Picasso
Presentazione
di Fernanda Wittgens
Silvana Editoriale d’Arte
Milano 1954
pp. 5-12
Terra
dell’Umanesimo, l’Italia, con la forza della sua tradizione, assolve tuttora la
missione di vaglio d’ogni cultura nuova: una missione di cui pochi intellettuali
nostri sono coscienti mentre è chiara, almeno dal tempo di Goethe, allo sguardo
del mondo internazionale. Era tempo che il rivoluzionario movimento della
pittura moderna, rifluito da Parigi in ogni centro culturale dell’America del
Nord e dell’Europa ma non in Italia ove erano apparse soltanto le sporadiche
documentazioni delle Biennali Veneziane, fosse illustrato, sulla scena
italiana, dal caposcuola del Novecento europeo: Pablo Picasso.
La recente
mostra dell’opera pittorica, grafica e plastica del Maestro in Palazzo Reale di
Milano ha assolto questo compito per una duplice ventura: per avere potuto
raccogliere l’opera giovanile di Picasso documentata da dipinti del Museo d’Arte
Moderna di New York, di collezioni private americane, svizzere, francesi,
italiane, e soprattutto dai nove fondamentali esemplari provenienti dal Museo d’Arte
Moderna di Mosca; e per aver ricevuto, sia pure per un mese solo, il suggello
di Guernica, la creazione assoluta
del Maestro ed il «documento principe» del Novecento artistico europeo.
All’inizio della
sua vita d’artista, è il mondo del sentimento che attrae Picasso;
parallelamente, la sua esperienza pittorica si svolge nella cerchia dell’Impressionismo
e del post-Impressionismo, se pur una segreta ansia umana ed un rigore che è
manifesto segno di integrità spagnola, impediscono all’artista di cadere nei
facili effetti decorativi degli epigoni. È la lezione offerta da due rarissimi
capolavori del «periodo blu» e del «periodo rosa» di Picasso, conservati nel
Museo di Mosca: il Vecchio ebreo e il
Saltimbanco.
Comprendiamo che
l’azzurro del Vecchio ebreo forzato
sino all’austerità del monocromato (sicché il prodigio espressivo è affidato
essenzialmente al disegno) ha, per Picasso, il valore di un simbolo di quella
vaga socialità che segnava il nascente secolo XX: simbolismo ben altrimenti
puro di quello di Puvis de Chavannes e dei neopreraffaelliti, al cui influsso
pur non era sfuggita la sensibilissima natura picassiana. Ma ecco il Saltimbanco: la fantasia del Maestro comincia
a dominare il sentimento nell’illusoria figurazione della vita del circo; e la
pennellata delicatissima accende, sulle forme umane e sul deserto scenario di
colline sabbiose, lumi rosa quasi fuochi fatui. Siamo ai margini della
trasposizione della realtà sul piano intellettuale, ai margini della creazione
dell’arte moderna.
L’autentica
attività creatrice di Picasso s’inizia solo nel momento in cui l’artista
acquista la consapevolezza che tutte queste esperienze appartengono al passato -
un grande passato iniziato nel Barocco e concluso con la pittura impressionista
- e che una nuova civiltà deve nascere da un nuovo arcaismo. La lezione di
Cézanne, la suggestione dell’arte negra importata all’inizio del Novecento in
Parigi, il potente, genuino temperamento spagnolo dell’uomo e dell’artista si
sommano felicemente nell’impeto rivoluzionario della pittura «cubista» di
Picasso, la prima autentica parola del Novecento artistico.
Ancora i dipinti
dei Musei di Mosca hanno offerto gli elementi fondamentali per comprendere il
complesso processo di formazione della nuova pittura. Un quadro ha colpito il
pubblico italiano per la violenza della sua stilizzazione: Le tre Donne. Quadro eroico, realizza in un clima di passionalità
quello che era stato, per Cézanne, un imperativo categorico dell’intelletto:
rendere la natura per cubi e cilindri. Ma è una via senza uscita, e, d’altra
parte, se Picasso ha potuto risolvere un simile tema con potenza come in questo
quadro, lo ha fatto mercé un ritorno al passato, ispirandosi alla scultura
romanica della sua terra spagnola, e ne ha emulata la plasticità per quel
potere che Leonardo riconosceva alla pittura, di simulare con i suoi mezzi gli
effetti dell’arte sorella.
Un altro quadro
nella stessa sala di un anno anteriore appariva, ai sensibili, miracolo più
sottile e maggiore: la Danza con i veli,
tanto più che esso era esposto accanto ai Due
nudi della Collezione Silbermann di New York, veri feticci negri in un’atmosfera
fauve, che documentavano il primo e non controllato incontro, circa il 1906,
con l’esotismo primordiale. L’intellettuale natura di Picasso riprende il
dominio nella Danza con i veli, e
soggioga l’emozione. Fosforescente di gialli, di azzurri, di verdi, il dipinto
mirabile è solo al primo sguardo una simbologia dell’estasi fantastica, una
visione orientale; contemplandolo, si discerne la meditata astrazione della
forma, il nascere di un nuovo linguaggio figurativo che aderisce alle più
sottili ricerche della cerebralità e della ipercultura del nuovo secolo, di
quel Novecento che, al suo inizio, si è posto in antitesi assoluta col
romantico Ottocento.
Da quest’opera e
dai vari studi per le Démoiselles d’Avignon
esposti nelle sale milanesi e più genialmente rivoluzionari e convincenti dello
stesso famoso grande quadro del Museo di Arte Moderna di New York, si giunge
alle espressioni ardite del «cubismo analitico» che dobbiamo considerare nel
loro valore polemico : indici della frattura di una civiltà, manifesti di una
nuova visione estetica.
L’estetica classica
e postclassica conciliavano le loro antitesi nella tradizione mediterranea
«dell’uomo misura di tutte le cose» sia che, classicamente, queste fossero a
lui subordinate, sia che, romanticamente, divenissero elementi della sua
fantasia. Che cosa sono infatti i paesaggi impressionisti se non proiezioni del
lirico rapimento dell’uomo ottocentesco, raffinato nella sensibilità dalla
poesia e dalla musica romantica, di fronte allo spettacolo della Natura che è
serena ed amica secondo l’ottimistica interpretazione della fine del secolo?
Il Novecento
segna un brusco risveglio di intellettualità, e con un balzo gigantesco il
pensiero umano trapassa dall’apparenza all’essenza, se non vogliamo dire al
«metafisico», termine più popolarmente accessibile ma che difficilmente può
essere usato, dopo secoli di teologia, in significato nuovo ed elementare. È un’avventura
spirituale di cui non abbiamo ancora misurato la grandezza noi che ne siamo
partecipi e vittime, perché l’abbiamo scontata con la distruzione degli ottimismi
e delle «certezze» scientifiche, con le tragiche catarsi delle guerre, con l’immensa
responsabilità di creare, sulle nuove basi cosmiche, una civiltà pur sempre
riferita all’uomo. Veggente è invece l’artista, e Picasso cerca di esprimere,
mercé il cubismo analitico, la nuova visione del mondo, la nuova estetica dello
spazio.
Lo spazio
tradizionalmente sentito come ambiente dell’uomo diviene, nell’intuizione del
nostro secolo, un’entità, un elemento operante e creativo in quanto collega in
unità l’uomo e gli oggetti mercé i suoi piani e le sue luci. Le forme umane e
naturali si geometrizzano; nasce la nuova grafia che ripete esperimenti
antichissimi di tutte le arti mistiche - dai vasi del Dipylon agli «entrelacs»
irlandesi, ai mosaici bizantini - le quali proprio per simboleggiare l’unità
cosmica del mondo, imponevano una figurazione in superficie ed uno stile
geometrizzato.
È interessante
notare la difficoltà di Picasso nella rinuncia all’espressione umana: il Ritratto di Vollard del Museo di Mosca e
la Suonatrice di mandolino della
Collezione Penrose di Londra non sono privi di echi romantici, sicché più
assoluta appare l’esperienza cubista nella Donna
in verde della Collezione De Haucke orgogliosamente vitale con le sue forme
ampie ed il vibrare dei verdi, nella Donna
in poltrona della Collezione Salles di Parigi, raccolta in tonalità di
grigio e viola che ne fanno un’opera di meditazione sulle segrete relazioni tra
l’atmosfera e la forma umana e nel Violino
del Museo di Mosca, capolavoro della visione cubista, una lirica creata con la
vibrazione del prisma. È questo senso di umanità di Picasso che sollecita l’artista
a chiudere in breve giro di anni, circa dal 1909 al 1914, il cubismo analitico
che fu, per Braque e Juan Gris, l’esperienza definitiva, ed a tentare un’altra
e più difficile via: «il cubismo sintetico».
Il Giocatore di carte del 1914,
generosamente concesso dal Museo d’Arte Moderna di New York e Fruttiera e chitarra, gemma del
Kunsthaus di Zurigo segnavano, nella Mostra milanese, più potentemente d’ogni
altra tela, l’inizio e lo sviluppo della nuova ricerca che, elaborata in
qualche capolavoro dell’artista (ricordiamo Il
Balcone della Collezione Rosenberg di New York) condurrà a Guernica. Se fosse consentito fare di un
uomo un simbolo, dovremmo seguire questo solo e fondamentale linguaggio del
cubismo sintetico di Picasso; ma troppo grave sarebbe la lesione dell’umanità
dell’artista. E dobbiamo perciò accennare ad altre multiformi, complesse
esperienze che, se si sa «leggere» l’opera del pittore, non nascono dall’io
autentico di Picasso, ma sono il riflesso di un mondo iperculturale - quale fu
quello europeo del primo Novecento - sulla sensibilissima personalità
picassiana. Questo fenomeno ha il potere di provocare le più sorprendenti
reazioni che possono essere il classicismo delle opere italiane, lo strano e
sentimentale romanticismo dei ritratti di Pablo del 1925 (e tuttavia, in quel
periodo, nasce anche il capolavoro cubista dei Tre musici del Museo d’Arte Moderna di New York), l’espressività
infine che segna di un particolare timbro l’opera matura dell’artista, ed è
certo l’esperienza da lui più sofferta. Come bene ha visto il più acuto
biografo di Picasso, Christian Zervòs, quasi in tutti i momenti della sua vita
il Maestro è vittima di un dualismo tra la carica affettiva suscitata dagli
incontri con la vita ed un bisogno di libertà che lo spinge ad evadere, sino a
reagire con violenza all’esperienza ricercata ed insieme temuta. È la natura
spagnola che non sa raggiungere, secondo l’esperienza greca, la catarsi della
contemplazione, anzi coltiva fanaticamente il dualismo di coscienza ed istinto,
di passione sublimatrice e di sessualità, di intelletto e sentimento.
Momenti sereni
non mancano tuttavia in questa maturità: l’eterno femminino così inquietante
per Picasso, qualche volta assume aspetti di semplice, direi solare
naturalezza, ad esempio nel vivente arabesco dell’Odalisca di proprietà dell’artista e in quella Donna col cappello, (anch’essa della collezione personale di
Picasso), arditamente sezionata da una ricerca dinamica riflessa dal
cinematografo nella cultura del nostro secolo, e che pure, in quest’opera,
perde ogni aggressività polemica per la preziosità del colore. È un delicato
gioco di azzurri, di gialli chiari, di rosati, raro in Picasso che «vede»
generalmente più da freschista che da pittore da cavalletto, per zone di tinte
semplici.
Antagonista nell’espressione
è la Donna seduta che legge.
Essa appartiene
al momento delle esperienze psicanalitiche e al pari della Donna che gioca al pallone sulla spiaggia e della lunare Donna sulla spiaggia dovrebbe esprimere
le complicate simbologie dell’inconscio. Fortunatamente riemerge, dalle
cerebralissime esperienze, intatta l’austerità del primitivo spagnolo, e lo
splendore dei rossi e dei gialli tramuta il simbolo freudiano in un’immagine di
Apocalisse catalana. Siamo nel 1937, l’anno di Guernica che sublima questa ancestrale ispirazione picassiana, Guernica frattura della civiltà, canto
del dolore del mondo.
Eterno
viandante, l’artista procede oltre quel termine, e nel 1938 e nel 1939 torna ad
aderire alla vita quotidiana, alle sue possibilità di bellezza; ed ecco la pura
gioia estetica del bel colore e delle forme espressive nella Pêche
d’Antibes,
vero peana della vita marina, inno dell’uomo mediterraneo e, con Guernica, capolavoro assoluto del
maestro.
Poi di nuovo,
nel ’40, la guerra: ed altri, più terribili mostri e deformazioni e simboli di
ferocia come il famoso Gatto che azzanna
l’uccello, e la morte stessa col suo gelido riso; e poi, nel dopoguerra, il
mondo intimo dell’uomo, la vita di casa tra gli umili arredi domestici. Ecco ad
esempio, nella famosa tela del Museo d’Arte Moderna di Parigi, La cazzeruola smaltata, un effetto
magico di vita colta realisticamente e poi fissata in astrazione, tanto da dare
agli oggetti elementari un segreto significato di umana civiltà.
La biografia
potrebbe continuare sino al giorno di oggi, ritessere altre proteiformi
esperienze; deve comunque includere la testimonianza dell’opera plastica.
Sculture come l’Uomo con l’agnello, La Capra, la Testa di donna del 1937 confermano che qualsiasi materia tratti la
mano di Picasso, essa si anima di espressione, palpita di vita: l’impresa
prometeica è anzi forse più facile a Picasso nel bronzo che non nella tela
campita dai colori. Ma questa biografia per sé interessantissima, nei riflessi
di una vasta percezione della modernità ha interesse secondario. È la genuinità
di Picasso, non le sue multiformi esperienze, che definisce l’essenza della
modernità. E genuino è il cubismo sintetico, la cui realizzazione massima
cogliamo in Guernica. Sette metri di
tela ordita per la lotta col mare, tela di vela, accolgono la tempestosa
figurazione della tragedia della Spagna che segnò la fine di un sogno secolare
di civiltà e di progresso umano, ed annunciò l’apocalittico cataclisma della
guerra mondiale. Guernica è,
ripetiamo, il canto del dolore del mondo: risparmiata la facile eloquenza del
colore, Picasso intona questo canto su note di bianco e nero (che variano in
infinite gradazioni sino all’avorio rosato, carneo, e al grigio aurorale), lo
purifica cioè in un misticismo cromatico che rivela l’estrema sincerità dell’ispirazione.
Dal punto di
vista della forma, la lunga, sofferta esperienza del cubismo sintetico si
conclude in una pagina che non ha più alcuna cesura né alcun ermetismo d’origine
cerebrale; ampia, sonora, costruita, ritmica e commossa. La riempie lo spazio
che non è un fondo morto, ma un tessuto animato ed elastico come il tessuto
corporeo; e le forme si incidono come vene pulsanti. Una finestra affonda
grigia nel bianco, e scopre l’infinita pace del ciclo sulla tragedia consumata;
una porta, un muro bianco gridano l’orrore dei reclusi nelle macerie più dello
stesso gesto disperato della donna nella casa crollata; un altare, in
prospettiva nel fondo, eleva la colomba grigia con la ferita bianca come un’ostia,
a simbolo di perdono. E simboli di redenzione nel futuro divengono le stesse
semplici lampade domestiche, anche perché il loro quieto e fedele lume è più
forte delle fiamme distruttrici, e fa discendere sulle vittime, nella gelida
veglia al limite della notte, una promessa di pace.
La morte stessa
si trasfigura; il martoriato braccio del guerriero stringe ancora il ferro, ma
da questo già germoglia un fiore. E la madre che urla il suo strazio ai piedi
dell’impassibile toro - il Fato della Spagna - presto chinerà il capo, e si
accorgerà del miracolo d’amore: il figlio morto si ricompone nel suo grembo in
un dolcissimo arabesco, non è più un morto ma un fantastico fiore reciso.
Orrore e pietà ispirano all’artista il contrappunto ardito di spazi
architettonici e di volumi plastici che culmina nel nodo centrale del cavallo
ferito. Solo uno spagnolo uso alle corride poteva scegliere, come emblema del
terrore, il cavallo, e dipingere i suoi occhi folli liquefatti e il suo nitrito
primordiale. «Se tutto il dolore del mondo fosse raccolto in un grido, esso
assorderebbe il mondo», ha detto un antico poeta. Ecco veramente, nel centro
del quadro, un urlo cosmico.
Ed ecco il
vertice del nuovo linguaggio. Se l’intero corpo del cavallo avesse dominato la
scena, la pittura sarebbe stata pura figurazione senza mito segreto, senza la
sottile «speculazione» leonardesca. Picasso delinea in tutta la possanza del
volume il petto del cavallo, ed annulla in arabesco le sue altre forme reali,
le consuma nello spazio che riassorbe in sé la plastica, ristabilendo un
equilibrio fantastico, una suggestione mitica. È l’esperienza dei primitivi
riscoperta dall’uomo moderno cosciente, ma al tempo stesso ispirato dal soffio
di una passione così vasta che può esprimersi in una forma corale.
Se riapriamo
oggi il Cahier d’Art che Christian
Zervòs, con la sua intuizione di ogni arte vivente, dedicò nel 1937 a Guernica, sentiamo con stupore la
perfetta rispondenza del nostro stato d’animo con quello dei primi scopritori:
Zervòs nel suo saggio «Histoire d’un tableau» e Josè Bergamin nelle pagine di
irripetibile poesia dedicate al mistero dell’opera, e che si intitolano
«Picasso furioso». E sono passati diciassette anni, e una guerra - quale
guerra! - ha diviso il secolo XX in due epoche! Eppure intatta, come prevedeva
Zervòs, è rimasta la magia di Guernica.
Con il critico stesso possiamo spiegarla
intellettualmente interpretando come motivo dell’opera la rivelazione sublime
della vittoria della vita sulla morte: «Pour ces raisons il est loisible d’affirmer
que cette oeuvre trouvera durablement accès au coeur, apporterà des
suggestions, suscitera des sentiments, fera naître la conviction qu’il y a des choses plus grandes que la réalité
apparente et que parteciper de leur grandeur c’est un peu se relever en
dignité».
Con il poeta
Bergamin possiamo interpretare la suggestione di Guernica medianicamente, possiamo rinnovare la comunione con
Picasso «furioro» di quella collera spagnola che il poeta mirabilmente
definisce rivelandone l’essenza mistica: «Le mystère tremble en lui par la vérité
colérique de la justice qu’il demande. Car la
véritable justice est le couteau de la balance entre un oui et un non définitifs;
elle n’est autre chose, en définitive - autre chose idéale, autre réalité - que
l’affirmation humaine de la vie à quoi la négation de la mort fait contrepoids.
La plénitude
de l’être contre le néant».
L’una e l’altra
interpretazione è valida, l’una dell’altra complementare, e ad entrambe
aderiamo, riconoscendo che Picasso, educato dalla cerebralità parigina all’intellettualismo
ed a tutti i suoi orgogli, ha ritrovato l’umanità nell’ora in cui le sue radici
spagnole erano colpite dal sacrilegio, e con il potere del genio ha previsto,
nell’episodio, il dramma del secolo in un’opera artistica che chiude il passato
e prepara l’avvenire. Essa è anche la giustificazione di tutto il suo
linguaggio rivoluzionario, e annulla gli esperimenti falliti, denuncia gli
errori dell’intelligenza troppo compiaciuta di sé e dell’avventurosa ricerca,
stabilisce, nell’opera picassiana troppe volte spinta al di là del limite,
quella che è l’accettabile e morale «misura».
Se non avesse
dato Guernica, Picasso apparirebbe
quale l’Ulisse dantesco, eroe della conoscenza che per la sua sfida agli dei, è
travolto nel vortice senza aver raggiunto la suprema verità. Ma Guernica risolve, sul piano dell’umanità
e dell’espressione corale, il grande problema dell’arte di oggi, parimenti
sollecitata dal mondo della coscienza umana e dalla percezione della vita
universale: un’arte che è soprattutto ed essenzialmente espressione, ma che non
ama le complicazioni estetizzanti del primo Novecento perché non ha più radici
intellettuali, ed individuali, bensì mistiche e sociali. Guernica pittorica e plastica e architettonica, creata con sintesi
assoluta di spazi e di volumi, e pur tutta trepida di vita per le vibrazioni
sottilissime dei suoi grigi e per le misteriose linee nere che come frecce
spinate saettano, nei punti nevralgici, le ampie costruzioni plastiche
animandole medianicamente, Guernica è
un messaggio di fede che Picasso offre all’artista d’oggi perché con un
coraggio ed una libertà pari alla sua, tenti una forma nuova, e vi trasfonda la
ricerca severa di un’umanità ricondotta, dal dolore, alla meditazione dell’assoluto,
ed ansiosa di ricomporre il lacerato tessuto della civiltà con il potere dell’arte.
FERNANDA WITTGENS
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