lunedì 24 dicembre 2018

Il ponte sulla Drina

Ivo Andrić
Prima edizione in lingua originale: 1945
Arnoldo Mondadori Editore 1960
Traduzione di Bruno Meriggi
pp. 3-4

Per la maggior parte del suo corso il fiume Drina s’apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi cañon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sue sponde si allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambe le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate. Un ampliamento di questo genere si trova anche qui, presso Višegrad, nel punto in cui la Drina scaturisce con un’improvvisa svolta dalla profonda e stretta gola formata dai Massi di Butko e dai monti di Uzavnica. La curva della Drina è oltremodo angusta e le montagne ai due lati sono talmente ripide e ravvicinate che sembrano un massiccio compatto, dal quale il fiume scaturisce come da una cupa muraglia. Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d’aria.
In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d’acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d’armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio. Questo ponte somiglia a una base dalla quale si apre a ventaglio tutta una pianura ondulata, con la cittadina di Višegrad, i suoi dintorni, e le borgate distese sulla fascia delle colline, una pianura coperta di campi, di pascoli e di piantagioni di prugni, intersecata da siepi e quasi spruzzata dai boschi cedui e di rade macchie d’abeti. In tal modo, guardando dal fondo del panorama, sembra che dalle ampie arcate del candido ponte scorra e si spanda non soltanto la verde Drina, ma anche tutta questa estensione, solatia e coltivata, con tutto quello che vi si trova e il cielo meridionale sopra. Sulla sponda destra del fiume, iniziando proprio all’altezza del ponte, si trova la parte più grossa della città col mercato turco, in parte sul piano, in parte sui pendii delle colline. All’altra estremità del ponte, lungo la riva sinistra, si estende Maluhino Polje, un sobborgo sparpagliato attorno alla strada che conduce a Sarajevo. E così il ponte, congiungendo le due estremità della strada per Sarajevo, unisce la città al suo sobborgo.
Quando si dice “unisce”, è esattamente come dire che il sole sorge al mattino affinché noi uomini possiamo vedere intorno a noi e svolgere gli affari che ci stanno a cuore e tramonta sul far della sera per consentirci di dormire e di riposare dalle fatiche del giorno. Questo grande ponte di pietra, preziosa costruzione di singolare bellezza, quale non posseggono neppure cittadine assai più ricche e frequentate (“Come questo in tutto l’impero ce ne sono soltanto altri due”, si diceva ai tempi antichi), è infatti l’unico mezzo di comunicazione stabile e sicuro in tutto il medio ed alto corso della Drina e costituisce un anello indispensabile sulla strada che congiunge la Bosnia con la Serbia e, oltre la Serbia, più in là, con le rimanenti contrade dell’impero turco, fino a Istanbul. E la cittadina col suo sobborgo altro non è se non uno di quei centri abitati che debbono incessantemente svilupparsi sugli importanti nodi di comunicazione e su entrambi i lati dei grandi ponti.
E così anche qui, con l’andar del tempo, le case si sono raccolte a sciame e si sono moltiplicati gli edifici alle due estremità del ponte. La cittadina ha tratto vita da esso e da esso è cresciuta come dalla sua indistruttibile radice.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Il ponte sulla Drina
Višegrad, 4 agosto 1980




lunedì 10 dicembre 2018

Musée Nissim de Camondo, Paris


Cacciati dalla Spagna per volere degli Inquisitori, alla fine del XV secolo una famiglia di ebrei sefarditi attivi nel mondo della finanza trova riparo all’ombra dei minareti dell’Impero ottomano. Vi rimangono per tre secoli, quando l’ala protettrice offerta dallo statuto di protetti dell’impero Austro-Ungarico consiglia loro di traslocare a Trieste, uno dei centri dell’interscambio commerciale tra il mondo cattolico e quello musulmano. Per non disperdere i contatti in essere, nel 1802 Isaac Camondo fonda a Istanbul una banca che porta il suo nome, poi ereditata nel 1832 da suo fratello Abraham-Salomon, colui che viene ritenuto il patriarca dell’immensa fortuna dei Camondo - e le solide radici da lui piantate a Vienna, Londra e Parigi gli regalano il nomignolo di “Rothschild dell’Est”. La sua visione di sviluppo internazionale - tenere i piedi in più scarpe è una lezione che gli ebrei hanno ben imparata a loro spese - lo induce ad associare alla banca di famiglia i suoi due nipoti Abraham-Béhor e Nissim - dal 1866 rimasti orfani del padre Salomon-Raphaël -, spingendoli ad aprire una sede della banca Isaac Camondo et Cie a Parigi, cittàdove lui stesso s trasferisce nel 1869.
Già naturalizzato italiano nel 1865, nel 1867 (per aver economicamente sostenuto la causa di riunificazione dell’Italia) Abraham-Salomon riceve da Vittorio Emanuele III il titolo di conte, trasmissibile ad Abraham-Béhor, il primogenito maschio, una limitazione poi corretta nel 1870 con un secondo decreto che concede anche a Nissim lo stesso titolo e la sua trasmissibilità.
L’aver scelto Parigi quale nuovo centro operativo non scioglie comunque i legami col passato. A Istanbul il patriarca è impegnato nello sviluppo urbanistico del quartiere di Galata, operazione affiancata da un’intensa attività filantropica, con la costruzione di scuole, di ospedali e dispensari che portano il suo nome.
Portare la sede operativa a Parigi implica la necessità di disporre di una struttura di prestigio, adatta a mostrare la solidità della ditta. L’anno 1869 coincide col periodo in cui i fratelli Pereire, acquisiti i diritti sui terreni a sud del Parc Monceau, danno l’avvio a una nuova speculazione residenziale che vede quegli spazi destinati alla costruzione di hôtels particulier adatti alle esigenze di prestigio delle emergenti famiglie dell’alta società industriale e finanziaria. Nel giugno del 1870 i Camondo acquistano due lotti di terreno tra loro adiacenti, un lato rivolto al Parc Monceau, l’altro aperto sulla rue Monceau. Il lotto indicato col numero stradale 61 viene affidato all’architetto Denis-Louis Destrors, che riceve da Abraham-Béhor l’incarico di costruirvi un fastoso hôtels, struttura completata nel 1875.
Il lotto adiacente, che porta il numero 63 di rue Monceau, non è vergine: nel 1864 Adolphe Violet, un ricco imprenditore attivo nei lavori pubblici, vi aveva fatto erigere una casa, ingrandita nel 1872. L’anno seguente Nissim, il nuovo proprietario, affida all’architetto René Sergeant l’incarico di creare una nuova casa, aggiungendovi una serra decorata secondo lo stile giapponese, mentre nel 1874 l’architetto Destors ne realizza la nuova facciata.
Presto inseritisi nel mondo dell’alta aristocrazia francese, i fratelli Camondo non disdegnano di organizzare dei fastosi ricevimenti, aprendo le porte dei loro saloni adorni di oggetti d’arte.

Nel 1889, a qualche mese di distanza l’uno dall’altro, muoiono entrambi i fratelli, un evento che segna l’inizio del declino della banca Camondo. L’erede designato - Isaac de Camondo, figlio di Abraham-Béhor - pian piano si allontana dagli affari per dedicarsi alla musica e all’arte, le sue grandi passioni. Amante dell’arte decorativa del XVIII secolo, nel 1881 acquista per l’ingente somma di 100.000 franchi la pendola delle Tre Grazie, opera attribuita a Étienne Falconet e poi, sempre per la stessa somma, arricchisce uno dei saloni di casa col mobile degli Dei, una prestigiosa opera di alta ebanisteria. Ma l’interesse di Isaac non si limita all’arredamento. Col tempo raggruppa una eccezionale raccolta di pitture, disegni e pastelli di pittori impressionisti quali Degas, Manet, Monet e Cézanne, collezione in seguito donata al Louvre.
Nel 1893 Isaac vende l’hôtel al 61 di rue Monceau per trasferirsi in rue Gluck, a due passi dall’Opéra, dedicandosi anima e corpo alla melomania.

L’hôtel al 63 di rue Monceau è abitato da Moïse de Camondo, l’erede di Nissim. A differenza del suo estroverso cugino Isaac, Moïse vive una vita più convenzionale. Il 15 ottobre 1891 sposa Irène dei conti Cahen d’Anvers (La Petit Irène ritratta da Pierre-Auguste Renoir nel 1880), nata in seno ad una potente famiglia di finanzieri ebrei. Lui ha 31 anni, 19 la sposa. La luna di miele dura otto mesi, passati nella villa di Cannes. Nel 1892 nasce Nissim, nel 1894 Béatrice. Nel frattempo, giusto per rinforzare i nuovi vincoli familiari, Moïse e suo suocero acquistano un mastodontico yacht, Le Geraldine.
Nel 1897 tutto cambia: Irène fugge di casa in compagnia del conte Charles Sampieri, responsabile delle scuderie Camondo. Le pratiche per il divorzio - interminabili e rese pubbliche e scandaloso dai giornali - si concludono l’8 gennaio 1902, coi figli lasciati alle cure paterne. Venduto lo yacht, Moïse reinveste in una vasta tenuta nei pressi di Chantilly, ricca di boschi adatti per la caccia, rinominando Villa Béatrice l’esistente dimora.
Due annotazioni:
- Per unirsi a Sampieri, coetaneo di Moïse, Iréne si converte al cattolicesimo: non può saperlo, ma nel 1944 questa conversione sarà la sua salvezza.
- Nel dicembre 1903 i due fuggitivi hanno una figlia, Claude Germaine.

Moïse coltiva la passione per i viaggi e per le automobili, già condensate nel 1901 nella partecipazione alla gara Parigi-Berlino. Rimasto solo, in compagnia dei figli ogni anno ama passare il mese di dicembre a Saint-Moritz, quello di gennaio a Monte-Carlo, i mesi estivi a Biarritz, Dinard o altre località à la page.

È solo alla morte del cugino Isaac (1911) che Moïse eredita la direzione della banca di famiglia, a cui s’aggiungono altri incarichi in consigli d’amministrazione. Non amante dei rischi finanziari, la sua direzione bancaria è caratterizzata dalla mera gestione conservativa.

Il tempo passa, i figli crescono, una prima guerra mondiale arriva.
Patriota convinto, nel 1914 il ventiduenne Nissin s’arruola nell’aviazione. Nel 1915, in qualità d’osservatore, partecipa a numerose missioni volte a fotografare i campi di battaglia di Verdun e della Somme. Nel luglio del 1916 prende il brevetto di pilota. Il 5 settembre 1917 Nissim lascia la base di Villers-les-Nancy per una nuova ricognizione. Con lui sul velivolo, un Dorand, vi è Lucien Desessard, fotografo e artigliere. A tremila metri di quota incrociano un aereo tedesco, il Dorand è abbattuto. Tre settimane dopo la conferma: i due aviatori sono stati sepolti con gli onori militari nel cimitero tedesco di Avricourt.
La notizia della morte dell’amato figlio getta Moïse nella più totale disperazione. Per lui tutto è finito. Nel 1919 vende la banca, nel 1924 redige il testamento, donando il suo palazzo e le collezioni in esso contenute allo Stato francese, ponendo precise condizioni, tra cui: «Desidero che il museo sia tenuto in maniera impeccabile e pulito meticolosamente. Non è compito facile, nemmeno con personale di primo livello, che dovrà essere composto da un numero di addetti sufficiente alla bisogna; il lavoro è tuttavia facilitato da un sistema completo di aspirazione che funziona con poca spesa e meravigliosamente bene. […] Nei giorni di pioggia i visitatori potrebbero accedere dal cancello di ferro battuto che dà sul passaggio carrabile coperto che collega il cortile con boulevard Malesherbes. Tale cancello è preceduto da un ampio marciapiede che potrebbe essere ricoperto di stuoie e lungo il quale si potrebbero disporre dei portaombrelli.»

Moïse de Camondo muore il 14 novembre 1935 e a vegliare sull’esecuzione del testamento paterno si applica la figlia Béatrice, colei che il 21 dicembre 1936 - presente il Presidente della Repubblica e altre cariche dello Stato - inaugura ufficialmente il Musée Nissim de Camondo, dedicato al figlio (e fratello) morto per la Francia.

È di nuovo guerra, con l’occupazione tedesca e il governo di Vichy affidato a Pétain.
In quanto ebrei da più di tre generazioni (mentre ne bastano solo due se entrambi i coniugi sono ebrei) nel dicembre del 1942 Béatrice, Léon Reinach (suo marito dal 1919) e i loro due figli - Fanny (1920) e Bertrand (1923) - sono arrestati e deportati nel famigerato campo di Drancy, periferia est di Parigi.
Il 20 novembre 1943 Léon, Fanny e Bertrand vengono stipati sul Convoglio 62 diretto ad Auschwitz. Sono 1200 le persone a bordo. All’arrivo 914 di loro sono subito uccise, mentre Léon e Bertrand vengono fatti proseguire verso i campi di Birkenau (Léon) e Monowitz (Bertrand).
Il 31 dicembre 1943 Fanny viene uccisa ad Auschwitz.
Il 7 marzo 1944 Béatrice è una delle 1501 persone che lascia Drancy per salire sul Convoglio 69 diretto ad Auschwitz.
Il 22 marzo Bertand è ucciso nel campo di Monowitz.
Il 12 maggio Léon è ucciso a Birkenau.
Il 4 gennaio 1945 Béatrice è uccisa ad Auschwitz.

Da questa mattanza ne escono indenni il Musée Nissin de Camondo, dal 1936 non più una depredabile “casa di giudei” ma di proprietà dello Stato francese (Musée des Arts Décoratifs) e Irène nata Cahen d’Anvers, ex moglie di Moïse de Camondo, madre di Béatrice, nonna di Fanny e Bertrand, fortunosamente convertitasi al cattolicesimo “prima” del 1940, data limite imposta dalle leggi razziali. Sarà lei l’erede dei Camondo.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
scatti del 4 novembre 2015
con l’inserimento di brani estratti da
Lettere a Camondo
un libro di Edmund de Waal
edito nel 2021 da Bollati Boringhieri
e di cui ne consiglio vivamente la lettura integrale


Conosco rue de Monceau piuttosto bene. […] Tutto cominciò venti anni orsono, in una mattina non diversa da questa. Percorrevo lentamente il boulevard Haussman per poi svoltare in rue de Courcelles e raggiungere il tratto dove la via inizia a farsi interessante. Poi mi lasciavo alle spalle l’incrocio con avenue Ruysdaël, in fondo alla quale si scorge la macchia verde del Parc Monceau e, proseguendo, passavo davanti alla mastodontica «mostruosità» di vostro zio Abraham al 61, al vostro elegante portone al numero 63, fino al boulevard Malesherbes. [...]
Le famiglie ebree che si trasferiscono nel quartiere arrivano da fuori. Questo posto offre l’opportunità per portare la propria famiglia in una Parigi laica, repubblicana, tollerante, civilizzata, e di costruire qualcosa con fiducia in se stessi, qualcosa di dimensioni appropriate, pubbliche. Entrambe le nostre famiglie, gli Ephrussi e i Camondo, arrivano nel 1869 ed entrambe, quello stesso anno, comprano un lotto di terreno in rue de Monceau. Al numero 55 c’è l’Hôtel Cattaui, residenza di banchieri ebrei trasferiti dall’Egitto. Dall’altra parte della strada ci sono un paio di Rothschild mentre due dei tre facoltosi ed eruditi fratelli Reinach abitano proprio accanto al parco. Henri Cernuschi, che vive quasi dirimpettaio a voi, non è ebreo ma è esule dall’Italia a causa delle sue idee politiche.










Partendo dunque dalle cucine, attraverso la vostra casa evitando gli spazi pubblici. L’architetto che avete scelto, René Sergent, aveva appena finito di ristrutturare il Claridge’s di Londra quando progettò questi spazi che sono il non plus ultra in fatto di efficienza. Impianto idraulico e di ventilazione all’avanguardia, maniglie delle porte sagomate per adattarsi perfettamente alla mano di una cameriera indaffarata. Le mattonelle di maiolica bianca scintillano. Le linee del grande fornello di ghisa sono sinuose e filanti come quelle di una delle vostre automobili nuove custodite negli immensi garage. Tutte le finestre hanno il vetro smerigliato. La luce è soffusa.




La porta che dà sulle scale di servizio è discreta, la si nota appena. […] Salgo. La prima porta mi conduce nel regno del maggiordomo, l’office coi suoi lavandini di zinco per lavare piatti e bicchieri. Una porta nascosta dà accesso alla sala da pranzo.




Vorrei sapere del cabinet delle porcellane dove, dentro vetrinette a sei ripiani, sono esposti i vostri servizi di Sèvres, les services aux oiseaux Buffon, e dove pranzate da solo: chissà se gettate lo sguardo oltre la finestra, verso i rami degli alberi che ondeggiano dolcemente nel vostro giardino e, più in là, nel Parc Monceau? Nel 1913 fate piantare aceri, ligustro della Cina e susini ornamentali, Prunus cerasifera Pissardii, dalla chioma rosso scuro.



In questa casa ogni stanza spinge avanti, si dispiega, interagisce. Sono nella biblioteca e posso proseguire in tre direzioni diverse. Dal salone principale è possibile accedere ad altri quattro spazi. Ci sono nicchie e recessi, scale a chiocciola che dalle camere da letto salgono agli alloggi della servitù, in modo che gli abiti possano apparire e sparire. Si intravede una scalinata curva che sale disegnando un ampio arco, tagliato da una galleria. C’è un appartamento nascosto per il maggiordomo, una stanza per l’argenteria, un locale espressamente dedicato al travaso del vino.
Avete affidato a René Sergent l’incarico di creare questa casa per voi. [...] Ma in questo edificio, tanto splendido quanto disorientante, l’architetto supera se stesso.















Posso parlarvi delle camere dei ragazzi, monsieur?
Quella di Nissim è un santuario. Quando, nel 1923, Béatrice, Léon e i bambini si trasferiscono nell’elegante appartamento di Neullly, voi trasformate la camera di Fanny e Bertrand in salotto. E in effetti è la stanza più accogliente della casa, con finestre su due lati, rivolte verso il parco e verso la casa di Cernuschi, ora trasformata in museo che espone le collezioni d’arte asiatica del defunto proprietario.






...sono nella vostra biblioteca. Adoro questa stanza. È circolare, dettaglio insolito per una biblioteca, e deve aver messo a dura prova i falegnami che hanno realizzato le librerie.
«[La mia biblioteca] è di forma rotonda con un solo lato dritto, che mi serve per il mio tavolo e la mia sedia; e curvandosi viene ad offrirmi, in un colpo d’occhio, tutti i miei libri...» scrive Montaigne nel saggio Di tre commerci.
Dell’avere biblioteche rotonde: Michel Eyquem de Montaigne e Moïse de Camondo.






E poi [nella camera da letto] c’è quel nudo davvero terrificante sopra il vostro letto. A quanto pare si tratta di un’allegoria del sonno ma è bruttina, a essere sinceri.


I sanitari sono in un recesso al di là di un passaggio ad arco, completamente immerso nell’ombra. Richiudo la porta con estrema discrezione.



CIMITERO DI MONTMARTRE