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domenica 17 novembre 2019

Arrampicare ai Corni. Scritti (7/7)

Corno Orientale di Canzo
parete Nord-Est
Via Giuseppe Verderio
puntata numero otto
l’ultima


Il 3 novembre 2019 ho inviato questa mail:

Il racconto della Via dedicata al Beppe è quasi arrivato alla conclusione. Il 3 novembre 1969 uscivo dal tondo strapiombo dell’Onda che caratterizza il versante nordest del Corno Orientale di Canzo. Come si leggeva in molte relazioni pubblicate sulla Rivista del CAI, la mia uscita in vetta non era poi diversa da tante altre - e questo perché la stragrande maggioranza degli alpinisti erano operai, impiegati, artigiani, professionisti, ovvero persone che dal lunedì al sabato dovevano lavorare e quindi, per poter rientrare, molte vie restavano in sospeso e poi terminate, per risparmiare tempo, calandosi dall’alto. Oggi nessuno si fa più scrupoli: quante vie sono state aperte calandosi fin da subito dall’alto, chiodando i passaggi standosene in sicurezza, magari con grande uso del trapano a batteria? Aggiungo: dopo le due ore di arrampicata necessarie per raggiunge l’ultimo chiodo del 2.11, dopo 8 ore per domare lo strapiombo, dopo un volo che non finiva mai, ho dovuto vivere l’ora abbondante di sosta sul minuscolo appoggio sul ciglio dell’Onda, non assicurato. Col senno di poi avrei potuto forare la roccia e mettere un chiodo a pressione, ma allora non l’ho fatto perché non volevo mettere un chiodo in più oltre lo stretto necessario. Infine la scoperta che quello che vedevo da sotto non corrispondeva alla realtà: gli ultimi 35 metri erano sì verticali, ma relativamente facili, con un solo passaggio strapiombante da me quotato V+. Ah saperlo...
Una fotografia “blocca” il momento: quella dove mi si vede in vetta, col duvet rosso: guardate la mia mano sinistra, quella che per otto ore ha ruotato il punteruolo, forando la dura roccia dei Corni di Canzo; più che una mano sembra una chele, un arto anchilosato. Il 3 novembre 1969 era una giornata gelida e il rosso-blu del cielo al tramonto lo dimostra. Oggi, 50 anni dopo, è una giornata uggiosa, di pioggia.
Gcm


Nei giorni a seguire alcuni amici mi hanno regalato un loro scritto, oltremodo gradito, che qui espongo in ordine d’arrivo.

Alberto Benini
Una via per un amico

La dissezione anatomica cui Giancarlo ha sottoposto la sua imprese targata 1969 induce ed autorizza a fare un po’ di cornice a questo racconto. Nient’altro che riflessioni a margine scritte da chi quella parete l’ha già “guardata su” e che quindi non ha nulla di specifico da aggiungere.
Un po’ come in tutti i resoconti di avventure alpine c’è qualcosa che è comune e qualcosa che lo è meno. Potremmo dire elementi paradigmatici ed elementi unici e caratteristici. Fra i primi indicherei senz’altro la scelta di aprire una via per dedicarla ad un compagno caduto in montagna. Tradizione che sarebbe interessante analizzare dalla sua nascita ai giorni nostri. Anche il tipo di problema che viene affrontato è significativo dell’epoca: uno strapiombo. Forse meno l’idea di dargli un nome suggestivo “l’onda”, quasi un’anticipazione delle fantasie di Ivan Guerrini che arriveranno qualche anno dopo.
Elementi certamente meno comuni sono la scelta di una parete dei Corni, certo meno prestigiosa della Grignetta, anche se va detto che anche per la reginetta delle Prealpi gli anni 60 non rappresentarono certo un momento di grandi scoperte, seppur con qualche eccezione. Diciamo che gli effluvi del maggio francese dovevano ancora impiegare del tempo per giungere qui, sulle Alpi della Brianza e per trovare una declinazione montanara.
Anche la scelta di bivaccare in tenda a breve distanza dall’attacco, seppur legata e evidenti motivi pratico-economici, contribuisce a richiamare elementi centrali della narrazione (oggi si direbbe storytelling) alpinistica di quegli anni e vero elemento di misura, insieme al numero di chiodi usati, per le grandi imprese, almeno per il pubblico non specialista…
Circa i tempi dice tutto Giancarlo: Il 3 novembre 1969 uscivo dal tondo strapiombo dell’Onda che caratterizza il versante nordest del Corno Orientale di Canzo. Come si leggeva in molte relazioni pubblicate sulla Rivista del CAI, la mia uscita in vetta non era poi diversa da tante altre - e questo perché la stragrande maggioranza degli alpinisti erano operai, impiegati, artigiani, professionisti, ovvero persone che dal lunedì al sabato doveva lavorare e quindi, per poter rientrare, molte vie restavano in sospeso e poi terminate, per risparmiare tempo, calandosi dall’alto.
Ma forse l’elemento più interessante del recit si situa al di fuori delle due categorie che ho indicato prima: ed è l’infrazione alla corretta sintassi alpinistica che vede la cordata procedere ordinatamente lungo la via, nel regolare succedersi nel movimento e nella sosta dei suoi componenti. Una situazione descritta con innegabile capacità inventiva da Erri De Luca nel suo Il contrario di uno tirando in ballo un efficace paragone con un bruco che procede per contrazioni ed estensioni.
Alla fine della via Giancarlo, per una serie di motivi, ben circostanziati nel brano, si slega, lascia cadere le corde e attende che gli amici gliele calino dalla vetta. Un’infrazione che fa venire in mente il lancio di corda con cui Bonatti risolve il problema del tetto nella sua ascesa solitaria al Dru.
Non sto intessendo arbitrari e temerari paragoni. Dico solo che si tratta di un’infrazione alle normali regole di progressione. Di una di quelle infrazioni che dimostrano lo spirito di iniziativa di cui uno scalatore può andare provvisto.
Un’ultima osservazione: ho usato prima l’espressione “Alpi di Brianza”. Non è invenzione di ieri: risale alla Storia della Brianza (impresa dell’editore Paolo Cattaneo) cui ho avuto l’onore di collaborare, scrivendo insieme a Sergio Poli un capitolo su escursionismo e alpinismo in Brianza. Siamo partiti dall’assunto che la Brianza stia ai Corni di Canzo e al Moregallo come la Pianura Padana stia alle Alpi. E che di conseguenza queste piccole, ma importanti “Alpi della Brianza” siano state il terreno di elezione per gli alpinisti che abitavano a nord di Milano.
E l’impresa di Giancarlo e dei suoi amici, in ricordo di Giuseppe Verderio, è lì a confermarlo.
Ab_


Pietro Corti
L’ONDA

Ricorre in questi giorni (10 novembre 2019) l’anniversario di una via aperta cinquanta anni fa sulla parete nord est del Corno Orientale di Canzo. Una parete di dimensioni ragguardevoli, caratterizzata da un muro compatto che in alto si inarca in una grande onda di pietra. Uno strapiombo liscio e repulsivo che nel 1969 entra nel mirino di Giancarlo Mauri, valente alpinista della sezione di Vimercate del C.A.I.
Sono gli anni delle grandi vie in arrampicata artificiale in Dolomiti, che hanno visto tra le massime realizzazioni salite come la Direttissima dei Sassoni (1963) e la Camillotto Pellissier (Mauro - Minuzzo, 1969) alle Cime di Lavaredo, oppure la via di Cesare Maestri alla Roda di Vael del 1960. Salite psicologicamente e fisicamente allucinanti, effettuate con larghissimo impiego di chiodi a pressione, infissi in piccoli buchi della roccia dopo un estenuante lavoro di martello e bulino. Giorni e giorni in parete, immersi in un vuoto assoluto, appesi a minuscoli pezzi di metallo lunghi pochi centimetri, spesso dovendo “farcire” i buchi fatti a mano con piccole scagliette di legno, o quello che capitava, per aumentare la tenuta del chiodino.
Isolamento totale e possibilità di ritirata praticamente nulla. Per rifornirsi di chiodi, viveri e materiali da bivacco, si utilizzavano lunghissimi cordoni ombelicali calati fino alla base e poi recuperati con fatica.
Una categoria di salite per le quali era stata coniata la difficoltà di “Sesto Grado Superiore”, non essendo possibile paragonarle alle leggendarie salite di Sesto Grado dei maghi degli anni ’30. Questo espediente tuttavia non farà che aumentare la confusione nella valutazione delle salite su roccia che sfocerà, pochi anni dopo, nel rifiuto della scalata artificiale e nell’avvento del Settimo grado di Messner, Reinhard Karl e pochi altri fortissimi scalatori visionari.
Ma allora, alla fine degli anni ’60, il concetto di “estremo” era ancora disegnato sull’orlo di quegli enormi strapiombi, e molti giovani (Messner compreso, anche se per poco) furono attirati da quel tipo di arrampicata così spettacolare. Un periodo che Giancarlo Mauri ha interpretato a modo suo, cavalcando l’onda di pietra del Corno Orientale di Canzo.
Giancarlo è un alpinista che, a suo dire, è sempre stato decisamente refrattario alle zone “alla moda”, e questa sua caratteristica lo ha portato, in quel momento, a individuare nelle pieghe delle pareti dei Corni quello che cercava da tempo: una struttura difficile, dove nulla è scontato, da interpretare metro dopo metro.
I Corni racchiudono un piccolo universo di strutture rocciose che alternano zone compattissime ad altre decisamente più delicate, ma che in nessun caso si lasciano scalare con facilità. Tutt’altro genere rispetto alle splendide dirimpettaie, le guglie della Grigna, ricche di fessure e solidi appigli. Sarà un caso infatti che dopo le sue prime scorribande sulla roccia, proprio sui Corni, il pioniere della scalata lombarda Eugenio Fasana (Gemonio 1886 - Milano 1972) si sia presto rivolto alla Grignetta, non prima però di avere messo a segno un colpo formidabile sulla parete nord est del Corno Centrale, sfiorando il Sesto Grado in arrampicata libera… Nel 1910. Ed è la via più “facile”!
L’avventura di Giancarlo e Diego Pellacini sulla Direttissima della parete nord est viene vissuta pienamente, salendo in più riprese (le giornate a novembre sono corte, e al lunedì bisogna timbrare il cartellino), con un contorno di notti passate sotto le stelle alla Bocchetta di Luera intorno ai fuochi di bivacco, disdegnando il comfort del vicinissimo rifugio S.E.V. Senz’altro, più che per romanticismo, a causa della desolante leggerezza del portafoglio dei protagonisti.
La via si sviluppa per circa 200 metri, ed è caratterizzata dall’impressionante strapiombo che, alla fine, esce di quasi venti metri rispetto alla verticale… Roba che da queste parti non ce n’è in giro molta, Grigne comprese. L’utilizzo dei chiodi a pressione si rivela subito obbligato, vista la compattezza della roccia.
Il racconto originale svela anche un risvolto inquietante, con i chiodi appena utilizzati per la progressione con le staffe, che escono dalla roccia penzolando sulla corda, precludendo al Giancarlo Mauri, capocordata per tutta la salita, qualsiasi ritirata. L’unica via d’uscita va cercata oltre il bordo dello strapiombo, che diventa la porta verso la salvezza. La relazione descrive infine la manovra rocambolesca per portare a casa la pelle...
Come talvolta accade, quindi, anche una salita sulla montagna “domestica”, a poco più di un’ora di cammino dalla periferia della città, si rivela una faccenda piuttosto complicata e rischiosa. Storie del genere non sono rare nei ricordi di molti scalatori delle montagne lecchesi, ai quali è capitato di assaggiare il forte sapore del pericolo su queste pareti così vicine al fondovalle…
Si ha notizia di una sola ripetizione dell’Onda o, meglio, di una ripetizione parziale, come si legge nella notevole documentazione di Giancarlo Mauri. Il che porta ad una considerazione, valida per questa come per le altre vie di questo stampo, ai Corni (dove ce n’è un discreto numero) e altrove…
Ha ancora senso oggi, nell’epoca dell’arrampicata sportiva in falesia e delle vie moderne in montagna aperte con trapano e fix - mi si perdoni l’estrema semplificazione - la ripetizione di questi itinerari? Senz’altro la loro scarsissima frequentazione fino ad arrivare, in molti casi, all’abbandono, potrebbe di per sè valere come risposta. Eppure forse non è così semplice… Anche dopo aver provato un po’ tutti gli stili di scalata che si sono susseguiti negli ultimi 45 anni (cioè fin dove arriva la mia esperienza diretta), ad eccezione, guarda caso, proprio dell’arrampicata artificiale sistematica, trovo difficile darmi una risposta. Sono così numerose le motivazioni, ed i condizionamenti, che ognuno si porta dentro.
Troppo bella e appagante la scalata sportiva, sia in falesia che in montagna, troppo intense le sensazioni su certe “multipitch” moderne, dove la presenza di protezioni a prova di bomba non sminuisce l’impegno complessivo. Lo sanno bene tutti coloro che si sono cimentati su quel tipo di vie, dovendo in certi casi buttare le doppie per non essere riusciti a passare, magari anche per paura…
Una via come quella sull’Onda appartiene ad un passato più che remoto, e non è (non ancora? Ma forse non lo sarà mai. Mai dire mai...) entrata nel novero delle antiche vie in artificiale ripercorse in libera, limitandosi a rinforzare le soste con fix giusto per assicurarsi il biglietto di ritorno.
Bisogna allora liberarsi dall’attuale canone estetico che valuta “bella” una via solo se sale su roccia ottima e con protezioni (o proteggibilità) di buona qualità, e mettere nel conto molti altri ingredienti.
È uno sforzo non facile, comunque, ma che forse può riaprire prospettive oggi diventate poco comuni.
P.
CORNO ORIENTALE DI CANZO DIRETTISSIMA ALLA PARETE NORD EST - VIA GIUSEPPE VERDERIO, Giancarlo Mauri e Diego Pellacini il 2-3 e 9 novembre 1969. 195 m, V/A3


Franco Pescali
L’ONDA

“I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.”
Ennio Flaiano

Avviso ai naviganti: questo mio racconto sarà partigiano, perché parlerò di mio zio.
Proprio così mio zio.
Fratello di Enrica, mia madre, figli di due meravigliose persone come Cesare Mauri e Antonietta Villa.
Sono stato fortunato da avere uno zio così.
Come parte della mia generazione sono cresciuto a suon di libri di Jules Verne e di Salgari, dove i personaggi delle avventure vivevano esperienze in terre lontane, affrontavano bestie feroci, oppure viaggiavano in posti rischiosi.
Ed io da piccino, ma non solo da piccolo, rimanevo affascinato dalle avventure che mi raccontava mio zio. Montagne, popoli, libri, fotografie, quadri (voi non lo sapete ma il Mauri è stato anche un valente pittore) ogni volta che incontravo lo zio con la “barba” venivo travolto come nel quadro la grande onda di Kanagawa del pittore giapponese Hokusai, da mondi lontani, suoni, culture diverse.
Con lui, sono stato nelle cattedrali più sperdute, sono stato a tirare un asino che non voleva camminare durante un cammino di Santiago, sono stato su pareti ripide in montagna, con lui ho scoperto autori, libri, critici, che mai e poi mai avrei pensato esistessero.
Diciamo che per me è stato come Phileas Fogg personaggio principale del romanzo avventuroso il giro del mondo in ottanta giorni, romanzo che insieme a Pinocchio considero uno dei libri che andrebbero fatti leggere ai bambini delle elementari.
Ma veniamo alla Via Giuseppe Verderio.
Purtroppo non ho ricordi di quell’epica impresa del novembre del 1969, mentre ho un ricordo vivissimo dei giorni successivi alla morte di Giuseppe avvenuta il 2 marzo 1969.
Mi ricordo, che andai a trovare mio zio insieme a mia madre (avevo cinque anni) nella casa dei miei nonni a Vimercate; trovai Gianni, seduto sul divano che si comportava in modo “strano”, rispetto a tutte le altre volte.
Poi ad un certo punto dopo aver parlato tanto con mia madre e i suoi genitori, mi chiamò e mi fece sedere accanto lui. Mi abbracciò forte. Con quell’abbraccio capii che era successo qualcosa di grave, qualcosa che aveva fatto piangere anche mia madre.
Io immagino la vita come un sentiero.
Su questo sentiero che percorriamo ogni giorno, verso una vetta in alcune fasi dell’ascesa troviamo persone; alcune ti consigliamo di tornare indietro, altre che ti annoiano, alcune che ti insegnano.
Credo che a me, Gianni mi abbia insegnato a “vedere” il mondo.

In memoria di Giuseppe Verderio.


Davide Valsecchi
ONDA IMMOBILE

“La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’è. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.”
Dicono che l’alpinismo sia “la conquista dell’inutile”, io con il tempo avevo iniziato a credere fosse un modo garbato di dire “inutile conquista”. Per quasi un decennio ho ritenuto che l’arrampicata fosse qualcosa di futile e pretestuoso: “Perché passare dove la roccia è verticale quando puoi andare in cima passando dai prati dell’altra parte?”. L’uomo aveva raggiunto la Luna, conquistato tutti gli ottomila: c’era stato un “compressore”, poi le bombole d’ossigeno, poi elicotteri ed i trapani a batteria. L’alpinismo e l’arrampicata erano morti e sepolti, trasformati in una caricatura buona giusto per le “reclam” degli orologi senza limiti o dell’acqua gasata in bottiglia di plastica. Non era qualcosa che meritasse più la mia attenzione. Poi mia madre morì ed ogni mia certezza vacillò di colpo: dopo due furiosi anni spesi in giro per il modo, mi ritrovai ancora inquieto e senza scopo sotto le grandi pareti dei Corni, davanti alla grande Onda del Corno Orientale. Tra i tre (a volte quattro) è quello più basso, quello la cui cima si raggiunge “in piano”, quello che nasconde la propria grandezza tra le ombre. Là, su quella roccia verticale, mi raccontavano ci fosse una via dedicata a mio nonno, che morì tra le braccia di mia madre adolescente, in un giorno d’inverno, mentre camminavano insieme tra la neve in montagna. Non arrampicavo più da oltre dieci anni, da quando ero tornato dal Pakistan: la mia era un’idea senza senso, ma avrei provato a riempire il vuoto e placare la rabbia salendo quelle pareti dimenticate da tutti. Fu così che scoprii la storia di Giuseppe e Giancarlo.
“Le leggi che governano le formiche governano anche le stelle”. La gravità è una di queste leggi: una forza capace di muovere i pianeti, catturare la luce, distorcere il tempo. Nella buia solitudine del Corno Orientale la gravità si allea con la parte più buia del proprio spirito, quell’infinita tristezza che senza sosta cerca di trascinarci verso il basso. Lassù, tra quella roccia che sembra un mare agitato, la gravità ci spinge al limite, stravolge le percezioni, tanto dello spazio quanto del tempo. All’improvviso, sotto la Grande Onda, il mondo verticale appare orizzontale, guardare in alto significa semplicemente guardare in avanti. Sotto la Grande Onda ogni certezza si affievolisce fino a scomparire: “In fisica con il termine onda si indica una perturbazione che nasce da una sorgente e si propaga nel tempo e nello spazio, trasportando energia o quantità di moto senza comportare un associato spostamento della materia”. La sorgente di quell’onda immobile si trova dentro di noi? Lassù la gravità ti trascina da dietro verso il basso mentre davanti a te la Grande Onda sembra precipitarti addosso: quando finalmente raggiungi la vetta, dopo interminabili ed incerte ore appeso, hai il “mal di terra”, ti sdrai sul prato cercando di riallineare le tue percezioni ed il tuo equilibrio prima di ricominciare finalmente a camminare come un essere umano. Disteso finalmente ti abbandoni esausto alla gravità lasciando che ora sia l’intera grande parete a sostenerti, a darti equilibrio. Per un istante sei finalmente senza peso: la gravità e la grande onda ti hanno travolto, colpito e saggiato. Con la loro forza hanno trascinato verso il basso tutto ciò che non era più parte di te. Dolore, rimpianti e tristezza sono precipitati nel vuoto, per un istante sei nuovamente libero ed accanto a te, in quel mondo nuovo, ti sono di ancora vicine le persone che hai portato con te, oltre la gravità, oltre la grande Onda.
«Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia». Se Giancarlo non avesse raccontato la sua storia, sua e di Giuseppe, forse oggi, come molti altri, sarei ingenuamente convinto che l’arrampicata abbia solo scopo di salire sulla roccia. Sotto la grande Onda si compiono grandi “viaggi”, tra questi la Verderio resterà probabilmente uno dei viaggi più leggendari, probabilmente irripetuto ed irripetibile, nella tradizione dell’Isola Senza Nome. Grazie.
«Ha ripreso a nevischiare. Foto ricordo. Siamo soli. La via dedicata alla memoria di Giuseppe Verderio adesso è davvero finita. È il nostro ultimo legame terrestre. Il nostro piccolo monumento.»
Davide “Birillo” Valsecchi


Ruggero Meles

Non sono uno storico dell’alpinismo e ho arrampicato poco ai Corni di Canzo. Anche la parete NE del Corno Orientale salita da Giancarlo Mauri e dedicata a Giuseppe Verderio suo giovane compagno di cordata nei lontani anni sessanta non l’ho frequentata molto. Beppe Verderio aveva progettato la salita con Giancarlo, ma purtroppo era morto il 2 marzo 1969 nella discesa dalla Corna di Medale dopo una salita d’allenamento sulla via Cassin con Giancarlo, prima di poter effettuare il tentativo sulla parete del Corno Orientale. Non posso dunque esprimere un preciso giudizio tecnico sull’impresa, anche se guardando l’impeccabile documentazione fotografica che Giancarlo ha messo in rete credo proprio che ripeterla richieda un’abbondante copertura di pelo sullo stomaco e un’ottima capacità di chiodatura in artificiale (e non parlo di spit o fix infissi dopo aver bucato con il trapano, ma di chiodi a pressione che hanno fatto venire i capelli bianchi anzitempo a molti arrampicatori della mia generazione…). Credo però di poter fare delle considerazioni più generali. La storia non si fa con i se, ma la prima domanda che mi pongo è: chissà cosa avrebbe combinato la giovane cordata Mauri-Verderio se Giuseppe non fosse caduto quel maledetto 2 marzo? Guardando l’incredibile documentazione fotografica di Giancarlo sembrava una cordata ed un’amicizia davvero ben assortita che lasciava presagire grandi cose sulle rocce e al piano. Beppe con la pipa in bocca, già con un’espressione da uomo adulto, sembra qui con noi, intento a guardarci dalla foto. E qui mi viene una seconda considerazione sul tempo che sembra passare. Giancarlo lo cattura in immagini e ricordi con un rigore implacabile, lo fissa quasi ad impedirgli di ripiombare nel nulla. Ci ricorda ciò che è stato e come è stato e forse questa sua capacità di fermare il tempo ha cominciato a germogliare dentro di lui proprio quel giorno di marzo del millenoventosessantove nel tentativo di cercare di capire che quello che accade, anche se spesso lo dimentichiamo, è esistito davvero. Non sono “nulla” le straordinarie notti passate in tenda con gli amici, (a due passi dal rifugio…), purtroppo non è “nulla” la foto di Giancarlo di fronte al cespuglio dove ha ritrovato il corpo dell’amico e, per fortuna, non è stato riassorbito nel nulla nemmeno quel luminoso 18 maggio 1975 con Giancarlo, Daniella e il piccolo Marco impegnato nel suo primo bivacco tra i prati.
Dunque grazie all’Onda che Giancarlo ci ha regalato, che non ho nessuna intenzione di tentare di salire, ma che nella prima giornata di sole andrò a guardare dal basso…


Gianmaria Mandelli
Ricordi e constatazioni

Il Corno Orientale di Canzo, che praticamente non è di Canzo ma nel territorio di Valmadrera, è un po’ il simbolo dell’alpinismo valmadrerese essendo stata la prima vera parete inviolata ad essere salita da alpinisti valmadreresi. Non a caso, insieme al Corno Ratt, è la parete con le rocce più evidenti che si affaccia su Valmadrera, e non a caso entrambi le pareti, sono state prese di mira, negli anni immediatamente prima della seconda guerra mondiale, dai giovani Darvini e Pierino che nel 1939, sul Corno Orientale e nel 1940 sul Corno Ratt, le hanno scalate entrambe. Parlare del Corno Orientale per me è un po’ come parlare del salotto buono di casa, dove potrei portare qualche visitatore che con buona disponibilità potrebbe assaporare il piacere di arrampicare su quelle magnifiche rocce. Senza nulla togliere alle altre pareti dei Corni e del Moregallo il Corno Orientale esprime l’essenza dell’arrampicata sui Corni, dove tecnica, abilità e forza bruta devono essere dosate con dovuta sapienza. Le sue pareti variano dal verticale allo strapiombante e hanno anche una costante che a volte lascia perplessi, sono estremamente lisce e i pochi appigli che mostrano sono di un piatto che raramente si incontra, perciò molto selettive. Questo è soprattutto il motivo per il quale nell’epoca d’oro dell’arrampicata artificiale sono state prese di mira, nella ricerca del superamento degli strapiombi, che in quel periodo venivano domati con l’impiego di parecchi chiodi, che però portavano l’alpinista a passare parecchie ore in parete e a sforzi fisici non indifferenti.
La prima volta che mi trovai nel diedro della via Stella Alpina sul Corno Orientale, notai con un po’ di apprensione, la linea di chiodi a pressione che saliva dritta nello strapiombo della grande onda che caratterizza il settore rivolto a nord del Corno. Ad alcuni chiodi erano appesi dei vecchi cordini e delle staffe che facevano capire anche ad un incompetente quanto strapiombava quella parete. Erano gli anni settanta del secolo scorso, e insieme a Giorgio Tessari stavo lavorando ad una guida che doveva raccogliere tutte le relazioni di vie alpinistiche dei Corni e in generale delle montagne che dominano Valmadrera. La guida uscì nel 1979 (…quarant’anni fa!) e quella via, della quale non avevamo notizie precise, che percorreva il grande strapiombo dell’onda, la chiamammo CAI Melzo, avendo avuto indicazioni che era stata aperta da soci di quella sezione. Si raccontava che i primi salitori bivaccavano nei dintorni del Corno e che la giornata conclusiva dell’apertura della via era stata caratterizzata da una fitta nevicata che aveva costretto gli alpinisti ad abbandonare parte del materiale in parete per poter raggiungere la fine delle difficoltà velocemente. Le staffe e i cordini rimasero appesi ancora alcuni anni, poi negli anni ottanta, Roberto Assi che era nativo di Melzo, incuriosito da quella via che doveva essere frutto di suoi concittadini, si avventurò nella ripetizione. Ne uscì, a quanto mi riferì, abbastanza impressionato da quel vuoto nel quale ci si doveva immergere per salire, appesi a dei sottili chiodi a pressione. Le sue poche parole, che risvegliarono in me un sano dubbio, furono quelle che mettevano in dubbio l’apertura della via da parte di cittadini di Melzo, conoscendone la realtà di quella sezione. Così non ricordo come o perché, parecchio tempo dopo la pubblicazione della guida, cominciai ad interessarmi ai nomi degli autori della via e successivamente incontrai anche uno dei due apritori. Giancarlo mi chiarì poi il mistero che circondava quella via e mi fornì anche delle foto della prematura nevicata (era il 4 novembre) che li aveva investiti durante l’ultima giornata. Immaginai Giancarlo (non un peso piuma, vista la corporatura) appeso a quei chiodi nel vuoto più completo e non potei che complimentarmi con lui per il coraggio che aveva avuto nel portare a termine quella via. Negli anni successivi agli anni sessanta le vie di quel genere caddero in disuso e gli alpinisti odierni si guardano bene prima di andare a cacciarsi su strapiombi del genere, non tanto per etica, ma proprio per una fifa boia, che accomuna i soggetti che al giorno d’oggi frequentano l’arrampicata.
Gli anni settanta del secolo scorso riportarono alla ribalta l’arrampicata libera, ma i giovani alpinisti di allora, pur contestando i troppi chiodi usati per scalare le pareti più strapiombanti delle Alpi, avevano anche un po’ di coraggio nell’affrontare linee logiche con un uso limitato di protezioni. Ora invece succede il contrario, si affrontano linee illogiche cercando sempre la difficoltà, abbondando sul numero delle protezioni (fisse mi raccomando!), lasciando il coraggio nello zaino, alla base della parete. Come diceva il buon Don Abbondio: ”Se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare”, e purtroppo, tranne i pochi casi di alcuni campioni, che tutti adorano ma nessuno imita, assistiamo ad un degrado dell’alpinismo ridotto a passatempo all’aria aperta.

martedì 25 aprile 2017

Binario 21 - Memoriale della Shoah di Milano



Stazione Centrale di Milano. Lasciato il carcere di San Vittore, il 27 aprile 1944 parte dal binario 21 un convoglio carico di prigionieri politici destinati al campo di concentramento di Fossoli, luogo di partenza dei treni diretti ad Auschwitz. Tra gli stipati vi è Leopoldo Gasparotto, avvocato di professione, alpinista per passione, con due spedizioni sulle spalle: una nel Caucaso e l’altra in Antartide. Casualità vuole - ma non tanto - che decenni dopo toccherà a me seguire le sue tracce caucasiche…
Per saperne di più su di lui rinvio a due libri davvero importanti: Leopoldo Gasparotto. Alpinista e partigiano è il titolo della biografia scritta da Ruggero Meles e stampata da Hoepli nel 2011. Il secondo, Diario di Fossoli di Leopoldo Gasparotto, a cura di Mimmo Franzinelli porta il logo di Bollati Boringhieri, 2007. Da questo estrapolo le pagine iniziali, dove Gasparotto descrive le ultime ore passate in carcere e il viaggio sul treno, destinazione Fossoli. Ed è qui che il 22 giugno 1944, con un’esecuzione a freddo, Leopoldo Gasparotto trova la morte.

26 aprile 1944
La giornata si annuncia movimentatissima. Fin dal mattino scopini, guardie, militi si mostrano affaccendatissimi. Aria ottima, atmosfera di partenza, ripetute scene di saluto tra i compagni, che ignorano se si troveranno vicini sul treno. Io saluto tutti perché sono certo di essere tra i partenti. È di servizio un giovane milite, arruolato in seguito alla delazione di un compagno di lavoro, dopo essersi sottratto all’arruolamento nella organizzazione Todt. Ad un certo momento un tizio attraversa il cortile, ed il milite, riconoscendolo, grida al compagno che sta di sentinella sul muro di cinta del carcere «massel, che l’è un fascista!» Passo le ultime istruzioni per coloro che eventualmente rimanessero a S. Vittore.
L’impareggiabile P. mi viene a chiamare; rientro in cella per un ultimo, commovente colloquio con B., poi, di nuovo all’«aria», mentre questa si chiude, e saluto a tutti; calorosa stretta di mano al milite.
Mando a chiamare Cetra, per salutarlo. La sua commozione è tale che non riesce a parlare. Viviamo in una strana atmosfera. Io con P. e altri siamo felici, molti sono contenti, altri impressionati; coloro che restano, invece, e soprattutto le guardie, hanno l’impressione che noi partiamo per la Siberia. Naturalmente il Barba è il più commosso di tutti e mi invia cotolette, pane, un sacchetto, una preziosa scatola di sardine e del formaggio: è addirittura prodigioso. A me piange il cuore all’idea che egli resta, sono in pena per lui e per Luigi, e questa aumenta quando apprendo che verso le 11 egli è stato chiamato all’interrogatorio. Ma dopo mezzogiorno Luigi mi comunica che tutto è andato bene.
Ormai siamo, sia pur per breve ora, al crollo della disciplina dell’isolamento. «Tonorchi» e «Colombi» svolazzano nel 5° raggio, la mia cella rimane aperta, M. R. O. si avvicendano presso di me.
Finalmente, alle 14, risuonano i passi dei tedeschi nel corridoio. «Alles in Zelle!» è il primo ordine, allo scopo di rinchiudere anche gli scopini; ma poco dopo, ecco il contrordine, e si fa semplicemente il contrario; tutti, anche gli isolati, nei corridoi, presso i cancelli del «centro raggi».
Incomincia, dal primo raggio, un appello interminabile, condotto da Stutz, con una strana, spassosa, energica e gutturale pronuncia.
Ora è la nostra volta: i chiamati passano dall’altro lato del corridoio; siamo tutti isolati, ma dall’appello, per ordine alfabetico, pochissimi sono gli esclusi, tutti hanno la sensazione netta che ben pochi rimangano tra le tetre mura del Cellulare, soltanto coloro le cui istruttorie sono ancora in gestazione o che hanno serie probabilità di essere scarcerati.
Ma un grave colpo è inferto al mio ottimismo quando sento scorrere tutta la lettera «d» senza che venga chiamato Dal Pozzo.
Poco dopo odo il mio nome e mi trasferisco anch’io. Ora ho quasi in faccia Dal Pozzo. Il suo volto rimane lungo tempo contratto. Il rimpianto di questa esclusione non lascia dubbi. Io lo guardo lungamente, ma poi noi veniamo avviati verso il fondo del raggio, rimango separato da lui e travolto dalla confusione dei compagni ormai liberi di parlare tra di noi, di riunirsi in gruppi, di ritrovarsi a piacimento. È un piccolo 26 luglio degli isolati, una deliziosa confusione, nella quale, indebolito, non più abituato alla conversazione prolungata, poco dopo mi sento smarrito, mentre mi coglie il mal di testa ed il mal di gola.
In fondo al raggio continuano ad affluire i nuovi chiamati, ed appare anche Dal Pozzo, chiamato colla lettera «P». Respiro generale di sollievo; ormai l’atmosfera tra gli ex isolati è di netta allegria.
Finito l’appello, veniamo avviati a gruppi di 15 verso l’ingresso del carcere; ci vengono restituiti gli oggetti sequestratici addosso, nel carcere, dopo l’arresto, e qui, ancora una volta si ha la riconferma del disordine.
A Coletti vengono restituiti 500 franchi svizzeri, a molti, documenti delicati. A me, al contrario, non vengono restituite le 5000 lire che avevo nel portafoglio caduto sotto il portone della casa di piazza Castello n. 2 al momento dell’arresto.
Al ritorno al 5° raggio abortisce un tentativo di rinchiuderci nei cameroni al 3° piano. Si formano crocchi sui ballatoi, sulle scale, nei «cameroni». È impossibile, anche ai tedeschi, di stabilire un ordine. Intanto giunge la sera, suonano le otto ma non si parla neppure di partire. Viene posto un milite a guardia al finestrone, e questi ci reca la notizia che «fuori» ci sono assembramenti causati dalla notizia della nostra partenza. Da mezzogiorno la truppa blocca la strada attorno al carcere
È una strana impressione quella di conoscere delle persone e parlare di politica, senza che nessun milite intervenga a troncare il colloquio. È piacevole conoscere …
È ormai tutto buio; evidentemente i tedeschi attendono il coprifuoco per celare la nostra partenza. Infatti, soltanto dopo le dieci veniamo avviati a gruppi, incolonnati per due, verso l’uscita.
Il nostro gruppo, costituito per ordine alfabetico, si sta avviando, quando un compagno viene colto da una crisi di epilessia e viene ricoverato all’ambulatorio.
Mentre sostiamo per un ultimo appello, presso il cancello del «centro raggi» si avvicina ancora Cerra, ci saluta collo sguardo, ma non riesce a proferire verbo; si allontana senza, ormai, neppur nascondere le lagrime. Coraggio, Cerra, ci rivedremo, e presto!
Anche il milite … ci saluta con commozione, poi ci mettiamo in marcia verso l’uscita, e ci arrestiamo dietro il penultimo cancello, in attesa che il gruppo che ci precede salga sui camion.
L’apparato di forza è notevole. Parabellum e fucili mitragliatori ovunque.
Ora Stutz cerca qualcuno nella colonna; la percorre due volte, poi si ferma vicino a me, e «Anche questo passerà - mi dice - tanti auguri». «Grazie, arrivederci, in pace» rispondo io, sorpreso perché mai ho avuto contatto con Stutz, e neppure supponevo mi conoscesse. Egli trova ancora un attimo per replicare «Grazie, ho memoria». Poi si allontana, senza essere stato visto dai suoi compagni.
- Sì, Stutz, ci ricorderemo, ma ricorderemo anche e gli altri …, un altro …
Il tuo saluto ha prodotto su tutti gli astanti l’effetto che tu desideravi. Arrivederci in pace, quando la nostra e la tua patria saranno libere.
Poi, avanti. Il cancello si spalanca, eccoci nell’atrio di S. Vittore. Militi, SS, gendarmi armati fino ai denti (persino i marescialli si degnano di portare un mitragliatore ciascuno in spalla) ci fanno ala.
La parte posteriore di un grosso e sgangherato camion è stata infilata nella porta e noi vi saliamo, mentre i tedeschi, nervosi, irritati, urlano «Loss loss! Fondo fondo!» e spingono 45 persone ad entrare in una gabbia che ne potrà ricevere, normalmente, 20, finché uno dei marescialli entra egli stesso nel camion e a calci e urtoni spinge i primi entrati a stiparsi in modo inverosimile, bestiale, nel buio assoluto del fondo.
Compressi in posizioni inverosimili, aggrappati come si può, sostiamo un tempo che ci pare eterno, nel buio, nel caldo soffocante; poi, come Dio vuole, con grande fracasso, la colonna di camion si avvia e una mezz’ora dopo, colle ossa rotte, sbarchiamo nei sotterranei della stazione centrale, dove colla solita gentilezza veniamo introdotti e subito rinchiusi - sempre in 45 - in un vagone merci dove, anche se non fossimo al buio, non è possibile trovare né un fiasco d’acqua né un bugliolo o alcunché di simile. Ci accoccoliamo, si può ben dire, gli uni sugli altri e, nel calore soffocante, e nel tanfo, attendiamo.
Le ore non passano mai, in compenso passa un ferroviere e audacemente apre tre finestrini, protetti da grate, sulle testate del vagone. Dopo complicate manovre, spostandosi sui binari lateralmente, anche il nostro vagone raggiunge il grande ascensore, e viene issato alla stazione centrale, dove i tedeschi si accorgono dell’apertura dei finestrini e li richiudono. Siamo desolati, il senso di soffocazione aumenta. Ma una mezz’ora dopo troviamo il modo di riaprirne uno. Finalmente, alle 5 del mattino il treno si muove, e... riusciamo ad aprire un secondo finestrino.
Dire delle «gioie del viaggio»? È un po’ difficile. Siamo come i pesci che friggono: non troviamo mai la posizione giusta. Anche alzarsi in piedi è un’impresa notevole. Malagodi e Martello litigano tra di loro per una questione di piedi collocati in faccia; qualcuno riesce a dormire. Manzi, conosciuto in montagna e ritrovato qui, mi comunica che l’avv. May, a Bergamo, è stato condannato a morte. Martinelli mi fa bere del caffè e latte, ho perduto il soprabito, l’aria si è rinfrescata, ho un caldo terribile, mi fa male la gola, non mi abituo a tanto movimento. Così passa la notte, poi un chiarore tenue froda i tedeschi e si insinua nel vagone.
Passano infinite stazioni; è giorno. Passa Parma, effetti disastrosi dei bombardamenti. Passa Reggio: «Qui erano le Officine Reggiane», si potrebbe dire. Siamo a Modena, Carpi. Siamo fermi su un binario morto, nel caldo e nel puzzo, perché abbiamo tutti un corpo, e qualcuno ha dovuto ingegnarsi senza un bugliolo.
L’allenamento della cella ci dà la forza di attendere; viene il momento in cui si apre il vagone. Abbacinati dalla luce ci proiettiamo sul marciapiede, raggiungiamo un bell’autobus nel quale ci stipiamo, ma in modo sopportabile. Notiamo l’assenza di fucili mitragliatori; tedeschi anziani, dall’aspetto più trattabile di quelli fin qui incontrati.

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LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
25 aprile 2017