martedì 15 dicembre 2020

Elio Vittorini, Ginetta Varisco, Edgar Morin ...e Giordano Bruno


In un mio precedente post - Elio Vittorini, Ginetta Varisco e Gregor von Rezzori - mi crucciavo di non essere riuscito a ritrovare le pagine in cui erano citati i nomi di Elio Vittorini e Ginetta Varisco. Questo accadeva nel gennaio 2017.
Ora, quasi 4 anni dopo, Raffaello Cortina pubblica I ricordi mi vengono incontro di Edgar Morin. En passant, sfogliando l’indice dei nomi, a pagina 707 che ti ritrovo? Vittorini, Elio seguito da Vittorini, Ginetta. Sorvolo sul refuso (Ginetta non era la moglie di Vittorini) e vado subito alle pagine indicate, dove leggo le stesse parole che tanto inutilmente avevo cercato quattro anni fa, consultando pure un altro libro di Morin: La mia Parigi, i miei ricordi.
Misteri dell’ungia incarnida avrebbero detto i miei vecchi (ma anche: al me par un prublema del gatt...).
Completo il discorso iniziato nel 2007 mettendo in rete i brani ritrovati.



pp. 353-357

Da Parigi mi era arrivata una lettera dal partito di Action, molto attivo e indipendente durante la Resistenza ma che resistette solo poco tempo dopo la Liberazione, sommerso dal partito comunista e dal partito socialista. Avevano letto, non so come, il mio articolo “Notre collaboration” che avevo pubblicato in Germania quando ero capo della propaganda del governo militare francese, e lo avevano pubblicato loro nel giornale Non mollare. Fraternizzo con loro a Firenze.
A Roma, trovo un piccolo hotel, un po’ squallido ma piacevole, vicino a Campo dei fiori, l’Albergo del Sole, e di nuovo mi incantano la città, le sue strade, le piazze del centro storico, il Vaticano, la cappella Sistina, mi innamoro perdutamente di Campo dei fiori con il suo mercato popolare, le sue trattorie e la nobile statua di Giordano Bruno.






















I nostri soggiorni sono intensi e precipitosi: una settimana a Firenze, una a Roma, una a Venezia. Ci alziamo presto per visitare, camminare, ammirare, e andiamo a letto tardi per godere al massimo del nostro soggiorno, non siamo mai sazi di contemplare, di estasiarci di questo paese che ci sembra magico in ogni suo aspetto.
Non parlo della settimana a Venezia, cosa potrei dirne che il già stato detto e ridetto e che, malgrado banalizzazioni e ripetizioni resta vero?
Avevamo scelto per la fine della vacanza il piccolo porto di Torri del Benaco, sul lago di Garda. Era stata Clara Malraux a indicarci posto di villeggiatura poco conosciuto dove aveva soggiornato André Gide. C’era solo un piccolo albergo a Torri, ed ero stato molto commosso dal dolce viso di un innocente ancora molto giovane: si era creato tra noi un legame affettuoso benché non ci fossimo scambiati sola parola. Ricordo una gita in barca con Violette sul lago tranquillo. All’improvviso, ci si abbatté addosso un’esplosione brutale di tempesta, e onde sempre più alte agitarono l’acqua. Remai con tutta la mia energia verso la riva urlando: “Si alza il vento, bisogna tentare di sopravvivere”.
Nel pullman che ci portava a Torri, facemmo conoscenza con un’amabile giovane donna, Michèle Gordon, di cui più tardi venimmo a sapere che era figlia di Hélène Gordon Lazareff. Si recava nel paese vicino di Malcesine e ci rivedemmo spesso, soprattutto in occasione dell’elezione di Miss Malcesine, organizzata da una marca di dentifricio in cui, non so come, mi ritrovai membro della giuria.
A Parigi, alla fine del 1947, credo, Marguerite Duras e Dionys Mascolo, e Elio e Ginetta Vittorini si conobbero e diventarono amici intimi, fu un vero colpo di fulmine, analogo a quello che aveva legato me a Dionys e Marguerite. Vittorini era uno scrittore comunista, direttore della rivista Il Politecnico, in cui non c’era posto per il dogmatismo, il fanatismo e l’oscurantismo che aveva provocato a quell’epoca l’importazione dello zdanovismo in Francia. Per sottolineare la nostra opposizione a questa linea culturale che il partito cominciava a imporre, Dionys e io facemmo un’intervista con Elio per Les Lettres françaises, in cui il nostro amico proclamava con fermezza che il fronte della cultura andava distinto dal fronte della politica e che, per lui, comunismo significava protestantesimo e non cattolicesimo. Riferisco l’episodio in questa sede per dire che, perfino dopo la mia scomunica da parte del partito comunista francese, potevo intrattenere relazioni molto amichevoli con comunisti italiani, dirigenti o militanti, e che ho sempre, fino a poco tempo fa, amato andare alle feste dell’Unità per cantare e ballare con i compagni.
Durante l’estate 1947 o 1948 Dionys, Robert e Marguerite avevano raggiunto per le vacanze Elio e Ginetta a Bocca di Magra, piccola stazione balneare ligure, vicino a La Spezia, alla foce del fiume Magra vicino a Lerici. Arriviamo alla nostra residenza a bordo della 4cv e alcune persone ci dicono che sono in spiaggia. Ci andiamo, indossando il costume da bagno e io nuoto per cercarli. Scopro la testa di Dionys, mi avvicino senza che lui se ne accorga ed esclamo: “Chi è questo tritone?”. Ci abbracciamo nell’acqua e la sera andiamo in un ristorante all’aperto di fronte a Lerici, dove Marguerite è tutta felice di farci gustare gli spaghetti alle vongole che lei stessa ha scoperto in quel luogo. Ricordo quei giorni felici senza altri dettagli: solo il mare e gli spaghetti alle vongole. Ciò mi fa venire in mente le nostre vacanze a Saint-Tropez degli anni 1947-1950, in una casa o in una villa dove si ritrovava la nostra piccola comunità di rue Saint-Benoît.

pp. 146-147

Ogni volta che mi fermo a Parigi, dove dormo in rue Saint-Benoît, evoco i miei soggiorni nelle diverse zone occupate, le città in rovina, le popolazioni sconvolte. Robert [Antelme] mi chiede di fare un libro sulle mie esperienze per la Cité universelle. Così sollecitato, mi metto a scrivere. Pensiamo al titolo. Robert aveva trovato per il suo libro sulla deportazione che aveva subito il titolo L’anno zero, ma poi lo aveva abbandonato per La specie umana (capolavoro di cui Courtade mi dirà, quando lo esortai a parlarne in Action, con il suo sorriso beffardo: “Vedi, Edgar, non è letteratura”, senza comprendere che la vera letteratura si fa beffe della letteratura). Trovo che L’anno zero della Germania è perfetto per il mio libro, e Robert mi fa dono del suo titolo. Scriverò febbrilmente questo libro a Baden-Baden, con Violette che mi aiuterà a mettere in luce la mia tesi consistente nel rifiutare l’idea di una colpevolezza collettiva del popolo tedesco, ancora dominante a quell’epoca.
Durante questi mesi, il mio legame con Marguerite e Dionys si rafforza e include Robert. Quando Violette e io decidiamo di rientrare in Francia nell’aprile del 1946, ciò coincide più o meno con la pubblicazione de L’anno zero della Germania. Marguerite ci propone di abitare nel suo appartamento di rue Saint-Benoît, dove c’è una stanza per gli ospiti libera oltre a quella occupata da Robert. Quando Dionys si ferma per la notte, io dormo sul divano.
Sono entrato nel sistema gravitazionale di questo trio straordinario che non è un “ménage à trois” ma un triplo nodo d’amore; io sono l’elettrone satellite che resterà più vicino a questo trio finché durerà, e al quale si aggiungerà Elio Vittorini.


Come ho detto, Marguerite aveva sposato Robert poco prima della guerra; il loro legame resterà forte e l’amore di Marguerite per Robert si amplificherà durante la sua assenza. Marguerite, un giorno in cui mi aveva chiesto il numero massimo di volte in cui avessi fatto l’amore di seguito, mi rispose, quando le rivolsi a mia volta la stessa domanda: “Dodici”, suscitando la mia ammirazione. I loro rapporti fisici sparirono o si attenuarono dopo il parto di un bambino nato morto. Durante l’Occupazione, lei era responsabile della distribuzione della carta agli editori. Dionys venne un giorno a farle una richiesta da parte di Gallimard e lei ne fu abbagliata. Dionys aveva un bel viso che pareva modellato da uno scultore ateniese ai tempi di Prassitele. Uno sguardo diretto e attento, una serietà appena temperata da un sorriso molto lieve, una maniera di parlare precisa ed elegante. Il suo viso restò a lungo giovane, mentre quello di Marguerite perdeva smalto via via che invecchiava. Comunque, negli anni anni 1945-1950, era al culmine della sua bellezza, con un non so che di eurasiatico, un ovale perfetto, una bocca carnosa e ben disegnata, grandi occhi belli. Aveva un corpo gracile da adolescente, seni piccoli; tutta l’intensità dell’attrazione che esercitava, del fascino che emanava dal suo essere, era nel viso.


venerdì 25 settembre 2020

Meticciato e pigmentocrazia


Alfonso Vinci 
CORDIGLIERA 
VENEZUELA COLOMBIA ECUADOR PERÙ 
Leonardo da Vinci editrice, Bari 1963 
pp 124-127 


Lasciammo Fusagasugà che già avevamo imparato a pronunciarne correttamente il nome, - il quale ci richiamava gli altri di tipica origine india, come Facatativà, Chiquinquirà e Zipaquirà, per contrarrestare i quali, come una muraglia cinese contro i barbari, gli Spagnoli importarono la toponomastica più classica e ispirata che poterono trovare nel vecchio mondo: Florencia, Palmira, Armenia, Angelopoli, Antiochia, Filadelfia, Genova, Palestina, Salamina, Corinto, Silvania, Susa, Utica, Palermo, Libano, El Cairo, Cartago, Ginevra, Versailles.
Dopo Fusagasugà la strada continua a scendere per raggiungere la valle del Magdalena, in un paesaggio caldo ed arido, uguale a tutti i tropici americani aridi, con cacti e cespugli spinosi, villaggetti dipinti di bianco, cavernosi spacci di bevande gassose e ragazzini nudi.
Girardot è una città fluviale sulle rive del Magdalena e il suo mercato brulica, come tutti i mercati dei paesi caldi, della solita gente di colore indefinito, in abito originariamente bianco, con una accentuata tristezza nel volto, tristezza spesso fallace che inganna l’osservatore e che nasconde invece fame o anche una forma locale di allegria, incomprensibile per gli stranieri. I meticci nel mercato comprano e vendono manioca e banane da cuocere, il loro pane, e bevono rum bianco, la loro acqua. Osservando la folla si possono molto confusamente sommare gli incroci di tutte le razze del mondo, quali si leggono sui libri di scuola. Gli Spagnoli, appena sbarcati in America, si diedero subito con gusto a organizzare il meticciato su vasta scala, così che qualche generazione dopo, quando l’eroica conquista aveva lasciato posto all’imbelle governo dei grassi viceré, già i padri missionari potevano studiarne i risultati etnici, lasciandoci saporiti commenti e argute descrizioni.
Nel Museo Etnologico di Madrid si può osservare una intera collezione di quadri dei vari meticci americani, quadri che furono riprodotti diversamente anche in Messico, nel secolo XVII. Secondo queste illustrazioni, i meticci sono molto più numerosi di quelli che ci vogliono far credere le semplicistiche divisioni che si concludono sulla classica triade di creolo, mulatto e zambo. Il meticciato è invece una sottile alchimia nella quale il colore e la fisionomia si fondono, reagiscono, si elidono fino a qualità sottili e a tracce quasi inavvertibili, tornando, a volte, perfino a riformare il prodotto puro d’origine. La pigmentocrazia è il termine limite, il modo delle reazioni e il valore ultimo di tutte queste reazioni, per le quali sappiamo che Spagnolo più India dà il Meticcio di base. Questi, incrociato ancora con lo Spagnolo, dà il Castizo, il quale a sua volta, incrociato di nuovo con lo Spagnolo, torna a dare uno Spagnolo. Ecco così concluso un ciclo di reazioni che ci porta alla materia di partenza, la quale, dopo aver assorbito per strada un Indio, lo ha assimilato e cancellato dal proprio tessuto originario. Uno Spagnolo con una Negra dà invece, come risaputo, il Mulatto. Il Mulatto, a sua volta, con uno Spagnolo genera il Moresco, il quale, ancora con lo Spagnolo, dà un Albino o Cinese. L’Albino o Cinese con lo Spagnolo genera infine un Tornindietro, cioè un individuo che ha compiuto il ciclo di assimilazione della razza negra da parte dello Spagnolo e ritorna alle prime fonti. Le cose si complicano quando dalla reazione si elimina l’elemento spagnolo, potente catalizzatore e rigeneratore di razze, per lasciare il laboratorio in mano alle due razze colorate: i Negri e gli Indi. Il Mulatto con l’Indio dà il Calpamulatto, il quale a sua volta, incrociato di nuovo con l’Indio, genera il Gìbaro, una strana mescolanza che con il nome richiama gli Indi pedemontani dell’Ecuador, famosi cacciatori e riduttori di teste. Ora, il Negro con l’Indio dà lo Zambo, chiamato anche Lupo, e questi, di nuovo con l’Indio, dà il Cambuja. E se il Cambuja si accoppia ancora con l’Indio, genera il Sambahiga. Dalla parte negra troviamo che il Mulatto con il Meticcio genera il Cuarterone, colui cioè che possiede il suo etno diviso in quarti: due bianchi, uno negro e uno indio. Se il Cuarterone risale la scala della pigmentocrazia e si incrocia con un Meticcio, ne risulta un Coyote, il quale, sempre ricercando l’elemento bianco, si accoppia con il Moresco, e genera l’Albarrazado. Qui ormai ci avviciniamo allo spagnolo d’origine, secondo i teologi spagnoli che volevano che la loro razza, portatrice della civiltà e del Vangelo, avesse in sé il potere di assimilare e purificare, per quanto laboriosamente, tutte le razze di questo pianeta. Infatti se l’Albarrazado si accoppia con il Tornindietro, ne nasce un Tienitinaria. L’avvicinamento alle origini non è rapido e forse ottenibile solo all’infinito, come in aritmetica. Ad ogni modo i termini sono pronti per una reversibilità completa della razza, perché a Madrid si illustra che anche un Tienitinaria che si innamori di una Mulatta, può dar luogo a un figlio che etnologicamente si definisce Nonticapisco, il quale, se gli piace una India, può a sua volta generare un Saltaindietro, figlio evidentemente allusivo al processo di purificazione progressiva della razza eletta.
L’analisi del meticciato ha portato gli antichi scienziati spagnoli a queste sottili divisioni, ma ciò che importa in tutto questo non è né il Sambahiga né il Tornindietro, ma l’anima del meticcio, che è come un suono discorde originato da un troppo violento accoppiamento di strumenti differenti. La sintesi del meticcio è una sofferenza, perché la crisi di contenere in sé le due razze non è mai superata completamente. I due caratteri, o il mosaico di caratteri ereditati dalle varie mescolanze, convivono senza compenetrarsi del tutto e chi ne soffre è il vaso che li contiene. Riflesso nel popolo, il meticciato, da sofferenza individuale diviene sofferenza sociale, condizione madre dell’ispirazione artistica, la quale, naturalmente, perché si oggettivi, ha bisogno di una elaborazione secolare che porti a un estremo raffinamento delle sofferenze e degli intimi attriti etnici. L’arte, si potrebbe appunto dire, è del meticciato, sia del meticciato vero di uomo con uomo, che di quello più sottile ma non meno importante di uomo-ambiente, cioè della mescolanza tra un popolo e un individuo che, sempre vissuto in un determinato e preciso ambiente, si trova, a causa di emigrazioni, guerre o diaspore, ad adattarsi forzatamente ad un altro ambiente, con diverse qualità geografiche, alimentari, di lavoro e anche umane in genere.
Del resto le così dette razze pure, ammesso che esistano, non sono che specie di coltivazioni da laboratorio che non significano niente nel panorama umano, restando rinchiuse in quello biologico come una specializzazione dell’umanità, la quale, appunto come tale, non ha più possibilità di sviluppo in nessun senso se non nel proprio, il che significa maggior specializzazione, cioè deformazione biologica che porta senz’altro, come lo hanno dimostrato tutte le specie e i generi perduti nei tempi geologici, all’estinzione della specie per degenerazione organica.
Tutte le grandi civiltà sono nate da un meticciato uomo-uomo, fecondato da quello uomo-ambiente, cioè dalla mescolanza di due razze delle quali una arrivava emigrando da paesi geograficamente e culturalmente lontani: così è stato per la civiltà greca, per la romana, per l’italiana, per la spagnola, per la francese, per l’inglese.
In attesa che sulle montagne e nelle valli delle Ande si crei il meticciato completo, l’amalgama che esprima una nuova civiltà, mi sono trovato spesse volte, nei villaggi sudamericani, in profonda simpatia umana con il piccolo meticcio ancora provvisorio, in tensione, forse un Cuarterone o un Saltindietro, dallo strano colore tenace dei cuoi che non mutano con gli anni e con la temperatura, dagli zigomi sporgenti un poco mongolici, gli occhi scuri, il corpo snello e lo sguardo triste, un individuo che vive poco, in apparenza, che vive meno, ritirato dentro di sé, come se il suo corpo, già esile, fosse un involucro troppo grande. Egli non si muove dalla sua terra, la sola che conosce, come se stesse smaltendo una stanchezza storica lasciatagli dagli antenati che hanno attraversato il mare con le cedole dei re cattolici di Castiglia e con i ferri dei negrieri inglesi ai piedi, dopo essere stati catturati nei villaggi africani. Guarda con lo sguardo melanconico le montagne fumanti in un orizzonte confuso di selve e nubi, prende uno strumento qualsiasi, mezzo-sangue musicale come lui, di barbare ocarine senegalesi, di indie tibie di pecari o di raffinate chitarre arabo-andaluse, e compone una canzone qualunque, rivolta alla sua donna o a quella che dovrebbe essere sua, in un mondo di finzioni non ben determinate. Canta per esempio: «io sono la nube grigia che annuvola il tuo cammino, così ti lascerò andare verso il tuo destino».
Il meticcio in attrito è buono e mite e non può non suscitare simpatia, almeno per uno che sente nel profondo i più saporiti fermenti del meticciato di uomini e di geografia.

mercoledì 8 luglio 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Githion, il porto d'arrivo)


La pendice che percorrevamo di gran carriera era completamente brulla. Qualche raro cardo, non una traccia di rovo o di cisto, nessuno stelo rinsecchito di asfodelo; neppure quei bulbi a cipolla dell’amaro narciso marino che punteggiano i terreni più aspri di scoppi verde scuro spuntavano dalla sassaglia. Passammo davanti a una casa isolata caduta in rovina, e Vasilio raccontò una macabra storia che corrispondeva mirabilmente alla follia del paesaggio.






Nelle icone, gli antichi significati si dileguarono e il simbolismo religioso, acquistando un potere talismanico suo proprio, assunse nuovi connotati. La Croce e tutto il suo sacro corteggio pittorico non furono più indicazioni del Logos e dei misteri divini, ma, molto semplicemente, gli avversari della Mezzaluna: totem di famiglia che davano sanzione celeste a quei più umili e diretti strumenti di salvezza, yatagan, scimitarra e archibugio. In questa nuova funzione l’iconografia greca - viva e in evoluzione, con periodi di coma, dai mosaici e sculture degli sparsi regni in declino lasciati dalle conquiste di Alessandro e dai malinconici ritratti con gli occhi sgranati del Fayyum - si immobilizzo; e nel buio periodo prima dell’albeggiare della libertà la sua vita impercettibilmente si andò dileguando. Sopravvisse per il resto della sua durata solo come araldica - recondita, arcaizzante e bella arte tenuta prigioniera da un codice non trasgredibile - e si può dire che ancora sopravviva. Luccicanti fumosamente nelle nicchie delle chiese e vegliami come lari di famiglia in ogni casa, da Trebisonda a Corfù e dalla Macedonia a Cipro, le icone furono le armi parlanti, gli scudi, gli emblemi, gli elmi, le corone, i cimieri, i sostegni e i lambrecchini, i guerrieri e i maghi, di un perduto Olimpo bizantino arturiano al quale un giorno sarebbero tornate. Questi ramificanti viticci digressivi hanno oscurato, come un viluppo d’edera, i muri della desolata chiesetta di Lagia da cui sono nati.




L’Alto Mani era finito. La cala, a mezz’ora di cammino a sud di Kotronas, era dominata da un fico gigantesco. Il lungomare era dedicato alla fabbricazione delle reti. Bisognava camminare con cautela. Strisce larghe un metro di trasparenti reti rossicce erano cappeggiate per terra per una lunghezza di cento passi, e i pescatori seduti a terra a un’estremità tenevano tesa la rete con l’alluce e annodavano svelti maglia a maglia con saettanti spolette. Pescatori seduti in fila lungo un muretto erano occupati a innescare le lenze per la pesca alla traina. Uno, al solito, aveva perso una mano usando l’esplosivo. Un cesto che teneva sulle ginocchia era pieno di rotoli di cordicella e aveva il bordo munito di turaccioli irti di ami come puntaspilli. Lui allacciava l’imbando al moncherino, legava con l’altra mano un breve tratto di filo di nailon alla cordicella marrone, stringeva il nodo tirando coi denti, innescava l’amo con un boccone di pesce, e attaccava un altro pezzo di cordicella, tutto a gran velocità, fumando incessantemente e fermandosi solo un attimo per gettarmi una sigaretta vedendo che mi frugavo invano nelle tasche.



La cosa più notevole e rivelatrice in una faccia greca – specialmente in una faccia contadina – sono gli occhi. Sembra che abbiano dietro, aggomitolata, tutta la storia greca. Sono un insieme di esperienza, di alquanto mesta saggezza e di innocenza. Sono al tempo stesso malinconici e indagatori, intelligenti e pronti a schizzare dalle orbite per l’ira o ad accendersi di divertita complicità e di allegria; soprattutto, sono pieni di un vasto, fenomenale, indifeso candore.



Githion, cui un’isoletta era accavezzata con un lungo e stretto molo, tremò verso di noi tra la foschia della calura pomeridiana. La cittadina era immersa nella catalessi del pomeriggio. Niente si muoveva tra i navigli e le gru del lungomare e tra gli inerti filari di case che si arrampicavano su per il colle. Fuori dal tendone della nave il sole picchiava come una maledizione, e sentii il calore della banchina attraverso le suole delle scarpe come se camminassi su un ferro da stiro. Tutte le imposte erano chiuse. «Non si muove un gatto» disse un compagno di viaggio mentre attraversavamo il Sahara del porto. «Solo degli adulteri diretti a un convegno pomeridiano andrebbero in giro a quest’ora. Ma forse non a Githion. Non è Atene, in fin dei conti!...».
Mi svegliai un paio d’ore dopo. I suoni che giungevano attraverso le imposte chiuse indicavano che fuori la città incantata si stava rianimando. Due radio solitarie andavano a tutto volume, e facevano uno strano effetto dopo il Mani incontaminato. C’era il tubo di scappamento di un motore o due, voci, la sirena di una nave, il clop-clop di somari e cavalli, e a tratti lo sbattere di quelle bilance portatili d’ottone che fruttivendoli e droghieri brandiscono come statue della Giustizia. Tutti i suoni, insomma, di un’importante città di provincia che è anche un porto, il maggiore del Peloponneso sudorientale, sede di arcivescovato, di tribunali e di parecchie scuole, una piccola base navale e un florido mercato. Il rumore del risveglio d’attività penetrava tuttavia alquanto attutito nel cubo buio della mia stanza all’Hotel Atteone.
Era ora di mettere una camicia pulita e di farmi la barba.





Githion ha antecedenti venerandi. Se Omero non ne parla, Pausania tramanda un mito che attribuisce la sua fondazione a Eracle e Apollo, per celebrare la fine della loro lunga lite causata dal furto del tripode della Pizia a Delfi.
Altri dicono che Githion fu fondata, dopo la distruzione di Las, da Castore e Polluce al loro ritorno dalla Colchide. I fenici di Tiro vi approdavano per procurarsi il murice, e gli stessi laconi impararono presto e svilupparono l’industria; tutte queste acque infatti, da Githion a Citera, erano ricche del mollusco da cui si ricavava la porpora, e che presumibilmente vi prolifera tuttora indisturbato. Più tardi la città diventò il principale porto marittimo di Sparta, teatro di parecchi assedi; segnatamente quello in cui Tolmide, risalito il golfo con una flotta ateniese di cinquanta triremi, sgozzò quattromila opliti intorno alle mura. Una volta vi sbarcò Alcibiade, e Epaminonda la tolse agli spartani nella sua campagna lungo la valle dell’Eurota. Filippo V il macedone e il tiranno spartano Nabide arricchirono di pagine guerresche i suoi annali. La città fu strappata a Nabide dal generoso generale romano Tito Quinzio Flaminino, impegnato a distruggere, come fece, la flotta pirata di Sparta. Flaminino annesse la città all’Impero. In seguito, cosa abbastanza curiosa, egli fu onorato a Githion quasi come un dio. Sotto i romani la città visse prospera e pacifica: la Libera Federazione Laconica fondata da Augusto era da ogni punto di vista preferibile alla tirannide spartana. In età imperiale il gusto romano per la porpora, usata dapprima solo nella sobria striscia senatoria sopra la toga repubblicana, diventò una passione. L’industria ebbe grande sviluppo, e insieme ad essa l’esportazione del porfido e del marmo «rosa antico»; nel Mani si vedono ancora qua e là lastre incise, e gli squarci sbiaditi sulle pendici dov’erano le cave. Queste pietre erano il principale ornamento dei palazzi di Alessandro Severo e di Eliogabalo. Nuovi templi, dedicati a una varia molteplicità di dèi, sorsero accanto ai vecchi. Ad essi tennero dietro un teatro, fori, ville, acquedotti e terme.
Oggi è molto diversa. Non vi è nulla di particolarmente magnifico, ma il lungomare, con i piroscafi all’ancora, i negozi e uno o due alberghi, ha un certo deperito fascino vittoriano. Qua e là in questa malandata matrice è incastonata la nuda facciata di un edificio moderno. È triste che le città di provincia greche abbiano cominciato a espandersi e a prosperare in un momento in cui l’architettura europea era al suo nadir più ingrato. Se fossero state costruite con vie porticate! Come i portici nobiliterebbero e drammatizzerebbero splendidamente le passeggiate serali! Che riparo benedetto dai diluvi invernali e più ancora dall’assalto del bagliore meridiano!









Marathonissi, scolorata e oscura, nereggiava contro i bagliori d’ambra del tramonto. Il nome vuol dire «isola del finocchio». Ora è brulla, ma dicono che un tempo fosse coperta appunto di finocchi: una bassa foresta di ciuffi svettanti come capitelli corinzi gialli e verdiazzurri, forse intramezzati dalla specie alta e sottile che quando si secca dà a tutta la Maremma odore di curry. L’aria era soffusa di una luce celestina veneziana. I lampioni del molo affondavano lineari riflessi a piombo nel dondolio impercettibile dell’acqua: colonne luminose che si frangevano e riunivano e di nuovo si disperdevano come se le particelle fossero infilzate su un filo che si allentava e si tendeva, volta a volta scombinando e riordinando quei balenanti e fluttuanti frammenti d’oro. Poi l’acqua diventò liscia e ferma e le luci riflesse furono immobili. Una barca, la cui sagoma scura aveva un’aria lievemente sinistra, vogò verso l’isola sbriciolando quei fragili riflessi. I frantumi si sparsero intorno alla scia e si allargarono in una fuga agitata di virgole d’oro, il loro delicato tremolio separato da una fascia scura causata dal movimento della barca; una distesa che rifletteva non i lampioni del molo ma la luna, in una fredda circonferenza incrinata di argento franto da cui scaturivano due fredde code via via più ampie di una scia di mercurio, un lungo triangolo isoscele argenteo. Ci alzammo per andarcene. La taverna ci chiamava. Lo stifado, i pescispada... Il cameriere spazzò dal tavolino il nostro mucchietto di dracme.
«Sapete di Marathonissi, nei tempi antichi?» chiese improvvisamente. «Molti anni fa?».
«Zanetbey aveva là il suo castello» dissi io.
Il cameriere liquidò bey e castello con un gesto. «Quella è roba recente... il mio trisnonno era uno dei pallicari di Zanet. Voglio dire molto molto tempo fa».
Dichiarammo di non sapere altro.
«Ah!» fece, acceso dalla prospettiva di darci una notizia. «Quando Paride, un principe troiano, rubò la bella Elena al marito, il re di Sparta, è là» indicò Marathonissi «che i fuggiaschi gettarono l’ancora. Scesero dal caicco e passarono la prima notte insieme sull’isola. L’ha raccontato Omero. L’isola allora si chiamava Cranae».
Restammo sbalorditi. Cranae! Mi ero sempre chiesto dove fosse. Tutta Githion si trasformò di colpo. Sembrò che ogni cosa svanisse, tranne il profilo scuro dell’isola dove migliaia d’anni fa era cominciata, tra l’erbe mormoranti, quella fatale e incendiaria luna di miele.