venerdì 25 settembre 2020

Meticciato e pigmentocrazia


Alfonso Vinci 
CORDIGLIERA 
VENEZUELA COLOMBIA ECUADOR PERÙ 
Leonardo da Vinci editrice, Bari 1963 
pp 124-127 


Lasciammo Fusagasugà che già avevamo imparato a pronunciarne correttamente il nome, - il quale ci richiamava gli altri di tipica origine india, come Facatativà, Chiquinquirà e Zipaquirà, per contrarrestare i quali, come una muraglia cinese contro i barbari, gli Spagnoli importarono la toponomastica più classica e ispirata che poterono trovare nel vecchio mondo: Florencia, Palmira, Armenia, Angelopoli, Antiochia, Filadelfia, Genova, Palestina, Salamina, Corinto, Silvania, Susa, Utica, Palermo, Libano, El Cairo, Cartago, Ginevra, Versailles.
Dopo Fusagasugà la strada continua a scendere per raggiungere la valle del Magdalena, in un paesaggio caldo ed arido, uguale a tutti i tropici americani aridi, con cacti e cespugli spinosi, villaggetti dipinti di bianco, cavernosi spacci di bevande gassose e ragazzini nudi.
Girardot è una città fluviale sulle rive del Magdalena e il suo mercato brulica, come tutti i mercati dei paesi caldi, della solita gente di colore indefinito, in abito originariamente bianco, con una accentuata tristezza nel volto, tristezza spesso fallace che inganna l’osservatore e che nasconde invece fame o anche una forma locale di allegria, incomprensibile per gli stranieri. I meticci nel mercato comprano e vendono manioca e banane da cuocere, il loro pane, e bevono rum bianco, la loro acqua. Osservando la folla si possono molto confusamente sommare gli incroci di tutte le razze del mondo, quali si leggono sui libri di scuola. Gli Spagnoli, appena sbarcati in America, si diedero subito con gusto a organizzare il meticciato su vasta scala, così che qualche generazione dopo, quando l’eroica conquista aveva lasciato posto all’imbelle governo dei grassi viceré, già i padri missionari potevano studiarne i risultati etnici, lasciandoci saporiti commenti e argute descrizioni.
Nel Museo Etnologico di Madrid si può osservare una intera collezione di quadri dei vari meticci americani, quadri che furono riprodotti diversamente anche in Messico, nel secolo XVII. Secondo queste illustrazioni, i meticci sono molto più numerosi di quelli che ci vogliono far credere le semplicistiche divisioni che si concludono sulla classica triade di creolo, mulatto e zambo. Il meticciato è invece una sottile alchimia nella quale il colore e la fisionomia si fondono, reagiscono, si elidono fino a qualità sottili e a tracce quasi inavvertibili, tornando, a volte, perfino a riformare il prodotto puro d’origine. La pigmentocrazia è il termine limite, il modo delle reazioni e il valore ultimo di tutte queste reazioni, per le quali sappiamo che Spagnolo più India dà il Meticcio di base. Questi, incrociato ancora con lo Spagnolo, dà il Castizo, il quale a sua volta, incrociato di nuovo con lo Spagnolo, torna a dare uno Spagnolo. Ecco così concluso un ciclo di reazioni che ci porta alla materia di partenza, la quale, dopo aver assorbito per strada un Indio, lo ha assimilato e cancellato dal proprio tessuto originario. Uno Spagnolo con una Negra dà invece, come risaputo, il Mulatto. Il Mulatto, a sua volta, con uno Spagnolo genera il Moresco, il quale, ancora con lo Spagnolo, dà un Albino o Cinese. L’Albino o Cinese con lo Spagnolo genera infine un Tornindietro, cioè un individuo che ha compiuto il ciclo di assimilazione della razza negra da parte dello Spagnolo e ritorna alle prime fonti. Le cose si complicano quando dalla reazione si elimina l’elemento spagnolo, potente catalizzatore e rigeneratore di razze, per lasciare il laboratorio in mano alle due razze colorate: i Negri e gli Indi. Il Mulatto con l’Indio dà il Calpamulatto, il quale a sua volta, incrociato di nuovo con l’Indio, genera il Gìbaro, una strana mescolanza che con il nome richiama gli Indi pedemontani dell’Ecuador, famosi cacciatori e riduttori di teste. Ora, il Negro con l’Indio dà lo Zambo, chiamato anche Lupo, e questi, di nuovo con l’Indio, dà il Cambuja. E se il Cambuja si accoppia ancora con l’Indio, genera il Sambahiga. Dalla parte negra troviamo che il Mulatto con il Meticcio genera il Cuarterone, colui cioè che possiede il suo etno diviso in quarti: due bianchi, uno negro e uno indio. Se il Cuarterone risale la scala della pigmentocrazia e si incrocia con un Meticcio, ne risulta un Coyote, il quale, sempre ricercando l’elemento bianco, si accoppia con il Moresco, e genera l’Albarrazado. Qui ormai ci avviciniamo allo spagnolo d’origine, secondo i teologi spagnoli che volevano che la loro razza, portatrice della civiltà e del Vangelo, avesse in sé il potere di assimilare e purificare, per quanto laboriosamente, tutte le razze di questo pianeta. Infatti se l’Albarrazado si accoppia con il Tornindietro, ne nasce un Tienitinaria. L’avvicinamento alle origini non è rapido e forse ottenibile solo all’infinito, come in aritmetica. Ad ogni modo i termini sono pronti per una reversibilità completa della razza, perché a Madrid si illustra che anche un Tienitinaria che si innamori di una Mulatta, può dar luogo a un figlio che etnologicamente si definisce Nonticapisco, il quale, se gli piace una India, può a sua volta generare un Saltaindietro, figlio evidentemente allusivo al processo di purificazione progressiva della razza eletta.
L’analisi del meticciato ha portato gli antichi scienziati spagnoli a queste sottili divisioni, ma ciò che importa in tutto questo non è né il Sambahiga né il Tornindietro, ma l’anima del meticcio, che è come un suono discorde originato da un troppo violento accoppiamento di strumenti differenti. La sintesi del meticcio è una sofferenza, perché la crisi di contenere in sé le due razze non è mai superata completamente. I due caratteri, o il mosaico di caratteri ereditati dalle varie mescolanze, convivono senza compenetrarsi del tutto e chi ne soffre è il vaso che li contiene. Riflesso nel popolo, il meticciato, da sofferenza individuale diviene sofferenza sociale, condizione madre dell’ispirazione artistica, la quale, naturalmente, perché si oggettivi, ha bisogno di una elaborazione secolare che porti a un estremo raffinamento delle sofferenze e degli intimi attriti etnici. L’arte, si potrebbe appunto dire, è del meticciato, sia del meticciato vero di uomo con uomo, che di quello più sottile ma non meno importante di uomo-ambiente, cioè della mescolanza tra un popolo e un individuo che, sempre vissuto in un determinato e preciso ambiente, si trova, a causa di emigrazioni, guerre o diaspore, ad adattarsi forzatamente ad un altro ambiente, con diverse qualità geografiche, alimentari, di lavoro e anche umane in genere.
Del resto le così dette razze pure, ammesso che esistano, non sono che specie di coltivazioni da laboratorio che non significano niente nel panorama umano, restando rinchiuse in quello biologico come una specializzazione dell’umanità, la quale, appunto come tale, non ha più possibilità di sviluppo in nessun senso se non nel proprio, il che significa maggior specializzazione, cioè deformazione biologica che porta senz’altro, come lo hanno dimostrato tutte le specie e i generi perduti nei tempi geologici, all’estinzione della specie per degenerazione organica.
Tutte le grandi civiltà sono nate da un meticciato uomo-uomo, fecondato da quello uomo-ambiente, cioè dalla mescolanza di due razze delle quali una arrivava emigrando da paesi geograficamente e culturalmente lontani: così è stato per la civiltà greca, per la romana, per l’italiana, per la spagnola, per la francese, per l’inglese.
In attesa che sulle montagne e nelle valli delle Ande si crei il meticciato completo, l’amalgama che esprima una nuova civiltà, mi sono trovato spesse volte, nei villaggi sudamericani, in profonda simpatia umana con il piccolo meticcio ancora provvisorio, in tensione, forse un Cuarterone o un Saltindietro, dallo strano colore tenace dei cuoi che non mutano con gli anni e con la temperatura, dagli zigomi sporgenti un poco mongolici, gli occhi scuri, il corpo snello e lo sguardo triste, un individuo che vive poco, in apparenza, che vive meno, ritirato dentro di sé, come se il suo corpo, già esile, fosse un involucro troppo grande. Egli non si muove dalla sua terra, la sola che conosce, come se stesse smaltendo una stanchezza storica lasciatagli dagli antenati che hanno attraversato il mare con le cedole dei re cattolici di Castiglia e con i ferri dei negrieri inglesi ai piedi, dopo essere stati catturati nei villaggi africani. Guarda con lo sguardo melanconico le montagne fumanti in un orizzonte confuso di selve e nubi, prende uno strumento qualsiasi, mezzo-sangue musicale come lui, di barbare ocarine senegalesi, di indie tibie di pecari o di raffinate chitarre arabo-andaluse, e compone una canzone qualunque, rivolta alla sua donna o a quella che dovrebbe essere sua, in un mondo di finzioni non ben determinate. Canta per esempio: «io sono la nube grigia che annuvola il tuo cammino, così ti lascerò andare verso il tuo destino».
Il meticcio in attrito è buono e mite e non può non suscitare simpatia, almeno per uno che sente nel profondo i più saporiti fermenti del meticciato di uomini e di geografia.

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