordini e delle staffe che facevano capire anche ad un incompetente quanto
strapiombava quella parete. Erano gli anni settanta del secolo scorso, e
insieme a Giorgio Tessari stavo lavorando ad una guida che doveva raccogliere
tutte le relazioni di vie alpinistiche dei Corni e in generale delle montagne
che dominano Valmadrera. La guida uscì nel 1979 (…quarant’anni fa!) e quella
via, della quale non avevamo notizie precise, che percorreva il grande
strapiombo dell’onda, la chiamammo CAI Melzo, avendo avuto indicazioni che era
stata aperta da soci di quella sezione. Si raccontava che i primi salitori
bivaccavano nei dintorni del Corno e che la giornata conclusiva dell’apertura della
via era stata caratterizzata da una fitta nevicata che aveva costretto gli
alpinisti ad abbandonare parte del materiale in parete per poter raggiungere la
fine delle difficoltà velocemente. Le staffe e i cordini rimasero appesi ancora
alcuni anni, poi negli anni ottanta, Roberto Assi che era nativo di Melzo,
incuriosito da quella via che doveva essere frutto di suoi concittadini, si
avventurò nella ripetizione. Ne uscì, a quanto mi riferì, abbastanza
impressionato da quel vuoto nel quale ci si doveva immergere per salire, appesi
a dei sottili chiodi a pressione. Le sue poche parole, che risvegliarono in me
un sano dubbio, furono quelle che mettevano in dubbio l’apertura della via da
parte di cittadini di Melzo, conoscendone la realtà di quella sezione. Così non
ricordo come o perché, parecchio tempo dopo la pubblicazione della guida,
cominciai ad interessarmi ai nomi degli autori della via e successivamente
incontrai anche uno dei due apritori. Giancarlo mi chiarì poi il mistero che
circondava quella via e mi fornì anche delle foto della prematura nevicata (era
il 4 novembre) che li aveva investiti durante l’ultima giornata. Immaginai
Giancarlo (non un peso piuma, vista la corporatura) appeso a quei chiodi nel
vuoto più completo e non potei che complimentarmi con lui per il coraggio che
aveva avuto nel portare a termine quella via. Negli anni successivi agli anni
sessanta le vie di quel genere caddero in disuso e gli alpinisti odierni si
guardano bene prima di andare a cacciarsi su strapiombi del genere, non tanto
per etica, ma proprio per una fifa boia, che accomuna i soggetti che al giorno
d’oggi frequentano l’arrampicata.
Gli anni settanta del secolo scorso riportarono alla ribalta
l’arrampicata libera, ma i giovani alpinisti di allora, pur contestando i
troppi chiodi usati per scalare le pareti più strapiombanti delle Alpi, avevano
anche un po’ di coraggio nell’affrontare linee logiche con un uso limitato di
protezioni. Ora invece succede il contrario, si affrontano linee illogiche
cercando sempre la difficoltà, abbondando sul numero delle protezioni (fisse mi
raccomando!), lasciando il coraggio nello zaino, alla base della parete. Come
diceva il buon Don Abbondio: ”Se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può
dare”, e purtroppo, tranne i pochi casi di alcuni campioni, che tutti adorano
ma nessuno imita, assistiamo ad un degrado dell’alpinismo ridotto a passatempo
all’aria aperta.
Camille Claudel, La vague (L’onda), 1897
ARRAMPICARE AI CORNI
TUTTE LE PUNTATE
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