Ce ne sono stati tanti prima: con più
genio, con più sapienza, con più resistenza, con più speranza. Ce ne sono stati
tanti che sono andati più in là prima e dopo. Ma Modigliani è uno. Modigliani è
indivisibile. La sua storia comincia e finisce con lui. E anche la sua pittura.
Modigliani è l’unità dell’anima. Era un peccatore rovinoso, di quelli che
bruciano e tutto consumano per arrivare al centro dell’anima. Il colore era l’emanazione
di questo centro: la sua radice e la sua estasi. Quando s’è voluto teorizzare
sulle sue gamme ne è venuto fuori un riassunto da laboratorio. Per raggiungere
l’ansietà dei rossi Modigliani ha vissuto sul bruciato. Ha peccato. Ha espiato.
Ha peccato ancora. Come Santa Caterina cercava il suo rosso. Era un
presentimento e una vocazione. Le donne erano fuoco. La pittura era fuoco.
Parigi come Babilonia la capitale del male. La vedeva rossa come i Senesi la
città del demonio. E rosse le facce delle donne dai cui occhi l’anima dipartita
alitava nell’aria arrossandola. Quando Modigliani consumò l’ultimo rosso morì.
Morì all’ospedale a trentasei anni. Come i peccatori che vissero troppo poco
gli mancò il tempo di essere assunto in qualità di angelo nella gloria del
cielo.
Della Scuola di
Parigi non ha la variabilità degli stili né l’intemperanza. Non si affanna
dietro i sistemi. Non ha un sistema. Non ha idee da imporre né da servire. Non
è come Picasso un panorama. È un isolato come Rouault di cui ha lo stesso amore
per le tonalità calde. Ma il suo bruciato non proviene da avventure
luministiche. Non è una mano erudita come Dérain.
Prima degli
Impressionisti a Parigi ha visto i Veneziani a Venezia. E prima di Cézanne ha
visto Giotto e i padri di Giotto a Ravenna. Ha visto la Regina Teodora. Ha
visto le Madonne sedute più alte dei troni. Ha visto salire la linea dei
musaicisti del sesto secolo e dentro la linea il rosso e l’oro. Ha visto di
queste linee l’immobilità, la trascendenza, la maestà delle ripetizioni.
Attraverso queste linee ha visto gli Apostoli elevarsi e trasformarsi in
essenze geometriche. La curva tendeva a rompere gli slanci. Rappresentava la
prostrazione e il peccato. La curva era il Vecchio Testamento.
L’espressione
monodica è fondamentale nello stile di Modigliani. Al fondo del suo essere c’è
qualcosa di orientale non soltanto per l’origine semitica. La tendenza al
simbolo e al motivo, la ripetizione, la forma chiusa e il colore. Quel ritmare
e cadenzare. L’eleganza del segno ininterrotto che quasi raggiunge la
stilizzazione. Quel caricare la linea e duttilizzarla sino alle curve più
melodiose. La stessa insistenza di alcune effusioni. La puntualità dei ritorni
e lo stretto numero del suo repertorio ridotto a una tipologia unica e
facilmente riconoscibile. La fedeltà alla figura umana elevata a immagine. E
questa immagine sempre ardente e piena di grazia che varia e si riproduce nella
medesima fissità. La linea è intangibile. La struttura del corpo umano è l’orizzonte
sensibile di questo orientale temperato in Toscana.
Nato a Livorno l’84
ultimati gli studi ginnasiali si dà alla pittura. L’inizio è modesto. È allievo
di un tardo macchiaiolo, il Micheli. Frequenta l’Accademia di Firenze, e per un
periodo più breve quella di Venezia. A Livorno nello studio del Micheli si lega
d’amicizia con un giovine pittore, Oscar Ghiglia. Nel 1902 abitano insieme a
Firenze in via San Gallo. L’anno prima Modigliani per la salute malferma è
consigliato dai medici a trascorrere l’inverno a Capri. Fra i due si stabilisce
una corrispondenza.
Alla fine dell’inverno
del 1901 scrive da Capri a Ghiglia: « ... Io sono qua a Capri (un luogo
delizioso, tra parentesi) a far la cura. E son quattro mesi adesso che non ho
concluso niente, che accumulo materiali. Presto andrò a Roma, poi a Venezia per
l’Esposizione... faccio l’inglese. Ma verrà anche il momento di sistemarmi a
Firenze probabilmente e di lavorare... ma nel buon senso della parola, vale a
dire a dedicarmi con fede (testa e corpo) a organizzare e sviluppare tutte le
mie impressioni tutti i germi di idee che ho raccolto in questa pace, come in
un giardino mistico ». Dall’Hôtel Pagano, dove alloggia, poco tempo dopo passa ad
Anacapri alla villa Bitter: « Carissimo Oscar, ancora a Capri. Avrei voluto
aspettare a scriverti da Roma: partirò fra due o tre giorni, ma il desiderio di
trattenermi un poco con te mi fa pigliare la penna. Credo al tuo cambiamento
sotto l’influenza di Firenze. Crederai tu al mio viaggiando in questi posti?
Capri, il cui solo nome bastava a risvegliare nella mia mente un tumulto d’immagini
di bellezza e di voluttà antica, mi appare adesso come un paese essenzialmente
primaverile. Nella bellezza classica del paesaggio è un sentimento - per me -
onnipresente e indefinibile di sensualità. E pur sempre (anche malgrado gli
inglesi che invadono col Baedeker) un fiore smagliante e venefico che sorga sul
mare. Non so ancora precisamente quando sarò a Venezia, del resto te lo farò
sapere. Desidererei vederla insieme a te. Micheli? Oh Dio, quanti ce ne sono a
Capri, reggimenti ». Alla vigilia di Pasqua scrive da Roma allo stesso: « Caro
amico, io scrivo per sfogarmi con te e per affermarmi dinanzi a me stesso.Io
stesso sono in preda allo spuntare e al dissolversi di energie fortissime. Io
vorrei invece che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza che
scorresse con gioia sulla terra. Tu sei ormai quello a cui posso dir tutto:
ebbene io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera. Io ho l’orgasmo,
ma l’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa
ininterrotta dell’intelligenza... Un borghese oggi mi ha detto, mi ha
insultato, che io, ossia il mio cervello oziava. Mi ha fatto molto bene. Ci
vorrebbe un avvertimento simile tutte le mattine al proprio risveglio: ma essi
non ci posson capire e non posson capire la vita... Io attenderò a una nuova
opera e dacché io l’ho precisata e formulata mille altre aspirazioni vengono
fuori dalla vita quotidiana. Vedi la necessità del metodo e dell’applicazione.
Cerco inoltre di formulare con la maggior lucidità la verità sull’arte e sulla
vita che ho raccolto sparse nelle bellezze di Roma, e come me ne è balenato
anche il collegamento intimo, cercherò di rivelarlo e di ricomporne la
costruzione e quasi direi l’architettura metafisica per crearne la mia verità
sulla vita, sulla bellezza e sull’arte ». È un ragazzo che scrive, un ragazzo
di diciassette anni, un po’ fanatico ma riflessivo. Ancora da Roma a Ghiglia: «
Perché scrivere mentre si sente? Sono tutte evoluzioni necessarie attraverso le
quali dobbiamo passare e che non hanno importanza altro che per il fine a cui
conducono. Credimi, non è che l’opera arrivata ormai al suo completo stadio di
gestazione, impersonata e tratta dalla pastoia di tutti i particolari incidenti
che hanno contribuito a fecondarla e a produrla che val la pena di essere
espressa e tradotta con lo stile. L’efficacia e la necessità dello stile si
presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto a
estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia la
via aperta a ciò che non si può né si deve dire. Ogni grande opera d’arte
verrebbe considerata come qualunque altra opera della natura. Prima di tutto
nella sua realtà estetica e poi al di fuori del suo sviluppo e del mistero della
sua creazione, di ciò che ha agitato e commosso il suo creatore... Vorrei
parlarti della differenza che corre tra le opere di quegli artisti che hanno
più comunicato e vissuto colla natura e quelli di oggigiorno che cercano
ispirazione negli studi e vogliono educarsi nelle città d’arte ». Se i critici
d’oltralpe avessero conosciuto queste lettere il ritratto di Modigliani sarebbe
meno composito.
Ultima lettera
da Roma a Oscar Ghiglia: « ... Noi - scusa il noi - abbiamo dei diritti diversi
dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al disopra -
bisogna dirlo e crederlo - della loro morale... Il tuo dovere reale è di
salvare il tuo sogno. La bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i
più belli sforzi dell’anima. Ogni ostacolo sormontato segna un accrescimento
della nostra volontà, produce il rinnovamento necessario e progressivo della
nostra aspirazione. Abbi il culto sacro - io lo dico per te e per me - per
tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza. Cerca di
provocarli, di perpetrarli, questi stimoli fecondi, perché soli possono
spingere l’intelligenza al suo massimo potere creatore. Per quelli lì noi
dobbiamo combattere. Possiamo noi racchiuderli nella cerchia della loro morale
angusta? Affermati e sormontati sempre. L’uomo che dalla sua energia non sa
continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per
affermarsi sempre a abbattere tutto quel che è di vecchio e di putrido restato,
non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi ». Trascuriamo il
fondo letterario, le letture eccitanti - Zaratustra era di fresca nomina -
resterà un carattere nobile, anche se le aspirazioni sono vaghe; spirito
coltivato per la sua giovane età, poco più che un fanciullo. A parte queste
lettere, ignoriamo le sue prove di studio a Firenze. E anche dopo Firenze, del
soggiorno di Modigliani a Venezia non ci è pervenuto nulla: non un segno, non
un dipinto. Che i propositi aggressivi siano venuti meno al contatto della
realtà?
Nel 1906 Modigliani
lascia l’Italia e si stabilisce a Parigi. S’è portato dietro le fotografie dei
maestri italiani che predilige. Dei Senesi la Santa Chiara
di Simone Martini e Le Marie al Sepolcro di Buccio. Dei
Toscani quelli del primo Rinascimento. Dei Veneziani Carpaccio. Di Carpaccio la
tricromia delle Due cortigiane, acquistata a
Venezia al tempo dell’Accademia e che lo segue attaccata alle pareti ovunque:
come il Dante dell’edizione « Diamante ». A Parigi abita a Montmartre indossa
abiti di velluto e legge Petrarca. I suoi amici sono Picasso, Kisling, Vlaminck,
Salmon, Utrillo. È l’epoca d’oro di Rue Ravignan. Apollinaire impiegato di
banca ha scritto le prime poesie di Alcools.
Jacob accatasta manoscritti inediti. Matisse ha dipinto l’Autoritratto fauve del Museo di Copenaghen di cui a
Montmartre, specie i poeti, fanno un gran parlare. Il doganiere Rousseau ancora
ignoto - ma non in Rue Ravignan - fa stampare sui biglietti da visita l’attributo
di Artista Pittore. Utrillo è appena tornato da Montmagny dove ha dipinto
paesaggi e chiese che non riesce a vendere a trenta franchi il pezzo. Ma il più
sorprendente di tutti è Picasso. Dal ’96 al 1901, epoca del suo arrivo, ha rifatto
velocemente gli impressionisti. Paesaggi notturni alla Pissarro, acque e
macchie alla Monet, ortaggi alla Manet. Ha rifatto Van Gogh. Ha rifatto i
maggiori e i minori. Scene di Boulevards alla Steinlen
con carrozze cani e lampade ad arco. Interni alla Vuillard pieni di rampicanti.
Ristoranti, balli, caffè-concerto, prostitute, bigliardi, tutto il repertorio
di Toulouse-Lautrec: Lautrec mescolato a Goya. Nei mendicanti della Parigi 1900
riapparivano i fantasmi mistici di Theotocopuli. E tutto questo
straordinariamente vivo, vivace, arrogante, contradditorio. Dal 1902 al ’6
Picasso ha dato fondo alla meravigliosa leggenda degli arlecchini e dei
saltimbanchi. Ha dipinto Le Marchand de Gui, Les jeunes
Acrobates, Jeune fille à la chevelure, Femme à
l’éventail, il ritratto di Gertrude Stein. Le
Demoiselles d’Avignon sono dello
stesso 1906 epoca dell’arrivo di Modigliani a Parigi. È una tela capitale per
la storia dell’arte moderna e preannuncia quello che due anni dopo sarà il
cubismo. Modigliani non si estranea da questi fermenti. È troppo sensibile e
inquieto per non accorgersi cosa avviene intorno, anche se la sua inquietudine
non dipende dalle convinzioni. Comunque il contatto con spiriti forti e attivi,
le loro ricerche, l’aria stessa che respira tutto serve a renderlo attento.
Riesamina quello che ha visto e comincia a diluire certe sue fisime
estetizzanti. Ora vede anche Botticelli con un altro occhio. Ha modificato le
letture. Il libro di capezzale è sempre Dante. Nelle giornate buone legge
Petrarca agli amici del Sacro Cuore come aveva fatto prima con quelli di
Firenze e di Venezia. Ha scoperto Ronsard. E poi Mallarmé, Rimbaud, i
parnassiani, i simbolisti; infine Lautréamont di cui sa brani a memoria. È più
incline agli abbandoni che alla logica. Impulsivo malinconico tenero è di volta
in volta casto e dissoluto. Gli spiriti aerei della poesia trovano in Modigliani
un terreno più propizio delle polemiche diurne e notturne coi pittori circa il
trattamento della forma, la costruzione, i cubi. Si interessa a quello che
fanno; ne stima molti; spesso è battagliero, qualche volta sarcastico. Lui così
mite e delicato può essere anche furioso. E non solo quando beve, e beve
gagliardo. Lavora poco e quel poco lo distrugge. Sarcastico con gli altri non è
certo clemente con se stesso. Quello a cui aspira è diverso da ciò che si
dipinge in Rue Ravignan e dintorni. Il colore dei fauves così com’esce dal tubetto e incollato
alla tela non è affar suo. E neanche le strutture dei cubisti. Non si tratta di
impianto o d’esecuzione: è il suo ideale che è diverso. È la mancanza di
adattamento alle formule, la mancanza di talento promiscuo. Umano, troppo
umano? Sarà il suo limite. Ma non bisogna avere fretta. È una maturazione
piuttosto lenta e faticosa. Attendiamo e vedremo come in questo limite Modigliani
si brucerà.
In un periodo in
cui tutti operano calcoli e vanno oltre le tre dimensioni in cui il paesaggio è
avvitato e la natura morta agli albori di una rivoluzione, Modigliani non
dipinge né un paesaggio né uno, natura morta. Le schegge di Mediterraneo che
Matisse di ritorno dalla riviera sottopone agli amici nel Convento degli
Uccelli, Rue de Sèvres, lo incantano. Ma tutto quel cobalto gli ricorda
Rimbaud. Non problemi pittorici dunque, ma allusioni poetiche. La
corrispondenza di Modigliani dal ’6 al ’9, le poche lettere che ci sono
pervenute sono ricche di citazioni: Rimbaud e Baudelaire i nomi più frequenti.
Dei pittori ne ammira due, Picasso e il Doganiere. Di Picasso usufruisce le
modelle. Ma mentre Picasso lavora duro Modigliani si distrae. È bello come
Davide. Gli amici per la sua eleganza lo chiamano « il principe ». Eleganza d’anima
ha questo principe di Gerusalemme che anche stracciato e affamato sembra uscire
dal Cantico dei Cantici. Le donne l’adorano. Sono le parigine che ha dipinto
trent’anni prima Lautrec davanti allo zinco dei bistrò: le stesse dei racconti
di George Moore. Una Bisanzio floreale per il giovane Davide che tiene in onore
fa Regina Teodora. I pochi disegni che conosciamo di questo periodo sono di
scarso interesse. Modigliani pregusta tra le modelle che un giorno diventeranno
quadri quello che sarà il suo inferno. Nell’amore mescola troppe cose e cerca
la melodia nella linea.
Bisogna
attendere la partecipazione di Modigliani al Salone degli Indipendenti del 1910
per trovare nel Violoncellista un sicuro punto
di partenza. L’influenza di Cézanne non è sottolineata come nella tela del Mendicante di Livorno - l’unica dipinta da Modigliani
nel breve soggiorno in Italia durante il 1909. Nel Violoncellista lo spazio è meno suscettibile di
divisioni plastiche e i valori costruttivi appaiono di uno docilità atta più a
ricevere la vibrazione dei toni che a far spicco e peso di per se stessi. Vi
troviamo esplicati il principio del suo colore e della sua linea. Ci sono le
sue gamme e le sue terre; e velature come rugiade. Terra d’ombra pei contorni e
terra verde per le ombre. E i rossi: il rosso cupo, il rosso fluido e profondo
che traspare sotto i bruni; il bruno Van Dyck, il verde smeraldo, il nero e la
terra di Siena. L’accenno alle lacche come il principio di un canto appena
affiorato. E intorno alla figura l’aria incantata, quei sussurri di rosso sul
verde replicati come in una eco. L’angolo acuto è sensibile a ulteriori
impieghi e azzardi; ma quella che sarà la sua impostazione successiva il Violoncellista l’annunzio e la conferma.
L’incontro di
Modigliani con l’arte negra è avvenuto l’anno prima della partecipazione al
Salone degli Indipendenti. Picasso e Matisse sono stati gli iniziatori e ognuno
ne ha fatto l’esperienza del resto affascinante, e per diversi aspetti
istruttiva. Modigliani ha scolpito quattro o cinque teste: ovuli chiusi in una
plastica limpida a due dimensioni. L’attività di Modigliani scultore va intesa
come esperienza stilistica, infatti la sua pittura ne ha tratto giovamento e le
cariatidi dipinte nello stesso periodo ce lo confermano. È una reazione al languore
che ogni tanto interviene nella sua concisa grafia. Esempio tipico il Nudo doloroso (1908) dove insieme a residui di
origine letteraria si avvertono riflessi di Klimt e di Secessione. Dal primo
cartone delle cariatidi la reazione è manifesta: la grafia cessa di essere la
scrittura elegante di un disegno fine a se stesso. La linea oscillante è
decisamente trasformata in curva e la curva in sagoma. Gli ovuli dello scultore
riappaiono agganciati in una materia più sensibile. L’astrazione è meno
condensata anche se si procede per riassunti ed eliminazioni. La sagoma è il
limite entro il quale la costruzione si sviluppa e si suggella: la sua
principale funzione è di contenere gli sviluppi che va prendendo la forma
costretta in uno spazio ridotto. Ma anche l’espressione strutturale più tesa
non raggiunge l’impiego che ne fanno i cubisti. Entro la sagoma Modigliani va
introducendo profili appena percettibili, curve che appaiono e svaniscono come
filamenti di musica. Elimina dai pesi l’ombra e le costruzioni diventano
trasparenti nella flessione. Il contorno è netto; nelle cariatidi dipinte nel
1913 la forma è sottolineata da puntini come d’imbastitura. Ma è la fine dell’astrazione
e la cariatide va maggiormente precisando la sua origine umana. Nelle sagome di
terra rossa si possono leggere lineamenti friabili e occhi. Sta per nascere
Venere. La venere di una nuova mitologia. Un essere trasparente e malinconico,
una forma precisa e larvale.
La Pianista: il titolo è Madame H. devant le Piano. Credo si
tratti di Beatrice Hasting la poetessa inglese che Modigliani conobbe a Parigi
nel 1914, la Beatrice del papier
collé
datato 1915. Sulla cronaca degli spettacoli il profilo di Beatrice. La fronte
sotto il colbacco forma una linea col naso e la bocca, una perpendicolare su
cui poggia un grande occhio socchiuso. L’incontro con Beatrice Hasting ha diverse
influenze: la vita randagia di Modigliani trova nella poetessa una compagna
fanatica: è una delle maggiori consumatrici d’oppio del quartiere. Ma è anche
una modella eccezionale. Con Beatrice Modigliani semplifica e porta all’estrema
purezza il suo disegno. Il chiaroscuro diventa blando sino ad estinguersi nei
fogli posteriori. Il contorno è il segno percettibile di una vibrazione che può
cessare o continuare. Qualcuno cita Rodin: ma Modigliani non ha preoccupazioni
anatomiche e il suo disegno è limpido ma statico: l’immagine epurata da ogni
pregiudizio chiaroscurale e descrittivo. Quando si parla di evocazione spesso
si fraintende. Modigliani evoca con un rapporto continuo tra linea e forma.
Mancano i numeri intermedi che hanno contribuito al risultato. Ma dove trovare
questi numeri se non nel progressivo sviluppo dei suoi fogli? Dai ritratti a
matita di Moder Branteska ai profili di Beatrice Hasting c’è un sommario di
eliminazioni. I nudi che disegna con Beatrice sono appena mormorati. Eliminati
gli spessori dell’intera orchestra negro è rimasto un flauto. E di questo
flauto una sola nota, la tenera. Tra i molti dipinti e disegni ispirati da
Beatrice nel giro di tre anni quello che più ricorda la Pianista è Tête de femme au chapeau: potrebb’essere
uno studio preliminare. Il volto di Beatrice generalmente allungato qui è
sferico e i lineamenti si identificano col ritratto successivo. Il disegno
tradotto nel dipinto si elettrizza: un rapido fuoco l’attraversa. La pennellata
è veloce e affastella: si sente il crostone degli Impressionisti maciullato
dalla spatola. Il cappello è verde come la rana. E la faccia rossa come la
crosta della luna. All’altezza delle spalle, un poco più in basso, la tastiera
del pianoforte col suo mosso e scintillante paesaggio. L’aria è pregna di
musica. La Regina Teodora nell’ultima incarnazione? Antonio Mancini e Ravenna.
I ritratti di
Beatrice Hasting si susseguono: acquerelli, olio e matita grassa, guazzi; ma il
colore, qualunque sia la tecnica, torna ad essere trasparente. Tornano gli
impasti sulla scala dei verdi e dei bruni, i profili incastrati sotto le fronti
che vengono in avanti, gli ovali degli occhi nell’ovale più grande del volto,
la bocca prominente come una mandorla chiusa. E il collo alto che continua la
linea del mento. L’ultimo ritratto di Beatrice Hasting ha la data del ’16.
Dello stesso anno sono quelli di Deleu e di Lepoutre, il secondo ritratto di
Paul Guillaume: una costruzione di angoli che si intercettano con piani in
successione. Modigliani vi ha impiegato una massa di neri di difficile manovra:
il rosa il verde il grigio non rallentano la solidità dei neri e creano accordi
intermedi usufruendo degli angoli su cui poggiano. Attraverso questi angoli e
questi piani la flessione curvilinea determina la composizione. Ma non per
ragioni strettamente costruttive come in Cézanne. A tale proposito Lionello
Venturi in una breve nota chiarisce la posizione del nostro: « Se si guarda a Modigliani
e all’arte che lo ha immediatamente preceduto, egli è impensabile senza l’impressionismo
ed è essenzialmente fuori dell’impressionismo. Inoltre lo sviluppo della sua
linea sembra riporti sul piano molti elementi creati per la profondità, e
quindi egli consideri come scopo dell’arte il valore decorativo. E poi ci si
accorge che non è affatto così, e che le sue linee non si sviluppano mai sopra
un medesimo piano, e realizzano in un’apparenza di superficie una visione a tre
dimensioni. Se cioè si assume in Cézanne il simbolo della visione costruttiva
in profondità, e in Monet il simbolo della visione decorativa in superficie, si
sente che Modigliani è lontano dall’uno e dall’altro, e ch’egli parla un
diverso linguaggio... Il sentimento della linea ideale ha preceduto l’esecuzione
della linea materiale... ». Codesto sentimento è rintracciabile sin dalle prime
opere. Ma in gradi diversi sì evolve nella medesima direzione anche quando
sembra sviata e sopraffatta da altre esigenze. Nei momenti di minore impegno
diventa maniera e si esaurisce in una elegante metafora. L’impianto invece
resta immutato. Una parete di fondo. Una parete dall’intonaco delicato capace
di armonizzare le più lievi congiunzioni. Su questo schermo sensibile
Modigliani muove le verticali stabilendo un ordine di cadenza e le fa
coincidere secondo la disposizione ritmica delle figure. A volte la parete
finisce in angolo acuto, altre volte è scanalata da linee o suddivisa in
riquadri. Come nelle iconi bizantine, specie in alcuni ritratti (vedi il
Kisling della raccolta Jesi) compone caratteri nello stile lapidario. Ma è un
gioco e non si ripete spesso. Se lo sfondo non è una parete sarà una porta. Una
porta chiusa. È forse quella del paradiso? Un capolavoro lo conferma: Ragazzo dalla giubba blu. Chi vi si
appoggia si inazzurra, si allunga e diventa straordinariamente trasparente come
se le evaporazioni del rosa dei rossi e del turchino combinati in una miscela
fatata cancellassero la parte pesante e terrestre che è in ognuno. L’operazione
raggiunge particolare intensità quando davanti a una di queste porte sta in
piedi o seduta la patetica Madame Hebuterne, l’ultima compagna di Modigliani. L’allungamento
si produce con un ritmo parallelo e crescente come in una fuga: i lineamenti
attraversano l’ovulo da parte a parte. Le ciglia si inarcano in un disegno
appena percettibile e gli occhi sono a fior di pelle; alta è la fronte e
altissimi i capelli che compongono una fumata.
Le linee salgono
dalle curve in una superficie che le riflette di spazio in spazio, in quella
profondità modulata dove i profili labili si imprimono. Il concerto delle
tonalità raggiunge angelici abbandoni. Il colore trasmette la sua febbre e i
suoi balsami. Tutto è vivo e ardente: porte e piastrelle, i muri, l’intonaco,
il mobile d’angolo con la scodella in ombra. Chi siede trasmette la febbre alle
sedie. Non importa se è il ragazzo del portinaio Cocteau o la signora Cekowska.
Non importa se è un nudo che prende fuoco. È la prima o l’ultima giornata dell’Apocalisse?
Nell’Autoritratto del 1919 è
seduto anche lui, Modigliani, e ci mostra la tavolozza come Veronica il
fazzoletto con l’impronta di Cristo. Modigliani sembra dall’altra parte
distante e socchiuso. Non ha più niente da bruciare. Modigliani è all’ultima
stazione della sua arte e della sua vita.
Dal 1916 al 1919
dipinge le sue maggiori opere. È ansioso di trasmettere l’ultimo messaggio, la
trasfigurazione che va compiendo in quel mistero figurato che è la sua pittura.
Nel disegno della Donna seduta ha trascritto:
« La vita è un dono: dei pochi ai molti, di coloro che sanno e hanno a coloro
che non sanno e che non hanno ». Negli ultimi anni questo dono aumenta di
grazia di intensità e di numero. Le immagini sono le stesse: le stesse donne
sulle stesse sedie. E questi occhi aperti che continuano a guardarci senza
vederci. E queste bocche che sembrano appartenere tutte alla medesima faccia.
Fioraie e lattaie, giovani fantesche, la prostituta, la cioccolattaia. Gli
amici e le mogli degli amici. Ha dipinto uno dopo l’altro Kisling, Jacob, il
messicano Rivera, Cocteau, Baranowski. Ha dipinto Soutine col volto di santo
martire rappezzato. Ha dipinto il fedele Zborowski. E quelli che non ha potuto
dipingere li ha disegnati nei caffè di Montparnasse: Cendrars, Friesz, Lipchitz,
Zadkine, Fabiano De Castro, Paresce. E tanti Zborowski in sogno. Fra le nuove
immagini ci sono le bellissime di Madame Hebuterne dipinte tra il ’17 e il ’18:
Gli occhi blu, Donna di profilo, La Moglie dell’Artista. Della stessa epoca sono i ritratti della Cekowska (l’ultimo, in una raccolta privata a
Milano, è del ’19) e della signora Menier (raccolta Cardazzo), della signora
Zborowski replicata più volte. Dal ’17 al ’18 Modigliani inizia e porta a
compimento la serie dei Nudi: se la composizione è orizzontale le curve saranno
ampie e distese e la linea sarà chiusa da angoli. La funzione dei suoi Nudi
sembra che non abbia altro scopo al di là di questa solenne distensione e
accensione. Il Nudo coricato della raccolta
Feroldi rappresenta la massima temperatura nella sua gamma di rossi. Il
presentimento della fine lo rende apprensivo e fanatico ma anche pieno di
misericordia. Perdona a sé e perdona agli altri. Ma basta un solo bicchiere per
ubriacarlo. Quante volte Zborowski non l’ha raccolto all’alba sui marciapiedi
del Boulevard Raspail? Da Salmon a Carco c’è tutta una letteratura dedicata
alle notti di Modigliani, ai suoi eccessi, alla sua miseria, alla sua fine nell’Ospedale
della Carità. «ITALIA, CARA ITALIA!» furono le
parole che disse prima di morire.
Il giorno dopo
la sua morte il suicidio di Madame Hebuterne non commosse soltanto gli artisti
di Montparnasse ma tutta Parigi: Amedeo Modigliani, il peccatore che non poté
diventare angelo fu assunto in gloria dagli uomini.
RAFFAELE CARRIERI
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