Quando Aron Hector Schmitz (poi Ettore Schmitz, poi Italo Svevo)
scrive e fa stampare a sue spese due romanzi, Trieste è soggetta al governo di
Vienna e i commerci che ruotano attorno all’attività portuale creano
ancora ricchezza, l’humus adatto al proficuo sviluppo delle
attività artistiche di contorno.
Sposando Livia Veneziani, la vita di Ettore cambia
registro: lascia il suo vecchio lavoro per entrare nell’azienda del suocero,
con frequenti viaggi in Inghilterra a scopo professionale.
Dal 1905 alla Berlitz School di Trieste la lingua
inglese è insegnata da un giovane irlandese decisamente strambo e forse per
questo ricercato. Lui non annoia con lezioni grammaticali, ma ama entrare fin
da subito nel vivo della conversazione attraverso il tema a lui più caro, la
letteratura.
In breve il professor Joiz si ricava
una sua fetta di clientela nel mondo della nobiltà e fra i ricchi commercianti,
a cui impartisce lezioni anche in privato.
Questo giovane - James Joyce all’anagrafe - ha
ereditato dal padre la sana abitudine che oggidì caratterizza politici,
banchieri, alto clero e industriali da rapina: vivere il meglio possibile
grazie ai soldi altrui.
Nel caso specifico, Joyce usa frequentare
quotidianamente i ristoranti, passare le notti nelle osterie scolando quanto
più vino bianco possibile (ma sempre il migliore) e frequentando postriboli.
All’opposto, quel che proprio non rientra nel suo DNA è il metter mano al
portafogli per pagare i creditori, proprietari degli appartamenti in affitto
inclusi. Da qui la ragione dei suoi continui cambiamenti d’indirizzo; ma
di questo ne parlerò altrove.
Un modo di vivere, questo suo, così “fotografato” da
Ernest Hemingway in una lettera indirizzata a Sherwood Anderson e datata
Parigi, 9 marzo 1922: «… Joyce ha un libro maledettamente meraviglioso. [L’Ulysses,
appena pubblicato da Sylvia Beach] Probabilmente ti arriverà per tempo.
Intanto le notizie dicono che lui e tutta la sua famiglia stanno facendo la
fame, però poi quella tribù di celti la trovi tutte le sere al Michaud dove
Binney [Hadley] e io possiamo permetterci di andare soltanto
una volta alla settimana o giù di lì.
Gertrude Stein dice che Joyce le ricorda una vecchia
di San Francisco il cui figlio si era arricchito nel Klondyke e la vecchia non
faceva che andarsene in giro storcendosi le mani e dicendo: “Oh Il mio povero
Joey! Il mio povero Joey! Ha troppi soldi!”. Questi maledetti irlandesi, devono
sempre lamentarsi per una cosa o per l’altra, però mai sentito dire di
irlandesi che muoiono di fame.»
Un bel giorno a Villa Veneziani il professor Joiz decide
d’introdurre nella didattica la lettura di alcune sue poesie e parti del suo
nuovo libro in fase di stesura. Ettore e Livia Schmitz ne sono profondamente
colpiti e a modo loro vogliono omaggiare l’insegnante: lei esce in giardino e
rientra con un mazzo di fiori freschi raccolti per lui, Ettore gli confida un
suo segreto: a suo tempo pure lui aveva scritto due libri, invenduti e
snobbati dalla critica letteraria.
Joyce li legge con voracità e già alla successiva
lezione è in grado di recitarne intere parti a memoria davanti allo stupito
autore. Tra i due nasce un nuovo rapporto - e per Joyce si aprono nuove
fonti di credito a fondo perduto.
Lo so, ho raccontato tutto in fretta, restringendo
tempi e modi, ma è una scelta voluta: ho in casa una copia de La vita
di mio marito, firmata Livia Veneziani Svevo e come sempre - non uso a spacciar per mia la farina presa dal sacco altrui - cedo la parola a chi meglio
di me può raccontare il peso che il beone, puttaniere e sifilitico James Joyce (l’inventore
della letteratura “cubista”, primogenitura contestata da Gertrude Stein*) ha
avuto nel far conoscere al mondo l’opera dell’integrato borghese Ettore
Schmitz (Non aveva che genio: nient'altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto scriverà l'acido Bobi Bazlen in una lettera da lui inviata ad Eugenio Montale), proponendo una selezione di pagine mirate.
* Nota: Scrive Richard Ellmann in James Joyce, Feltrinelli 1964, p. 608: In Rue de Fleurus, a pochi
isolati dalla Shakespeare and Company, Gertrude Stein era seccata al veder
minacciata la sua posizione di prima sperimentalista. “Joyce”, ammetteva, “è
bravo. Joyce è un buon scrittore. Piace alla gente perché è incomprensibile e
tutti ci trovano qualcosa da capire. Ma chi è venuto prima? Gertrude Stein o
James Joyce? Non si dimentichi che il mio primo gran libro, Tre vite, fu pubblicato nel 1908. Ulysses era ancora di là da venire. Joyce
ha fatto qualcosa, certo. Tuttavia la sua influenza è locale. Come Synge, altro
scrittore irlandese, ha avuto il suo giorno di gloria”.
[pp. 82-87] Le nostre vite si svolgevano in piena armonia. Ettore sembrava apparentemente pacificato, ma le sue ossessioni continuavano ad assediarlo segretamente. Il 10 gennaio 1906 scriveva su un album, le cui rimanenti pagine sono per la maggior parte vuote:
«Perché diavolo parlo tanto della mia vecchiaia? Non certo per paura
della mia morte che non mi desta né curiosità né paura. Io penso che
effettivamente la mia vita sia stata troppo corta. Fu molto piena di sogni che
io non notai né ritenni. Non rimpiango di non aver goduto abbastanza ma
sinceramente rimpiango di non aver fissato tutto questo periodo di tempo. Del
resto se ci fossero molti altri che sentissero come me! Povera umanità! Quante
autobiografie! Letizia crebbe e io non conservo della sua prima infanzia altro
che delle pallide fotografie.
Tutto a me d’intorno muore giornalmente nell’oblio perché
io sto estatico a vedere, frastornato da un mondo di gente che mi grida nelle
orecchie. Siora Livia aveva vent’anni ed ora ne ha trentuno passati. A me pare
come se essa avesse avuto sempre questa età e se arriverò all’età cadente,
tutti noi saremmo stati sempre vecchi».
Aveva quarantatrè anni e considerava già chiusa la sua vita, mentre tante felici sorprese gli
riserbava ancora il destino.
Lo scrittore pareva
dormire nel profondo, quasi ignorato da noi e apparentemente guardato da lui
stesso con una specie di compatimento: «Io
mi ricordo che pochi anni or sono un uomo d’affari interruppe le trattative
serie per domandarmi: «È vero che voi
siete l’autore di due romanzi?». Arrossii
come sa arrossire un autore in quelle circostanze e, visto che l’affare mi
premeva, dissi: «No! No! No! È un mio
fratello». Ma quel signore, non so
perché, volle conoscer l’autore dei due romanzi e si rivolse a mio fratello, il
quale poi non fu molto lusingato dall’attribuzione che evidentemente scemava la
sua rispettabilità professionale».
Per farlo uscire da
quella specie di dormiveglia occorreva una scintilla e questa si sprigionò nel
casuale incontro con lo scrittore irlandese James Joyce.[1]
Già nel primo viaggio
in Inghilterra Ettore aveva sentito la necessità di perfezionarsi nella lingua
inglese. Conosceva perfettamente il tedesco, abbastanza bene il francese (s’era
impratichito con me già all’epoca del fidanzamento), ma gli erano noti solo gli
elementi dell’inglese. Lo studio della lingua fu la causa della sua fortunata
amicizia con Joyce. Questi era venuto da Dublino a Trieste nell’autunno del
1903, portando con sé la giovane moglie, Nora Barnacle. Era giovane, aveva poco
più di vent’anni, povero, al principio della sua meravigliosa carriera
letteraria. Era giunto a Trieste dopo un’avventura tragicomica: preso il treno
Vienna-Trieste, per errore era sceso a Lubiana alle quattro del mattino.
Quando, l’indomani, chiese a un passante della via S. Nicolo, dov’era il
recapito della Berlitz School triestina, capì di avere sbagliato città. E pieno
di apprensione perché aveva con sé poco denaro, aspettò tutto il giorno e parte
della notte alla stazione di Lubiana il treno per Trieste. Giuntovi, lasciò la
moglie nel piccolo giardino prospiciente la stazione e andò alla ricerca della scuola
per avere un aiuto in denaro. Capitò per sbaglio in una via di città vecchia
dove dei marinai inglesi stavano azzuffandosi con delle donne di malaffare.
Volle fare da interprete e da paciere, ma male gliene incolse: sopraggiunta la
polizia fu arrestato assieme agli altri e trattenuto tutto il giorno in
prigione, mentre la povera moglie lo aspettava seduta su una panchina del
giardino, senza danaro, ignorando la lingua della città straniera.
Quante volte sentii
raccontare con brio indiavolato da Joyce quest’avventura, il cui ricordo lo
divertiva moltissimo!
Dopo aver insegnato
per qualche tempo alla Berlitz School, se n’era staccato e viveva dando lezioni
d’inglese, correndo di casa in casa. Ettore, oltre ad apprendere la lingua,
desiderava trovare un’esperta guida per la migliore conoscenza della moderna
letteratura anglosassone. Si rivolse a Joyce, che in quell’epoca era l’insegnante
di moda presso la ricca borghesia triestina e così s’incontrarono.
Fra il maestro,
oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno (conosceva diciotto lingue tra
antiche e moderne), e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un
andamento fuori del comune. Non si faceva cenno della grammatica, si parlava di
letteratura e si sfioravano cento argomenti. Io pure vi partecipavo. Joyce era
divertentissimo nelle sue espressioni e parlava il dialetto triestino, come
noi, anzi un triestino popolare appreso nelle oscure vie di città vecchia dove
amava sostare. Anche in Svizzera e a Parigi il dialetto triestino rimase il
mezzo espressivo abituale della famiglia e dei figli, nati a Trieste: Giorgio
dalla bella voce ereditata dal padre, e Lucia diventata danzatrice e abile
disegnatrice. Ricordo ancora le sue magnifiche illustrazioni per un poema di
Chaucer dedicato alla Vergine Maria.
Nonostante la
differenza di età e di nazionalità, l’amicizia fra loro sorse immediata. L’irlandese,
che non aveva mai parlato ad alcuno dei suoi lavori letterari, portò ben presto
i suoi manoscritti a Villa Veneziani. Erano le poesie di «Chamber Music» e
alcuni capitoli dei «Dubliners». Ricordo di essere scesa in giardino dopo la
lettura del racconto «I morti», ultimo capitolo dei «Dubliners», a cogliere dei
fiori e di averne fatto omaggio allo scrittore. Mio marito gli presentò a sua
volta i due volumi dimenticati, prima «Una vita», per il quale aveva una
particolare tenerezza, e poi «Senilità», come per dirgli: «Anch’io fui uno
scrittore». Joyce li lesse subito e durante la lezione successiva dichiarò che
secondo la sua opinione Svevo era stato ingiustamente negletto. Aggiunse con
calore che certe pagine di «Senilità» non avrebbero potuto scriverle meglio i
più grandi maestri del romanzo francese. A quelle parole inaspettate un balsamo
scendeva sul cuore di Ettore. Egli lo guardava con grandi occhi incantati,
beato e stupito. Mai avrebbe pensato di sentire tali lodi dei suoi romanzi
dimenticati. Quel giorno non poté staccarsi da Joyce, lo accompagnò fino alla
sua abitazione, in piazza Vico, narrandogli lungo il percorso le sue delusioni
letterarie.
Era la prima volta
che apriva il cuore a qualcuno per mostrarne la profonda amarezza. Joyce parlò
diffusamente della scoperta nella sua cerchia di conoscenti ed agli
intellettuali che andavano per la maggiore. Recitava persine a memoria le
ultime pagine di «Senilità», si scagliava contro la cecità della critica,
affermando che Svevo era un romanziere molto originale, l’unico moderno
scrittore italiano che riuscisse a interessarlo. Ma anche di fronte a simili
elogi l’ambiente triestino rimaneva sordo e incredulo.
L’irlandese trovava
in Ettore una mentalità affine alla sua, un metodo analitico congeniale. Louis
Gillet arrivò a dire, nel 1937, in una conferenza tenuta a Parigi, che Joyce
aveva subito l’influenza di due soli scrittori italiani: Giambattista Vico e
Italo Svevo.
Da allora, durante le
lezioni parlarono continuamente di progetti e di problemi letterari. Mio marito
confidò all’amico il suo proposito di svolgere un racconto intorno a un vecchio
e a una fanciulla - realizzato più tardi col titolo «La Novella del Buon
Vecchio e della Bella Fanciulla» - e Joyce discusse con lui in ogni particolare
la concezione di Bloom sviluppata poi nell’«Ulisse».[2]
Sul carattere
dubbioso di Ettore, il temperamento battagliero o tenace, la profonda sicurezza
dell’irlandese (egli aveva risposto in giovinezza a un vecchio poeta: «È vero,
io non subii l’influenza vostra, ma è deplorevole che voi non possiate subire
la mia perché siete troppo vecchio») ebbero un benefico influsso. Lo si sente
anche dal ritratto che Ettore ne fece molti anni dopo alla conferenza tenuta al
«Convegno» di Milano l’8 marzo 1927:[3] «Il Joyce è ora più che quarantenne, ma è
rimasto quale arrivò a Trieste. Sottile, alto, snello, potrebbe sembrare uno sportman
se non si movesse con l’abbandono di persona cui le proprie membra non
importino affatto. Quelle membra sono state trascuratissime e non hanno
conosciuto giammai lo sport e la ginnastica. Da vicino non apparisce dunque il
combattente strenuo che l’opera sua coraggiosa farebbe pensare. Molto miope,
porta degli occhiali forti che gl’ingrandiscono l’occhio, e tale occhio
azzurro, di grande importanza anche senza gli occhiali, guarda con un’eterna
curiosità e con una freddezza altrettanto grande. Io non so fare a meno di
figurarmi che quell’occhio non sarebbe meno curioso e freddo posandosi su un
avversario col quale il Joyce dovesse misurarsi».
L’ammirazione e il
consenso di Joyce furono un balsamo miracoloso per la profonda ferita all’amor
proprio, sempre viva e bruciante. Appena allora cessò di riguardare i suoi
romanzi come degli errori giovanili. Prono sotto il verdetto negativo, il suo
talento era rimasto sepolto nella «tristezza del silenzio», come soleva dire.
Ed ecco che l’amico
risvegliava in lui, e questa volta per sempre, lo scrittore.
La guerra mondiale
doveva staccarli. Joyce si rifugiò a Zurigo, trasferendosi poi a Parigi. Non
tornò più a Trieste, ma doveva ricomparire nella vita di Svevo e assumervi un
ruolo importantissimo.
* * * * *
[pp. 101-109] Ma ecco nel 1925 inatteso, improvviso, un
sole di gloria sorgere e illuminare la sua vita. Aveva ormai sessantatré anni.
Ricordo quel giorno di gennaio. Eravamo seduti intorno alla grande tavola che
riuniva per la colazione assieme a noi anche la famiglia di Letizia con i tre
bambini. Egli aprì distrattamente una lettera giunta da Parigi. Cominciò a
leggerla ad alta voce e già all’intestazione restò senza fiato. Cominciava
così: «Egregio signore e Maestro». Era la lettera di lode e di compiacimento di
Valery Larbaud.
Non ricordo d’averlo
visto mai tanto raggiante. Doveva questa grande soddisfazione a James Joyce. Lo
scrittore irlandese era riapparso come un astro benefico nella sua vita. Dopo
la tormenta della guerra si erano incontrati nel 1919 a Parigi e ogni volta che
Ettore vi era di passaggio capitava allo Square Robiac dove veniva sempre
accolto come un vecchio amico. Joyce aveva sempre una viva nostalgia di Trieste
e volentieri sarebbe tornato a viverci. Nel 1921 Ettore gli portò gli appunti
dell’ultimo episodio di «Ulisse», che l’autore aveva lasciato in custodia a
Trieste. Consistevano in un mucchio disordinato di carte che riempiva un’intera
valigia. Ecco la curiosa e originale lettera con la quale Joyce aveva richiesto
a Ettore lo speciale favore:
Boulevard Raspail 5 -
Parigi VII
Caro signor Schmitz,
l’episodio di Circe fu finito tempo fa ma quattro dattilografe rifiutarono di
copiarlo. Finalmente si presentò una quinta la quale, però, lavora molto
lentamente, sicché il lavoro non sarà pronto prima della fine di questo mese.
Mi si dice conterrà cento settanta pagine forma commerciale. L’episodio di Enneo [sic!] il quale è quasi finito, sarà pronto anche verso la fine del mese. Secondo un
piano stabilito dal mio avvocato a New York «Ulisse» uscirà colà verso il 15
giugno p. v. in un’edizione privata e limitata a 1500 esemplari dei quali 750
per l’Europa. Il prezzo sarà di sterline 12,50 risp. 6 sterline l’esemplare.
Percepisco 1000 sterline come tacitazione. Contemporaneamente però si preparano
articoli ed articoletti per sfondare la cittadella non so con quale risultato e
poco m’importa.
Ora l’importante: non
posso muovermi da qui (come credevo di poter fare) prima di maggio. Infatti da
mesi e mesi non vado a letto prima delle due o le tre del mattino, lavorando
senza tregua. Avrò presto esaurito gli appunti che portai qui con me per
scriver questi due episodi. C’è a Trieste, nel quartiere di mio cognato, l’immobile
segnato col numero politico e tavolare di via Sanità 2, e precisamente situato
al terzo piano del suddetto immobile nella camera da letto attualmente occupata
da mio fratello, a ridosso dell’immobile in parola e prospettante i postriboli
di pubblica insicurezza, una mappa di tela cerata legata con un nastro elastico
di colore addome di suora di carità, avente le dimensioni approssimative d’un
95 cm. per cm. 70. In codesta mappa riposi i segni simbolici dei languidi lampi
che talvolta balenarono nell’alma mia.
Il peso lordo senza tara
è stimato a kg. 4,78. Avendo bisogno urgente di questi appunti per l’ultima
azione del mio lavoro letterario intitolato «Ulisse» ossia «Sua mare grega»,[4]
rivolgo codesta istanza a lei, colendissimo collega, pregandola di farmi sapere
se qualcuno della sua famiglia si propone di recarsi prossimamente a Parigi,
nel quale caso sarei gratissimo se la persona di cui sopra volesse avere la
squisitezza di portarmi la mappa indicata a tergo.
Dunque, caro signor
Schmitz, se ghe xe qualchedun de sua famiglia che viaggia per ste parti la mi
faria un regalo portando quel fagotto che non xe pesante gnanca per sogno parchè,
la mi capissi, xe pien de carte che mi go scritto pulito cola pena e qualche
volta anca col bleistiff quando no iera pena. Ma ocjo a no sbregar el lastico,
parche allora nasserà confusion fra le carte. El meio saria de cior na valigia
che se poi serar cola ciave che nissun poi verzer. Ne ghe xe tante di ste
trappole da vender da Greinitz Neffen rente del Piccolo che paga mio fradel el
professor della Berlitz Cul. Ogni modo la mi scriva un per de parole dai, come
la magnemo. Revoltella me ga scrito disendo che xe muli de saminar per zinque fliche
ognidun e dopo i xe dolori de revoltella e che mi vegno là per dar lori l’aufgabe
par inglese a zinque fliche, ma non go risposto parche iera una monada e po la
marca mi vegnaria costar cola carta tre fliche come che xe ogi coi bori e mi
avanzaria do fliche per cior el treno e magnar e bever tre giorni, cossa la voi
che sia.[5]
Saluti cordiali e
scusi se il mio cervelletto esaurito si diverte un pochino ogni tanto. Mi
scriva presto, prego.
James Joyce»
Da questa lettera si
può desumere la cordialità che esisteva fra i due scrittori, da cui derivava l’intima
comprensione nel momento dello sconforto. Spinto dall’idea amara dell’ostilità
ch’egli credeva sorta intorno a «Zeno» e da un sentimento di ribellione, Ettore
s’era appellato all’amico già glorioso, lamentandosi dell’insuccesso e
inviandogli il volume. Non nutriva troppa fiducia d’essere ascoltato. Il suo
temperamento pessimistico gli inibiva la speranza. In quegli anni, poi, dopo il
primo cordiale incontro, le relazioni fra i due s’erano limitate a brevi visite
durante i nostri passaggi per Parigi e allo scambio di affettuosi biglietti di
augurio a Capodanno, ma Joyce nella sua trionfale ascesa aveva accolto il grido
amaro del confratello e così aveva risposto:
Caro amico, sono
andato alla stazione ma nessun treno era in arrivo (nemmeno ritardato) all’ora
indicatami; ne ero dispiacente. Quando ripasserà per Parigi? Non potrebbe
pernottare qui?
Grazie del romanzo
con la dedica. Ne ho due esemplari avendone già ordinato uno da Trieste. Sto
leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere che è di gran
lunga il suo migliore libro. Quanto alla critica italiana non so. Ma faccia
mandare degli esemplari di stampa a
M. Valery Larbaud, M. Benjamin Crémieux, Mr. T. S. Eliot, Mr. F. M.
Ford.
Parlerò e scriverò in
proposito con questi letterati. Potrò scrivere di più quando avrò finito. Per
ora due cose m’interessano. Il tema: non avrei mai pensato che il fumo potesse
dominare una persona in quel modo; secondo il trattamento del tempo nel
romanzo. L’arguzia non vi manca e vedo che l’ultimo capoverso di «Senilità»;
«Sì, Angiolina pensa e piange, ecc...» ha sbocciato grandemente alla
chetichella.
Tanti saluti alla
Signora, se si trova costì. Spero avremo il piacere di vedere loro fra breve.
Una stretta di mano
James Joyce
P.S. Mandi anche a Gil
Berseldy, The Dial, Nuova York».
Seguendo il
consiglio, Ettore s’era affrettato a spedire il volume a Larbaud e a Crémieux.
L’esito ne era stato la lettera di plauso inaspettata:
Egregio Signore e
Maestro,
Dacché ho ricevuto e
letto la Coscienza di Zeno ho fatto tutto quello che ho potuto per far
conoscere in Francia questo libro ammirevole. Propaganda solamente orale, ma
efficace, come Lei vedrà.
Nell’estate scorsa si
fondò la rivista «Commerce», trimestrale, diretta dal più grande dei nostri
poeti, Paul Valéry, da Leon Paul Fargues, conosciuto dalla élite come uno dei
migliori scrittori di vanguardia, e da me; e subito questa rivista si pose al
primo rango delle riviste francesi di letteratura pura. L’idea di questa
pubblicazione venne dalla principessa di Bassiano, moglie del principe Roffredo
Caetani, di Roma, la quale ci fornisce i fondi e ci dà anche consigli efficaci.
Prima della
fondazione della rivista avevo fatto leggere alla principessa La coscienza di
Zeno, e adesso che siamo in preparazione dei numeri IV e V, lei desidera che
pubblichiamo alcuni brani: da 10 a 15 pagine del Suo libro. La questione della
traduzione non ha difficoltà: fra i nostri migliori scrittori di vanguardia
contiamo tre o quattro ottimi traduttori d’italiano, disposti a tradurre le
pagine che sceglieremo. L’unica cosa che ci manca, dunque, è l’autorizzazione
di Lei e dell’editore Cappelli.
Per parte mia vorrei
dare in «Commerce» un breve studio sopra la di Lei opera, studio che darei, più
tardi, e più completo, nella «Nouvelle Revue Française» o nella «Revue
Européenne». Ma non conosco i Suoi altri libri, che ho cercati l’estate scorsa in
Bologna e in Firenze senza incontrarli, e Le sarei gratissimo se Lei avesse la
bontà d’inviarmeli.
Il nostro amico James
Joyce, come Lei avrà saputo, ha dovuto subire un’altra operazione agli occhi, e
adesso sta bene e lavora.
La prego scusare
tante domande e credermi, egregio Signore e Maestro,
il Suo devoto
ammiratore,
Valery Larbaud». Trepidante, gli spedì subito «Senilità» e «Una vita». Dopo aver letto le due opere lo scrittore francese gli scriveva:
«20 febbraio 1925
Egregio Signore e
Maestro,
Scrivo sotto la
dettatura del Signor Valerio Larbaud. Ricevo la Sua lettera del 16. Mi scusi se
non ho risposto subito alla Sua prima. Sono stato occupatissimo. La ringrazio
por i due libri.
Per quel che Le avevo
scritto stiamo organizzando la campagna in Suo favore. Forse cominceremo con un
articolo, di uno di noi, sopra un giornale italiano questa estate.
Poi per il quinto
numero di «Commerce» che uscirà nel mese di ottobre prossimo prepareremo una
selezione di pagine tradotte in francese. Di «Senilità» prenderemo le pagine
162-172 che ho lette a parecchi amici e che furono ricevute con applausi e
qualcheduno pronunciò il nome di Marcel Proust.
Della «Coscienza di
Zeno» prenderemo le pagine 16-36 e 477-496. Di «Una vita» che un mio amico sta
leggendo adesso, non so ancora se daremo un campione. Forse faremo dei
cambiamenti in questa scelta, e forse anche daremo titoli (ma fra parentesi)
alle pagine scelte. Il titolo «Senilità» ci sembra poco adatto al romanzo, e se
si dovesse tradurre al francese per intero, credo che sarebbe meglio prendere
come titolo «Emilio Brentani». Siamo impazienti di cominciare la campagna, ma
abbiamo tanto da fare ognuno che le cose non possono andare con la rapidità che
vorremmo, pure già c’è un rumore del nome di Lei fra i migliori scrittori
giovani di qui. Il resto verrà a poco a poco.
Mi creda, egregio
Signore e Maestro, Suo devotissimo ammiratore
Valery Larbaud»
[…] Intanto nella
primavera del 1925, approfittando di uno dei nostri soliti viaggi d’affari a
Londra, facemmo una sosta a Parigi per conoscere di persona i due illustri
letterati francesi che s’erano così vivamente interessati al caso Svevo. Joyce
combinò una cena in un ristorante vicino alla Gare Montparnasse. Era presente
anche un giovane scrittore francese, Nino Frank. Mio marito, in genere molto
socievole e con tutti di un’affabile dolcezza, s’intonò subito perfettamente ai
nuovi amici, i quali gli dimostrarono un’ammirazione che ci stupiva. Preso come
da una leggera ebbrezza, quella sera parlò moltissimo. Egli amava farsi
ascoltare, tanto più se gli interlocutori erano suoi pari.
La sera seguente
fummo invitati in uno dei salotti letterari più aristocratici, quello della
principessa Bassiano Caetani, la sostenitrice di «Commerce», nella sua villa di
Versailles, la «Villa Romana». Erano pure intervenuti Larbaud e Crémieux. Nella
lunga e brillante conversazione mio marito accennò ad una novella a cui stava
lavorando. Doveva trattarsi di quella poi intitolata «Corto viaggio
sentimentale». Durante quello straordinario e felice soggiorno conoscemmo anche
la moglie di Crémieux. Era una donna di squisita e profonda intelligenza. Còrsa
d’origine aveva studiato a Firenze e parlava l’italiano con accento ed
espressione perfetti. Ci si vedeva ogni giorno o nel suo salotto o a colazione
qua e là. Si stabilì fra lei ed Ettore una viva corrente di simpatia che si
tramutò ben presto in amicizia, e si allacciò fra loro una corrispondenza che
fu troncata solo dalla scomparsa di lui. A lei egli confidava anche i
sentimenti che amava celare agli altri e, dubitoso sempre, attingeva a quell’amabile
fonte conforto e forza.
* * * * *
[pp. 121-122] Ma ecco apparire la traduzione francese
di Zeno fatta da Paul Henri Michel a
compensarlo delle nuove delusioni. Era stato Crémieux a proporre a mio marito
questo giovane letterato, che si dedicava con tanta passione alla traduzione di
opere italiane. […] Il libro apparve in Francia pubblicato dalla Librairie Gallimard. Per la traduzione
tedesca Joyce aveva consigliato a mio marito di rivolgersi al Rheinverlag che
stampava tutte le sue opere. Il traduttore fu un giovane fiumano, Piero
Rismondo, occupato a Vienna nella redazione della «Wiener Allgemeine Zeitung». Egli si era presentato in casa nostra
come ammiratore e come traduttore. Dall’editore tedesco venne a Ettore il primo
compenso tangibile per la sua fatica letteraria. Egli che amava tanto far doni
si affrettò ad offrirmi l’assegno in marchi accompagnandolo con un affettuoso
biglietto.
* * * * *
[pp. 125-127] Anche il sentirsi chiamare il «Proust italiano» lo stupiva. Egli non
aveva conosciuto le opere di questo scrittore che nel 1926. Era stata la
signora Crémieux a chiedergli alla nostra prima visita a Parigi:
«Connaissez-vous Proust? No? Eppure voi gli somigliate». Subito s’era informato
sui libri dello scrittore francese, li aveva acquistati tutti in blocco e s’era
accinto a leggerli con grande interesse. Lasciò un giudizio su Proust in un inedito:
un abbozzo di parallelo fra questi e Joyce:
« ...Io non sono un critico e rivedendo questi
appunti dubito di aver saputo darvi una chiara idea di questo romanzo. E ancora
un tentativo faccio per chiarirlo. Mi pare importante stabilire la sua nessuna
analogia con l’opera del Proust. Da noi si sente sempre citare il Joyce accanto
al Proust. Vorrei separarli definitivamente. È un compito abbastanza facile.
Nella vita s’incontrarono una sola volta. Una notte il Proust, già tanto
sofferente, si risolse ad uscire da quella sua casa dalle finestre ingessate
dei Champs-Elysées, probabilmente costrettovi dal bisogno di una inchiesta per
poter finire qualche sua frase o qualche suo inciso su qualche avvenimento
reale. Fece la conoscenza del Joyce e, distratto dal proprio bisogno, subito
gli domandò: «Conosce lei la principessa X?». «No», rispose il Joyce, «né me ne
importa affatto». Si separarono e non si rividero mai più.
Io penso che se i due grandi scrittori s’imbattessero
ciascuno sul loro terreno, su quello della loro arte, ed uno di essi andasse
gridando per farsi sentire, essendo tanto lontano l’uno dall’altro: «Fratello,
conosci questo?». L’altro risponderebbe: «No; e non me ne importa niente
affatto».
Il Proust è l’artista della grande prosa narrativa. La
sua frase crea a forza di completezza; si evolve nei suoi incisi di cui ognuno
è un scoperta, una sorpresa. Non gli basta mai e narra, narra spinto dal
bisogno nostalgico dì ricercare il tempo che non è più. Sulla sua tela s’aggiunge
tratto a tratto, colore a colore per aderire alla realtà. L’intonazione
perfetta del quadro risulta dalla perfetta visione della realtà. Pare che il
suo racconto manchi di piano. Che bisogno ce ne sarebbe visto che i fatti
avvenuti non possono mancare di ordine?
E quella sua realtà quando diviene satira si fa tale
quasi senza suo intervento. La realtà può talvolta farsi sentire con la sola
precisione.
Ma il Joyce è tutto l’opposto. Egli è l’artista che ha
preparato tutto il piano d’avventura da cui sorsero i personaggi. Trasse dalla
realtà quelli che prediligeva e ne fece una cosa tanto intera da sostituire
tutta la realtà. Non mi figuro neppure che sappia lavorare su una tela. Deve
aver plasmato le sue figure prima di dipingerle e riempie il suo laboratorio di
creature dalle tre dimensioni tanto vive che si crede si muovano e parlino
senza l’aiuto di nessuno. L’autore rigido fa dimenticare ch’egli potrebbe
soccorrerle. Lo si vede immoto perché cela la propria fatica.
Nel Proust la realtà si fa una scienza. Ognuno dei suoi
personaggi è studiato nelle sue origini e nei suoi organi.
Non vi è traccia di tale studio nel Joyce. Altri (il
lettore) può farlo, visto che la creatura intera gli è stata consegnata. Qui ho
tentato di sezionarlo io e Dio solo sa quello che ne ho fatto. Ma non è da tale
analisi (dunque neppure dalla mia) che ne derivi la gioia che da l’opera di
Joyce. Quella nebbia che è soffusa sul libro suo diventa così tanti suoi scopi
non detti, e dallo stesso suo destino intellettuale insolito lentamente si
dirada e il lettore scopre di aver collaborato con l’aiuto di una guida
incomparabile alla creazione di un mondo intero conosciuto benché misterioso
come quello da cui fu copiato. Da ciò il grido di sorpresa e di ammirazione di
tanti eccelsi critici. Io intendo benissimo quello che vuoi dire il grande
poeta e critico T. E. Eliot quando dichiara che chi imiterà...».
* * * * *
[pp. 129-130] Dopo la comparsa della traduzione
francese, qualche cosa si mosse anche in Italia. La critica italiana aveva
polemizzato con quella francese, quasi rammaricandosi dell’aureola di gloria
donata da questa a uno scrittore italiano. Allora l’editore Morreale fece delle
proposte concrete e nel 1927 comparve la seconda edizione di «Senilità» che
Ettore aveva completamente riveduto dal lato linguistico. Nella prefazione egli
testimoniava pubblicamente la sua gratitudine a James Joyce che aveva saputo «rinnovare il miracolo di Lazzaro: …che uno
scrittore sul quale incombe imperiosa l’opera propria abbia saputo più volte
sprecare il suo tempo prezioso per favorire dei fratelli meno fortunati, è tale
generosità che, secondo me, spiega l’inaudito successo ch’egli ebbe, poiché
ogni altra sua parola, tutte quelle che compongono la sua vasta opera, furono
espresse dallo stesso grandissimo animo». Ma a Joyce volle fare un dono,
una cosa molto preziosa per lui e molto cara al suo cuore: il ritratto che il
Veruda mi aveva fatto in età giovanile.
* * * * *
[pp. 141-142] Il «Convegno» gli aprì subito le porte.
Nei nostri frequenti viaggi a Milano (viaggiavamo ora sempre insieme)
frequentammo quelle belle sale, come pure il salotto ospitale della signora
Ferrieri. Lì egli conobbe tutta l’élite
intellettuale milanese. Al «Convegno» tenne la sua prima ed ultima conferenza.
La sera del 26 marzo 1927 parlò su Joyce e si soffermò specialmente sull’«Ulisse».
Sebbene non abituato al pubblico, quella sera era molto tranquillo. Lesse le
numerose cartelle pacatamente con la sua voce limpida e calma, che anche nell’uso
della lingua italiana conservava l’accento triestino. Ma un superbo
festeggiamento pubblico lo ebbe a Parigi durante una riunione del Pen Club,
alla quale parteciparono cinquantaquattro letterati. Benjamin Crémieux era l’organizzatore
di tali cene letterarie in onore degli eminenti scrittori europei di passaggio
per Parigi. Si dette una cena in onore di Italo Svevo per festeggiare l’uscita
in veste francese della «Coscienza di Zeno». Assieme a lui si festeggiavano il
russo Isaak Babel, l’autore de «L’Armata a cavallo», e il poeta rumeno Pilliat.
La tavola bianca a
ferro di cavallo correva lungo le pareti. Ettore era seduto al centro accanto a
Crémieux e a Jules Romains. Quest’ultimo presentò i festeggiati e ne fece l’elogio.
Io ero seduta accanto
a Joyce che dopo la cena confidò a Comisso, l’unico scrittore italiano presente
al banchetto: «Dicono che io abbia immortalato Svevo, ma io ho immortalato
anche le chiome della signora Svevo. Erano chiome lunghe e bionde. Mia sorella
che le vedeva sciolte me ne parlava. Vicino a Dublino vi è un fiume che
attraversa la tintoria e le sue acque sono rossastre come quel tavolo; allora
mi è piaciuto di parlare di queste due cose che si somigliano nel libro che sto
scrivendo. Una signora avrà queste chiome, che sono le chiome della signora
Svevo». Alludeva al volumetto «Anna Livia Plurabella» per cui aveva preso pure
il mio nome scrivendo poi scherzosamente a mio marito: «A proposito di nomi ho
dato il nome della Signora alla protagonista del libro che sto scrivendo. La
prego però di non impugnare né armi bianche né quelle da fuoco giacché si
tratta della Pirra irlandese (o piuttosto dublinese) la cui capigliatura è il
fiume sul quale (si chiama Anna Liffey) sorge la settima città del
cristianesimo. Rassicuri la sua signora in quanto riguarda la figura di Anna
Livia. Di lei non tolsi che la capigliatura e quella soltanto a prestito per
addobbare il rigagnolino della mia città, l’Anna Liffey, che sarebbe il più
lungo fiume del mondo se non ci fosse il canale che vien da lontano per sposare
il gran divo Antonio Taumaturgo e poi, cambiato parere, se ne torna com’è
venuto».
Accanto a Joyce era
seduta la moglie, felice di parlare di nuovo con me il dialetto triestino, e
poi Ivan Goll, Paulhan, Mac Orlan, Ilja Ehrenburg, Martin Maurice e tanti
altri. Ettore si dolse di non poter contraccambiare le cortesie di Romains
parlandogli dei suoi libri che non conosceva ancora. Si affrettò a comperarli
il giorno seguente e li lesse subito al suo ritorno a Trieste.
* * * * *
Profilo
autobiografico
(1928)
[pp. 224-225] … Ma Zeno si crede un malato eccezionale
di una malattia a percorso lungo. E il romanzo è la storia della sua vita e
delle sue cure.
Questo romanzo fu
pubblicato nel 1922, (se ne sta preparando la ristampa). Meno che a Trieste
trovò una incomprensione assoluta ed un silenzio glaciale. A Trieste si
occuparono di esso il Benco e il D’Orazio. Il prof. Ferdinando Pasini, in un
giornale di Trento, gli dedicò subito tanta ammirazione come il romanzo non ne
trovò che dopo il successo. Questo dev’essere qui detto ad onore del Pasini e
della critica italiana in genere.
Lo Svevo diceva che
ad onta della sua lunga esperienza tale insuccesso lo stupì e lo addolorò tanto
profondamente da danneggiare la sua salute. Aveva 62 anni e scopriva che se la
letteratura era nociva sempre, a quell’età era addirittura pericolosa. Scrisse
ad Ettore Janni del Corriere della Sera
pregandolo di leggere il libro che, seppure difettoso, doveva contenere qualche
cosa che ad un critico come lui poteva rivelarsi importante. Il Janni non
risposte. Nel 1924 un comune amico raccomandò lo Svevo a Giulio Caprin da cui
gentilmente fu ricevuto a Milano. Il Caprin però allora dichiarò al vecchio
signore che il Corriere della Sera
non disponeva di abbastanza spazio per occuparsi del suo libro. Tuttavia più
tardi il Caprin gli dedicò due righe fra i «Libri ricevuti» per notare che il
romanzo era abbastanza interessante, ma scucito. Non era più il silenzio, ma la
vera ostilità. Fu un atto di ribellione dello Svevo quello di appellarsi al
Joyce. Con poca speranza. Nei lunghi anni i due vecchi amici avevano conservato
una reciproca benevolenza che però non si manifestava che nello scambio di
biglietti d’augurio a capo d’anno. Lo Svevo seguiva con simpatia l’inaudito
successo del Joyce, ma chissà se l’artista tanto differente da lui avrebbe
trovato nel proprio cuore un po’ di simpatia per il confratello meno
fortunato?...
Il resto del caso Svevo è stato raccontato ad
esuberanza nella prefazione alla seconda e recente edizione di Senilità.
[1] James Joyce (1882-1941). Era
giovanissimo quando incontrò Italo Svevo già maturo. Visse a Trieste dal 1904
al 1914. Tutta la sua opera, eccetto le liriche e «Work
in Progress», è nata in questa città. Vi abbozzò anche la trama e scrisse i
primi capitoli dell’Ulisse. Sui
rapporti intercorsi fra J. Joyce e I. Svevo, uno dei saggi più recenti è quello
di Richard Ellmann sulla Kenyon Review (Summer
1954): «The backgrounds of Ulysses» in cui protagonista è Leopold Bloom è fatto
risalire al modello reale di Italo Svevo.
[2] Stanislaus Joyce, fratello dello
scrittore, in una sua conferenza all’Università di Trieste nel maggio 1955,
affermò che Svevo aveva avuto qualche parte nella formazione dell’Ulisse: raccontò come il fratello James,
per descrivere Bloom, interrogasse quotidianamente Svevo per essere in chiaro
sui più minuti particolari caratteristici della razza ebraica, tanto che anni dopo,
con Stanislaus, Svevo sbottò: «Mi dica qualcosa dell’Irlanda, qualcosa di
intimo, qualcosa che non è conosciuta generalmente. Sa, suo fratello, mi ha
fatto tante domande sugli Ebrei che desidero essere alla pari con lui».
[3] James Joyce in «Saggi
e pagine sparse» op. cit. nota 22. Tradotta da Stanislaus Joyce, la conferenza
di Italo Svevo apparve in inglese nel 1950, stampata dalle Officine Grafiche Esperia, Milano, e distribuita dalla New Direction, New York. «Un solo
giornale di Milano parlò di tale lettura: Il
Secolo», annota lo Svevo nel «Profilo autobiografico». Per l’esattezza ne
aveva parlato anche L’Ambrosiano.
[4] Su’ mare grega; mare
madre; imprecazione dialettale triestina, gergo plebeo.
[5] Versione letterale del brano
dialettale della lettera di Joyce: «Dunque, caro signor Schmitz, se c’è
qualcuno della sua famiglia che viaggia da queste parti mi farebbe un regalo
portando quel fagotto che non è pesante neanche per sogno perché, mi capisce, è
pieno di carte che io ho scritto pulito con la penna e qualchevolta anche con
la matita quando non c’era la penna. Ma occhio a non strappare l’elastico,
perché allora nascerà confusione fra le carte. Il meglio sarebbe di prendere
una valigia che si possa chiudere con la chiave che nessuno possa aprire. Ce ne
sono tante di queste trappole da vendere dai Nipoti Greinitz accanto al Piccolo
che pagherà mio fratello il professore della Berlitz School. In ogni modo mi
scriva un paio di parole dàgli, come la mangiamo! Revoltella (l’Istituto
commerciale) mi ha scritto dicendo che ci sono ragazzi da esaminare per cinque
soldi ognuno e dopo sono dottori di revoltella e che io venga là per dar loro
il compito di inglese a cinque soldi, ma non ho risposto perché era una
scempiaggine e poi il francobollo mi verrebbe a costare con la carta tre soldi
come è oggi col denaro e mi avanzerebbero due soldi per prendere il treno e
mangiare e bere per tre giorni, cosa vuole che sia».
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