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giovedì 5 maggio 2016

Max Jacob, dalle pagine del Diario di Jean Cocteau

Max Jacob, di Marie Laurencin, 1907

Letta l’autobiografia di Misia Sert - di cui racconterò a breve in un altro post - subito ho ripreso il Diario (1942-1945) di Jean Cocteau, un testo ricco di aneddoti sui suoi amici - e Misia per Cocteau lo era.
Pagina dopo pagina, nel Diario ritrovo lettere e appunti su Max Jacob …e l’occasione è buona per trascriverli nella loro interezza. Li trovate qui di seguito, note redazionali comprese (ne ho eliminate alcune, non indispensabili per la comprensione del testo).
Buona lettura.

Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Titolo originale: Journal 1942-1945
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Revisione e note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Éditions Gallimard 1989
Gruppo Ugo Mursia Editore 1993


pp. 42-44, lunedì 6 aprile1942
Lunga lettera di Max Jacob. Mi racconta le sue innumerevoli difficoltà con la Gestapo.

5 aprile 1942
Gioia della tua lettera

Caro Jean,
appena giunta la tua lettera, ecco i ricordi degli ultimi mesi... Una lettera di dodici pagine!... Anzi, un libro di trecento pagine, solo per i miei rapporti con la Gestapo... o i viaggi ripetuti per far vidimare la carta d’identità con un freddo di x gradi, senza treno, senza auto né bicicletta, per poi sentirmi dire: «Non abbiamo ordini!» (ed io: «ordini o ordine?») oppure «Si! ma ci vuole il timbro e non lo abbiamo ancora!» Il timbro è quello che porta la parola ebreo. E quindi scene commoventi, i funzionari mi stringono la mano come al cimitero... ecc.
Con la Gestapo, è incominciata nel giugno ’40. Faccio, il cicerone nella Basilica:[1] «Lei è ebreo! - Ah! lei arriva proprio a puntino, dice un prete. E il migliore parrocchiano del curato. - Non fa niente, è la razza che conta, ecc.». In quel mentre, la Gestapo va a chiedere al parroco perché ha un cicerone ebreo. Il curato risponde che non ha un cicerone, e che bisogna amare il proprio prossimo, qualunque esso sia. Nel frattempo, fui avvisato dal parroco stesso che c’era un piantone alla porta della Basilica per sorvegliare i miei movimenti. Ingenua polizia! Mi hanno aspettato tre giorni, e, non vedendomi più, si sono stancati. Quindici giorni dopo, un generale viene a visitare la Basilica... Suona al presbiterio e chiede una guida. «Il parroco non c’è!» dice la donna di servizio (o meglio la deliziosa signorina che compie quel lavoro per dedizione). «E quando non c’è?...» chiede il generale. «Quando non c’è, sono io che la faccio visitare. - Lei? - Io o qualche altro parrocchiano.» Questo «qualche altro parrocchiano» ha salvato tutto. Affare chiuso.
Il 4 novembre scorso, arriva in camera mia un signore con gli occhiali e le spalle spioventi (tipo Edmond Jaloux), con un soldato. «Polizia! - Molto lieto! Si avvicini al fuoco! Fa tanto freddo, vero? - Cosa scrive? - Peccato che io non abbia i miei libri... Ma ora che ci penso, ho almeno una brochure di versi. Mi permette di regalargliela? Vorrebbe una dedica? Mi dica il suo nome. Grazie!... Cosa le potrei scrivere?... Con simpatia? Perché no? Scriverò “ricordo”.» Poi comincia a farmi delle domande.
«Tenga, signore! Ecco un libriccino (il libro di Hubert Fabureau su di me), che risponde in anticipo a tutto: data di nascita, biografia, analisi delle opere. Non glielo regalo, perché ne ho una copia soltanto e vede come può essere utile!! - Quindi lei è conosciuto. - Oh!!! Ho alcuni amici!». Dopo di che, vede delle lettere sul tavolo, pronte per essere spedite, e me le porge perché le apra... e le legge chiedendo spiegazione di ogni riga. Annota gli indirizzi, poi bruscamente arriva allo scopo della visita: «E stata qui una signora ebrea? - Ah si!! la signorina Bernstein... Ma non è ebrea... si chiama Martin. - Non si tratta di quella! - Allora... non vedo... Ah! Parla della moglie di un ebreo assunto per la vendemmia... Ma questo non mi riguarda... Interroghi piuttosto la proprietaria!». La proprietaria sale e comincia una stupida chiacchierata: «Vuole che la arresti?». Cerco di intervenire ma egli fa con le dita un gesto a forma di becco, che significa: «Lei! Non si muova!». Se n’è andato portandosi via le carte della mia povera padrona.
Questo mese, lei era a Orléans, è entrata dalla Gestapo e ha reclamato le sue carte. Gliele hanno rese rimproverandola di avere nomi ebrei nella sua rubrica. Non hanno detto niente su di me. Affare chiuso.
La mia famiglia è meno fortunata. Un cognato morto al campo di Compiègne! A mio fratello hanno preso la bottega in rue Legendre. E il resto della famiglia minacciato... Prevedo un tempo in cui la mia pietosa pittura darà da vivere a tutti. E perché no? Sai che Paul Petit è a Fresnes? Traduce là, un mistico tedesco del tredicesimo secolo, Maestro Eckhart, e sembra prendere con misticismo anche la sua avventura.
Ti sbagli, caro Jean; non faccio niente, o quasi. Actualités éternelles era il titolo di una raccolta che non è mai stata pubblicata e non lo sarà mai, perché non ho diritto di pubblicare (che fortuna!). Non ti sapevo sotto l’occhio dei Barbari. Mi avevano detto soltanto che la tua ultima commedia era proibita. Non sei il solo a vivere con gli uscieri. Sarah Bernhardt non ha mai vissuto diversamente! -: «Mi mandi l’usciere!» diceva a mio padre, antiquario a Quimper quando andava da lui a comprare: «Non pago mai se non agli uscieri!» (sic). Si, vorrei proprio vederti, ma non ci sono più macchine e tu non prenderai la corriera. Leggo qualche volta le tue stupende cronache in «Comœdia», quando Salmon mi manda il giornale. Leggo anche la filosofia di Philippe Lavastine: ha fatto progressi! e Audiberti che ha certe trovate in quel guazzabuglio: «Il surrealismo è un tuono a forma di ponte».
Charles Trenet è passato di qui! Ciò riflette una gran considerazione per me. Flaubert scrive: «Emma serviva i vasetti di marmellata rovesciati su un piatto, il che rifletteva una certa considerazione per Bovary». È proprio così... Ma se avessi visto quei contadini correre dietro agli autografi!
Molti «giovani», ma assolutamente niente di nuovo nei poemi. Penso che Béalu de Montargis - ti ricordi? - ti abbia spedito Mémoires de l’ombre.
«In fin dei conti! Questi ostaggi! Non sono altro che comunisti o ebrei!», frase pronunciata davanti a me dalla dama di un ufficiale dei miei cari amici. Definisco questa frase complicità in assassinio.
Gli anni che verranno saranno propizi alla poesia, ma il ’42 è un anno terribile per tutti: Saturno.[2]
Misia è morta o l’ho solo sognato?
Prego per te. Del resto la disgrazia porta con sé la fortuna.
Un ricordo a Jean Marais. Un ricordo a Picasso e anche a Lifar, a cui volevo bene.


pp. 107-109, giovedì 25 giugno 1942
La mostra di Vuillard. Vuillard è squisito quando non è troppo aneddotico. Generalmente supera l’aneddoto (come Vermeer). C’è un quadro magnifico: se fosse soltanto una forma di gioiello, sarebbe un Albert Guillaume.[3]
Carré, nel suo studio, mi mostra dei Dufy, dei Braque, dei Van Dongen. Ciò che mi manca, è la conversazione. Da tempo non avevo potuto «parlare di pittura». Credo anche di essermi lasciato trascinare, dalla vertigine della parola, a dire troppo quello che penso. Braque[4] e il suo perfetto gusto da modista povero. Dufy, l’irrigatore del teatro. Fa i suoi otto davanti alla ribalta e non fa altro. Van Dongen, vecchio bebè che gioca con gli oggetti da regalo. Era un pittore. La vita stramba di casinò lo relega tra Picabia e Domergue. Allego la lettera di Max Jacob[5] in cui cita il lavoro su Picasso che Picasso mi aveva letto e che Éluard ha fatto fare senza dire di chi fosse la scrittura. Il silenzio di Éluard continua (furioso per il Salut à Breker).

24 giugno (1942)
Saint-Benoît
Caro Jean,
sono un’anticaglia in vetrina (i vetri della Loira). «Ha conosciuto Victor Hugo (sic)? Cos’era Gambetta?» Mi sembra di essere la moglie di Alphonse Daudet che chiamava Zola, Émile e Maupassant, Guy. In questo momento, e dopo la Pentecoste, è così tutti i giorni. Ma M. Bourla[6] è veramente molto aggiornato - e decisamente intelligente, e credo che sarà un amico. Mi piacciono i volti dalle vaghe onde grigie: sono molto rari.
Hai visto quel consulto grafologico di M. Raymond Trillat su Picasso? Incredibile: «Ama intensamente e uccide l’oggetto del suo amore». Ho soltanto poche righe comunicatemi da Éluard. Trillat non sapeva di chi fosse la scrittura: «Mania delle armi per difendere dagli altri il suo povero essere» (la parola povero mi lascia un po’ perplesso). «Attinge tutto dalla tristezza... Per alcuni un pazzo creatore, per altri, sublime... Appartiene ad un altro tempo, a un altro mondo: cavalleresco, pazzo, infantile. Nietzsche che bacia un cavallo sulle narici. Baudelaire superlativamente buono». M. Trillat viene consultato, all’ospedale Necker, per la rieducazione dei bambini a sviluppo ritardato.
Quando mi annoio, prendo un tuo libro a caso (sic) - e anche quando non mi annoio...
Straordinario il dito del piede rotto! Come hai fatto? E molto tempo fa, la statua è stata completamente rotta a martellate, rifatta, rotta di nuovo.
Vorrei che tu conoscessi la mia affittacamere. Quando ha saputo che Salmon era là, ha schiuso la porta del salotto (di velluto d’Utrecht verde scuro con i quadri nell’ombra), e si è fermata, come per caso, sulla porta socchiusa. Il salotto è sempre chiuso ed è stato aperto solo per quella visione estatica.
Parlando di Nizza, Vichy, Pau, Ginevra, dice: «In quelle città, il treno di Parigi arriva sempre verso le quattro». È originale, non trovi?
«Rouen è sulla Loira? (sic) Le Mans è in Bretagna.» Pare che lei fosse, da giovane, una bellezza. Col pretesto delle nevralgie, si avvolge la testa in parecchi scialli verdi, gialli, ecc. Vive in un miraggio, immagina che le sue fattorie (vere, ma nessuno paga l’affitto), siano zeppe di legna da bruciare e si stupisce anche, sinceramente, che non gliela portino a casa. In realtà, se io non comprassi la legna da un negoziante di legname (che del resto non la consegna a domicilio), passeremmo inverni interi senza riscaldamento - cosa che, d’altra parte, non si è ancora verificata.
Ha degli impeti di furore e di indignazione veramente comici.
Credo che M. Bourla tornerà oggi o domani: gli parlerò di Guillaume, di Fabio, ecc., di Jules, di Pierre, di Arthur, di Paul, di Léon, di Léon-Paul e di Amédée (Modigliani).
Ti abbraccio
Max


p. 1111, mercoledì 1° luglio 1942
Cena con Valéry e Mondor.
Mondor racconta che gli hanno portato uno che si era tagliato il pene. Gli chiede perché: “Basta con le stronzate”, risponde. Valéry racconta una battuta molto bella di uno spagnolo accecato da una palla da pelota basca: “Buona notte, signori!”. Valéry mi prega, se scrivo a Max, di inviargli i suoi saluti. Ieri il giovane B.,[7] di ritorno da Saint-Benoît, diceva: “Max chiama Valéry abominevole imbroglione”. Valéry l’intelligente non si rende conto nemmeno per un attimo di un certo tipo di intelligenza come il nostro.


pp. 285-286, Notte di Natale
Max Jacob mi scrive da Saint-Benoît-sur-Loire:

Saint-Benoît, 15 dicembre
Caro Jean,
se ti cresce la barba bianca, la mia cresce ultra... Come avrei voluto riceverti sulle verdi distese del mio paese di trent’anni fa, nel Finistère di Pierre Loti.[8] Hanno fatto saltare le rocce per costruire dei block-notes.[9] Ma ci sono ancora le ostriche! Resiste un po’ troppo lo stile Sarah Bernhard! e la pittura a spatola che tu per primo hai fatto notare e con tanta precisione: i pittori di Quimperlé[10] pensano di essere rivoluzionari, dipingendo con la spatola come Dunoyer de Segonzac.[11] Non porteranno via le ostriche né la pittura con la spatolaccia, la stessa con cui si spalmavano il burro e il lardo. In questo mese, il Finistère è la Scozia! Non la Scozia dei viaggi in calesse, con i laghi e gli abeti, ma la Scozia dei «laghisti»,[12] i poeti che imitavano Béranger o Greuze: i bretoni sono Greuze o Béranger sullo sfondo di nebbie madreperlacee e colline nere. D’estate, il tuo angolo di Névez è una stampa giapponese - il fiume di Pont-Aven. Riceverti davanti alla prefettura di Quimper sul muschio e nel mio bosco di faggi vent’anni fa! Ciò nonostante, vorrei che andassi a Quimper: non ho più nessuno là, mia sorella è morta di dolore (sic) e mio fratello è stato portato in Germania, in una prigione non si sa dove. Se tu dovessi avere qualche noia amministrativa o altro (Dio sa che ci si può aspettare di tutto) rivolgiti al dottor Tuzet, medico della prefettura, 16 rue Vis. È un uomo spiritoso e tenero, influente, ingegnoso e grafologo geniale, padre di un’adorabile famiglia. Vallo a trovare anche senza seccature... Ti saprà dire di certo un luogo dove potrai trovare degli approvvigionamenti (come si dice con una parola sinistra).
Per vie impreviste, ricevo spesso tue notizie. Montargis va a Parigi dove bazzica gente informata. Montargis, cioè Béalu! Anche Jean-François mi dà tue notizie. Io lo chiamo l’Amico di professione!
Sì, Raymond[13] è nel mio libro da messa. Prego per lui, anche quando non lo nomino, cioè raramente.
Mi parli di una stufa che fuma. Qui ho della legna - in questo momento, improvvisamente, in abbondanza -, ma i ceppi grossi, così deliziosi in poesia, in fatto di comfort sono del tutto negativi: non bruciano, ci vorrebbero dei pezzetti, della carbonella, dei pampini di vigna, come dice una signora di qui. Devo alimentare il fuoco continuamente, ho le mani nere e niente acqua calda per lavarle - nemmeno acqua fredda: tre brocche sono bucate e lo stagnino non vuole lavorare per l’affittacamere, odiata da tutti. Se la carta è sporca, lo è per tutti questi motivi.
Credo che tu sia nel paese dei Polignac. Credo che Jean sia morto.
Il tuo amico fedele,
Max

Max ha ragione. Dalla baronessa, siamo tra Greuze e Béranger. I Botrel, che abitano a Pont-Aven, sono tra Béranger e Greuze. Mi pento di non aver approfittato dell’invito di Mme Botrel. Sarebbe stato bellissimo scrivere una pièce in casa loro. E inoltre ci si scalda e si mangia in maniera superlativa.


p. 298, 22 gennaio 1944
Saint-Benoît-sur-Loire (Loiret)
20 gennaio 1944
Carissimo Jean,[14]
mi dicono che Sacha Guitry può far liberare della gente. Caro Jean, vivo in un’angoscia insopportabile. Con l’idea della sofferenza redentrice ho sopportato la distruzione della casa paterna a Quimper, la morte di mia sorella maggiore, quella di mio cognato e l’incarcerazione di mio fratello. Ora, hanno arrestato mia sorella, la mia sorella prediletta. Ne morirò.
Quella cara bambina è stata la mia compagna d’infanzia. Le disgrazie le piovono addosso da quando si è sposata: suo marito è morto nel campo di Compiègne per le torture; aveva un figlio solo, che da anni è in manicomio. Andava a trovarlo tutte le domeniche; le tolgono anche questa dolorosa consolazione, è una cosa disumana; è infernale. Ho scritto al vescovo di Orléans, all’arcivescovo di Sens, scriverò al superiore del monastero della Pierre-qui-vire.
Ti chiedo scusa di disturbarti nel tuo lavoro. Ma a chi posso chiedere aiuto? Ho scritto a Misia. Se scrivessi a Sacha Guitry, la mia lettera verrebbe messa tra quelle delle solite richieste. Con una tua parola, Sacha la prenderà in considerazione.
È troppo! Se non avessi il Signore, penserei al suicidio. Penso al monastero, ma mi deciderò a questo atto estremo quando mio fratello e mia sorella saranno liberati.
Mio fratello si chiama Gaston Jacob, è stato arrestato il 16 dicembre 1942 e condotto non si sa dove. È nato il 14 maggio 1875 a Quimper, da dove non si è mai allontanato. Era un tranquillo commerciante, né povero né ricco.
Mia sorella è la moglie di Lucien Lévy, abitava al 18 di rue Oberkampf. (È nata il 24 agosto 1885 o 1886.) Il marito aveva una piccola impresa artigiana al 16 di rue de la Pierre-Levée (XIe). Lei lo aiutava. La loro unica impiegata mi ha scritto una lettera commovente.
La mia famiglia risiedeva in Bretagna da più di cent’anni ed era benvoluta.
Cosa dire? Grido aiuto, ti chiamo in aiuto e ti abbraccio. Prego per te.
Max
Cosa sarà del mio povero nipote, mal nutrito e solo nella sua cella di malato a Villejuif?


p. 310, 2 febbraio 1944
Saint-Benoît-sur-Loire
Loiret
2 febbraio 1944
Caro Jean,[15]
non ti ringrazio. Sapevo… conosco il tuo cuore. Ho fiducia solo in te.
Sacha Guitry, contattato da Marcelle Bourlier, ha detto che se fossi stato io, avrebbe potuto far qualcosa. Vuol dire dunque che si può far qualcosa. Sì, hai ragione: è un incubo. La mia vita è in una fossa nera.
Ho voglia di scrivere a Chanel. Potresti andare a trovarla. Mia sorella potrebbe essere salvata se vi ci mettete tutti e due.
Sì, Jean, Girardoux! Tu, lui e Picasso, le uniche persone intelligenti che io abbia conosciuto. Ma non dirlo agli altri.
Il tedio di Saint-Benoît con quel muro per orizzonte: la prigione di mia sorella! Una colomba, un agnello in prigione! E suo figlio da quindici anni in manicomio. Andarlo a trovare alla domenica era la sua unica consolazione.
Ti voglio e ti abbraccio
- sì -
Max


p. 323, 25 febbraio 1944
Lettera di Béalu (Montargis). Max Jacob arrestato a Saint-Benoît, portato di certo a Orléans. È atroce.[16]


pp. 323-324, lunedì 28 febbraio 1944
Ieri, bisognava salvare Max. Ho visto Sacha che mi ha indicato i passi da compiere,[17] Sert agirà tramite l’ambasciata di Spagna, Prade vuol portare un mio breve scritto su Max al responsabile delle prigioni ebree (pare che il responsabile mi ammiri e conosca Max).
Buone speranze.
Stamattina ho spedito il testo. Prade telefona e dice che il testo è magnifico e che mi spedisce delle orchidee. Tutte queste orchidee che mi mandano serviranno da modelli per il quadro del Palais-Royal.

per salvare max jacob...[18]

«[...] Con Apollinaire, egli ha inventato una lingua che domina la nostra lingua ed esprime le profondità.
«È stato il trovatore di quel torneo straordinario in cui Picasso, Matisse, Braque, Derain, De Chirico, si affrontano e lottano con i loro stemmi colorati.
«Da molto tempo, Max ha rinunciato al mondo e si nasconde all’ombra di una chiesa.
«La gioventù francese gli vuol bene e gli dà del tu, lo rispetta e lo ammira come un esempio. Io poi ne ammiro la nobiltà, la saggezza, la grazia inimitabile, il prestigio segreto, la «musica da camera», per dirla con Nietzsche.
«Aggiungerò ancora che Max Jacob è cattolico da vent’anni. I sottoscritti si permettono di segnalare alle autorità competenti il caso molto particolare di Max Jacob.
«Non ha quasi contatti con il mondo, se non attraverso le innumerevoli amicizie di giovani poeti e grandi protagonisti della letteratura francese. L’età e il comportamento, così nobile e degno, spinge il nostro cuore e lo spirito a fare quest’estremo tentativo per liberarlo e salvare una vita che ci sta a cuore. Jean Cocteau.»


pp. 325-326, martedì 29 febbraio 1944
Ricevuta la lettera di Max qui allegata.[19]

Caro Jean,
ti scrivo da un vagone con la compiacenza dei gendarmi che ci sorvegliano. Presto arriveremo a Drancy. E tutto quello che ho da dirti.
Sacha, quando gli hanno parlato di mia sorella, ha detto: «Se fosse lui, potrei fare qualcosa!»
Ebbene, sono io.
Ti abbraccio
Max

Prade mi telefona che abbiamo buone possibilità di farcela.


pp. 327-328, 15 marzo 1944
Max Jacob è morto.[20] È spaventoso. Ieri sera alle dieci, Prade mi ha telefonato dicendo che la sua istanza di liberazione era stata firmata.[21] La notizia della morte arriva stamattina dal sindaco di Saint-Benoît. La lettera qui allegata che Max mi aveva scritto dal treno è di quindici giorni fa.
La notizia della morte deve avere impiegato dieci giorni ad arrivare. Quindi il dramma si è svolto in otto giorni. Ma quale dramma? Era malato?
Ho telefonato a Picasso e a Pierre Reverdy.[22]
Prade farà fare delle ricerche del corpo.
Max era un angelo, un bambino come Saint-Pol Roux.[23]
Perdita inestimabile.


p. 328, marzo 1944
Prade ha finalmente trovato la tomba di Max a Ivry. Vi ha fatto mettere una croce, un recinto e una targhetta. Dopo la guerra, Max sarà trasferito a Saint-Benoît, ma bisogna salvaguardare la tomba. Max aveva fatto testamento e aveva nominato suo esecutore testamentario Pierre Colle. Pierre è venuto a trovarmi. Domani andrà a Saint-Benoît e cercherà di salvare le carte e le poesie. (Ne aveva inviate alcune copie a parecchie persone.) Max è arrivato a Drancy quindici giorni fa, in ottima salute, abituato a uno stile di vita durissimo, al digiuno, al freddo. Sei giorni dopo era morto. Misia Sert fa dire una messa a Saint-Roch.[24] Pierre ha visto il fratello di Max, simile a Max, meno tutto. È l’unico ancora libero della famiglia.


p. 394, 3 dicembre 1944
Ieri, a pranzo da Pierre Colle, visto i manoscritti di Max. Riempiono tre armadi. Dal 1925, Max non aveva pubblicato nulla e tutti i giorni scriveva per ore. Ce n’è abbastanza per pubblicare cento volumi di poesie e di prose. Éluard mi ha chiesto di curare con lui la scelta delle poesie. È impossibile: bisognerebbe dedicarvi un anno di lavoro.
Una storia di Max.
Una signora diventata ricca con i pianoforti (Mme Steinway) non poteva sentir parlare di pianoforti. Cena in un castello nei dintorni di Montargis. Si avvertono tutti: nessuno deve parlare di pianoforte. La signora è contentissima. Ma, al momento della partenza, sulla scalinata esterna, la padrona di casa dice: «Aspetti, faccio portare il pianoforte».






[1] Si sa che Max Jacob viveva nascosto nell’abbazia benedettina di Fleury a Saint-Benoît-sur-Loire.
[2] Appassionato d’astrologia, Max Jacob faceva oroscopi per gli amici. Così, nel 1938, aveva messo in guardia Jean Marais contro un segno del destino degno di Lorenzaccio.
[3] Albert Guillaume (1873-1942), disegnatore, acquarellista, era considerato un pittore molto «parigino». È contemporaneo di Edouard Vuillard (1868-1940).
[4] I testi più tardivi di Cocteau su Georges Braque (1882-1963) e su Raoul Dufy (1877-1953), dimostrano meno riserve (cfr. Le Passé défini, 2, p. 160 e pp. 373-374). Kees Van Dongen (1877-1968), invece, non uscirà mai dallo spazio angusto cui lo confina quel giorno J. Cocteau: tra il mondano Jean-Gabriel Domergue (1885-1962) e il dadaista della pittura, Francis Picabia (1879-1953).
[5] Una copia dattiloscritta della lettera ci è stata trasmessa da Paul Morihien.
[6] Jean-Pierre Bourla, nato nel 1923 o 1924, aveva avuto al liceo Pasteur, nel 1941, nell’ultimo trimestre della terza liceo, J-P. Sartre come professore di filosofia e Max Jacob come consigliere poetico. Dalle memorie di Simone de Beauvoir conosciamo il suo tragico destino: spagnolo di origini ebree, fu arrestato, internato a Drancy e fucilato a vent’anni.
[7] Cocteau conosce Marcel Béalu, nato nel 1908, dal 1938. È Max Jacob che lo porta dal “cappellaio poeta” di Montargis (Le Foyer des artistes, p. 88). Nel 1941, Béalu ha pubblicato L’île au cri de silence (Cahiers de Rochefort) e Mémoires de l’ombre (Debresse) di cui Max Jacob, nella sua lettera del 2 aprile, riprodotta alle pp. 43-44, raccomanda la lettura a J. Cocteau.
[8] Da intendere piuttosto nel senso del Finistère dell’epoca di Pierre Loti (1850-1923, pseudonimo di Julien Viaud). Perché lo scrittore della Charente, ufficiale di marina, formatosi a Brest, lo descrive soltanto nel suo romanzo Pécheur d’Islande (1886), la cui storia si svolge a Paimpol. Vengono descritte anche le lande del Nord Finistère.
[9] La selezione fatta da François Sentein corregge prudentemente in «block-haus» come se non si potesse dar credito alla fantasia verbale di Max Jacob.
[10] È l’«École de Pont-Aven», che alla fine dell’Ottocento raggruppa intorno a Paul Gauguin pittori quali Émile Bernard e Paul Sérusier.
[11] André Dunoyer de Segonzac (1884-1974) faceva parte dei pittori - più numerosi degli scrittori - che avevano risposto nel 1942 all’invito dei loro colleghi tedeschi. Come paesaggista, Segonzac è più noto per gli acquerelli che per le pitture a spatola.
[12] Poeti inglesi, che all’inizio dell’Ottocento vivevano nella regione dei laghi, nel Nord-Est dell’Inghilterra e tra i quali i più noti furono Wordsworth e Coleridge. Questa pochade critica, che comprende lo chansonnier Pierre-Jean de Béranger (1780-1857) e risale fino al pittore Jean-Baptiste Greuze (1725-1805), richiederebbe molti commenti.
[13] Radiguet, che Max Jacob conobbe poco prima di Jean Cocteau, cfr. n. 1 p. 129.
[14] Sebbene Cocteau non la menzioni nel suo diario, abbiamo inserito questa lettera, di cui Paul Morihien ci ha consegnato la versione dattiloscritta, probabilmente con la data in cui è stata ricevuta. Con le grida di allarme del 2 e del 28 febbraio (Cfr. p. 310 e 325), la lettera segna una tappa commovente del calvario di Max.
[15] Sebbene non vi sia nessun riferimento, inseriamo nel diario questa lettera, che preannuncia in modo così tragico quella del 28 febbraio. (Cfr. p. 325.)
[16] Lettera non ritrovata. Max Jacob viene arrestato dalla Gestapo il 24 febbraio, alle 11 del mattino, mentre stava uscendo dalla messa in cui aveva appena servito nella cripta della basilica. Lo conducono dapprima nella prigione di Orléans. In questa circostanza, R. Lannes resta commosso dall’atteggiamento di Cocteau: «Dà prova di un cuore più grande di quanto gli abbia mai visto» (Frammento del diario, in data del 27 febbraio 1944).
[17] Jean Cocteau accumula tutte le possibilità di successo: Sacha Guitry e soprattutto José Maria Sert hanno già dato prova della loro influenza, l’uno nel salvare Tristan Bernard, l’altro, Maurice Goudeket. In quanto a Georges Prade, magnate della stampa e consigliere comunale di Parigi, persiste sino in fondo in una «collaborazione attiva», secondo l’espressione di H. Michel (Paris allemand cit., p. 162). Ricordiamo che nel consiglio comunale sedeva accanto a Darquier de Pellepoix, noto antisemita. Jean Luchaire, come il suo direttore, era amico di Otto Abetz.
[18] Abbiamo inserito qui, e con un titolo che non tradisce Cocteau, un lungo frammento della petizione firmata da parecchi amici di Max, tra i quali A. Salmon, H. Sauguet, S. Guitry, P. Colle. Paul Morihien, in bicicletta, era andato in giro per tutta Parigi a raccogliere le firme. Cfr. É. Charles-Roux, L’Irrégulière, ou Mon itinéraire Chanel, Parigi, Grasset, 1974, p. 548.
[19] Il 28, Max fu trasferito da Orléans a Drancy. Si sa che durante il tragitto aveva redatto almeno altre due lettere, che uno dei gendarmi della scorta imbucherà alla gare d’Austerlitz: una a Paul Bonet, rilegatore d’arte, per il quale Max miniava i libri, l’altra al canonico Albert Fleureau, parroco di Saint-Benoît-sur-Loire. Lucien Scheler pubblica l’ultima lettera in La Grande Espérance des poètes, 1940-1945 (éd. Temps actuel, 1982, p. 270).
[20] Il 4 marzo 1944, alle 21.30, nel suo sessantottesimo anno... Il 2, Max, per una congestione polmonare, fu inviato all’infermeria del campo. «Il male progrediva rapidamente e Max si lasciò morire, mormorando: “Sono con Dio”» (Lucien Scheler, op. cit., p. 270). Il diario di R. Lannes conferma che la triste notizia arrivò a Cocteau il 15 marzo.
[21] Un’uguale consapevolezza di un inutile successo da parte spagnola, secondo Misia Sert: «L’ordine di liberazione che Sert finì con l’ottenere, giunse troppo tardi». (A. Gold e R. Fizdale, Misia, cit., p. 342.) La «Lettera qui allegata», è quella di p. 325.
[22] Il poeta Pierre Reverdy (1889-1960) conosce Max Jacob e J. Cocteau dal 1916. Tutti e tre parteciparono alle attività artistiche di «Lyre et Palette» a Montparnasse, ed è M. Jacob che presenta Reverdy al pubblico, quando lancerà la rivista «Nord-Sud». Come M. Jacob, P. Reverdy viveva proteggendosi in un’abbazia benedettina: Solesmes.
[23] Membro dell’Académie Mallarmé, il poeta Saint-Pol Roux (Paul-Pierre Roux, 1861-1940) era stato la prima vittima della barbarie, nel giugno 1940, nel suo castello di Coceilian, vicino a Camaret.
[24] Il diario di R. Lannes permette di datarla. Fu celebrata il 21 marzo. «L’atmosfera è “da catacomba”. Per poco, si sarebbero sentiti ruggire i leoni alle porte». Lannes nota la presenza di Éluard, Sauguet, Herrand, Marchat, Salmon, Pierre Colle, Misia Sert, Chanel, Mollet. A questa lista, aggiungiamo quella di L. Scheler: «C’erano Cocteau e Picasso - compagni del Bateau-Lavoir - Dora Maar, Pierre Reverdy, [...], François Mauriac, [...], Paulhan e Raymond Queneau» (op. cit., p. 336). R. Lannes conclude così il racconto della cerimonia: «Quando ci siamo ritrovati con Yanette Délétang-Tardif, Colle e Salmon, nella camera di Jean Cocteau, poco dopo, abbiamo misurato con tristezza lo spazio cruento che la scomparsa di Max aveva lasciato tra noi». (Frammento datato 21 marzo 1944.)

mercoledì 6 gennaio 2016

Amedeo Modigliani visto da Raffaele Carrieri (1947)



Ce ne sono stati tanti prima: con più genio, con più sapienza, con più resistenza, con più speranza. Ce ne sono stati tanti che sono andati più in là prima e dopo. Ma Modigliani è uno. Modigliani è indivisibile. La sua storia comincia e finisce con lui. E anche la sua pittura. Modigliani è l’unità dell’anima. Era un peccatore rovinoso, di quelli che bruciano e tutto consumano per arrivare al centro dell’anima. Il colore era l’emanazione di questo centro: la sua radice e la sua estasi. Quando s’è voluto teorizzare sulle sue gamme ne è venuto fuori un riassunto da laboratorio. Per raggiungere l’ansietà dei rossi Modigliani ha vissuto sul bruciato. Ha peccato. Ha espiato. Ha peccato ancora. Come Santa Caterina cercava il suo rosso. Era un presentimento e una vocazione. Le donne erano fuoco. La pittura era fuoco. Parigi come Babilonia la capitale del male. La vedeva rossa come i Senesi la città del demonio. E rosse le facce delle donne dai cui occhi l’anima dipartita alitava nell’aria arrossandola. Quando Modigliani consumò l’ultimo rosso morì. Morì all’ospedale a trentasei anni. Come i peccatori che vissero troppo poco gli mancò il tempo di essere assunto in qualità di angelo nella gloria del cielo.

Della Scuola di Parigi non ha la variabilità degli stili né l’intemperanza. Non si affanna dietro i sistemi. Non ha un sistema. Non ha idee da imporre né da servire. Non è come Picasso un panorama. È un isolato come Rouault di cui ha lo stesso amore per le tonalità calde. Ma il suo bruciato non proviene da avventure luministiche. Non è una mano erudita come Dérain.
Prima degli Impressionisti a Parigi ha visto i Veneziani a Venezia. E prima di Cézanne ha visto Giotto e i padri di Giotto a Ravenna. Ha visto la Regina Teodora. Ha visto le Madonne sedute più alte dei troni. Ha visto salire la linea dei musaicisti del sesto secolo e dentro la linea il rosso e l’oro. Ha visto di queste linee l’immobilità, la trascendenza, la maestà delle ripetizioni. Attraverso queste linee ha visto gli Apostoli elevarsi e trasformarsi in essenze geometriche. La curva tendeva a rompere gli slanci. Rappresentava la prostrazione e il peccato. La curva era il Vecchio Testamento.
L’espressione monodica è fondamentale nello stile di Modigliani. Al fondo del suo essere c’è qualcosa di orientale non soltanto per l’origine semitica. La tendenza al simbolo e al motivo, la ripetizione, la forma chiusa e il colore. Quel ritmare e cadenzare. L’eleganza del segno ininterrotto che quasi raggiunge la stilizzazione. Quel caricare la linea e duttilizzarla sino alle curve più melodiose. La stessa insistenza di alcune effusioni. La puntualità dei ritorni e lo stretto numero del suo repertorio ridotto a una tipologia unica e facilmente riconoscibile. La fedeltà alla figura umana elevata a immagine. E questa immagine sempre ardente e piena di grazia che varia e si riproduce nella medesima fissità. La linea è intangibile. La struttura del corpo umano è l’orizzonte sensibile di questo orientale temperato in Toscana.


Nato a Livorno l’84 ultimati gli studi ginnasiali si dà alla pittura. L’inizio è modesto. È allievo di un tardo macchiaiolo, il Micheli. Frequenta l’Accademia di Firenze, e per un periodo più breve quella di Venezia. A Livorno nello studio del Micheli si lega d’amicizia con un giovine pittore, Oscar Ghiglia. Nel 1902 abitano insieme a Firenze in via San Gallo. L’anno prima Modigliani per la salute malferma è consigliato dai medici a trascorrere l’inverno a Capri. Fra i due si stabilisce una corrispondenza.
Alla fine dell’inverno del 1901 scrive da Capri a Ghiglia: « ... Io sono qua a Capri (un luogo delizioso, tra parentesi) a far la cura. E son quattro mesi adesso che non ho concluso niente, che accumulo materiali. Presto andrò a Roma, poi a Venezia per l’Esposizione... faccio l’inglese. Ma verrà anche il momento di sistemarmi a Firenze probabilmente e di lavorare... ma nel buon senso della parola, vale a dire a dedicarmi con fede (testa e corpo) a organizzare e sviluppare tutte le mie impressioni tutti i germi di idee che ho raccolto in questa pace, come in un giardino mistico ». Dall’Hôtel Pagano, dove alloggia, poco tempo dopo passa ad Anacapri alla villa Bitter: « Carissimo Oscar, ancora a Capri. Avrei voluto aspettare a scriverti da Roma: partirò fra due o tre giorni, ma il desiderio di trattenermi un poco con te mi fa pigliare la penna. Credo al tuo cambiamento sotto l’influenza di Firenze. Crederai tu al mio viaggiando in questi posti? Capri, il cui solo nome bastava a risvegliare nella mia mente un tumulto d’immagini di bellezza e di voluttà antica, mi appare adesso come un paese essenzialmente primaverile. Nella bellezza classica del paesaggio è un sentimento - per me - onnipresente e indefinibile di sensualità. E pur sempre (anche malgrado gli inglesi che invadono col Baedeker) un fiore smagliante e venefico che sorga sul mare. Non so ancora precisamente quando sarò a Venezia, del resto te lo farò sapere. Desidererei vederla insieme a te. Micheli? Oh Dio, quanti ce ne sono a Capri, reggimenti ». Alla vigilia di Pasqua scrive da Roma allo stesso: « Caro amico, io scrivo per sfogarmi con te e per affermarmi dinanzi a me stesso.Io stesso sono in preda allo spuntare e al dissolversi di energie fortissime. Io vorrei invece che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza che scorresse con gioia sulla terra. Tu sei ormai quello a cui posso dir tutto: ebbene io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera. Io ho l’orgasmo, ma l’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa ininterrotta dell’intelligenza... Un borghese oggi mi ha detto, mi ha insultato, che io, ossia il mio cervello oziava. Mi ha fatto molto bene. Ci vorrebbe un avvertimento simile tutte le mattine al proprio risveglio: ma essi non ci posson capire e non posson capire la vita... Io attenderò a una nuova opera e dacché io l’ho precisata e formulata mille altre aspirazioni vengono fuori dalla vita quotidiana. Vedi la necessità del metodo e dell’applicazione. Cerco inoltre di formulare con la maggior lucidità la verità sull’arte e sulla vita che ho raccolto sparse nelle bellezze di Roma, e come me ne è balenato anche il collegamento intimo, cercherò di rivelarlo e di ricomporne la costruzione e quasi direi l’architettura metafisica per crearne la mia verità sulla vita, sulla bellezza e sull’arte ». È un ragazzo che scrive, un ragazzo di diciassette anni, un po’ fanatico ma riflessivo. Ancora da Roma a Ghiglia: « Perché scrivere mentre si sente? Sono tutte evoluzioni necessarie attraverso le quali dobbiamo passare e che non hanno importanza altro che per il fine a cui conducono. Credimi, non è che l’opera arrivata ormai al suo completo stadio di gestazione, impersonata e tratta dalla pastoia di tutti i particolari incidenti che hanno contribuito a fecondarla e a produrla che val la pena di essere espressa e tradotta con lo stile. L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto a estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia la via aperta a ciò che non si può né si deve dire. Ogni grande opera d’arte verrebbe considerata come qualunque altra opera della natura. Prima di tutto nella sua realtà estetica e poi al di fuori del suo sviluppo e del mistero della sua creazione, di ciò che ha agitato e commosso il suo creatore... Vorrei parlarti della differenza che corre tra le opere di quegli artisti che hanno più comunicato e vissuto colla natura e quelli di oggigiorno che cercano ispirazione negli studi e vogliono educarsi nelle città d’arte ». Se i critici d’oltralpe avessero conosciuto queste lettere il ritratto di Modigliani sarebbe meno composito.
Ultima lettera da Roma a Oscar Ghiglia: « ... Noi - scusa il noi - abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al disopra - bisogna dirlo e crederlo - della loro morale... Il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno. La bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i più belli sforzi dell’anima. Ogni ostacolo sormontato segna un accrescimento della nostra volontà, produce il rinnovamento necessario e progressivo della nostra aspirazione. Abbi il culto sacro - io lo dico per te e per me - per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza. Cerca di provocarli, di perpetrarli, questi stimoli fecondi, perché soli possono spingere l’intelligenza al suo massimo potere creatore. Per quelli lì noi dobbiamo combattere. Possiamo noi racchiuderli nella cerchia della loro morale angusta? Affermati e sormontati sempre. L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre a abbattere tutto quel che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi ». Trascuriamo il fondo letterario, le letture eccitanti - Zaratustra era di fresca nomina - resterà un carattere nobile, anche se le aspirazioni sono vaghe; spirito coltivato per la sua giovane età, poco più che un fanciullo. A parte queste lettere, ignoriamo le sue prove di studio a Firenze. E anche dopo Firenze, del soggiorno di Modigliani a Venezia non ci è pervenuto nulla: non un segno, non un dipinto. Che i propositi aggressivi siano venuti meno al contatto della realtà?


Nel 1906 Modigliani lascia l’Italia e si stabilisce a Parigi. S’è portato dietro le fotografie dei maestri italiani che predilige. Dei Senesi la Santa Chiara di Simone Martini e Le Marie al Sepolcro di Buccio. Dei Toscani quelli del primo Rinascimento. Dei Veneziani Carpaccio. Di Carpaccio la tricromia delle Due cortigiane, acquistata a Venezia al tempo dell’Accademia e che lo segue attaccata alle pareti ovunque: come il Dante dell’edizione « Diamante ». A Parigi abita a Montmartre indossa abiti di velluto e legge Petrarca. I suoi amici sono Picasso, Kisling, Vlaminck, Salmon, Utrillo. È l’epoca d’oro di Rue Ravignan. Apollinaire impiegato di banca ha scritto le prime poesie di Alcools. Jacob accatasta manoscritti inediti. Matisse ha dipinto l’Autoritratto fauve del Museo di Copenaghen di cui a Montmartre, specie i poeti, fanno un gran parlare. Il doganiere Rousseau ancora ignoto - ma non in Rue Ravignan - fa stampare sui biglietti da visita l’attributo di Artista Pittore. Utrillo è appena tornato da Montmagny dove ha dipinto paesaggi e chiese che non riesce a vendere a trenta franchi il pezzo. Ma il più sorprendente di tutti è Picasso. Dal ’96 al 1901, epoca del suo arrivo, ha rifatto velocemente gli impressionisti. Paesaggi notturni alla Pissarro, acque e macchie alla Monet, ortaggi alla Manet. Ha rifatto Van Gogh. Ha rifatto i maggiori e i minori. Scene di Boulevards alla Steinlen con carrozze cani e lampade ad arco. Interni alla Vuillard pieni di rampicanti. Ristoranti, balli, caffè-concerto, prostitute, bigliardi, tutto il repertorio di Toulouse-Lautrec: Lautrec mescolato a Goya. Nei mendicanti della Parigi 1900 riapparivano i fantasmi mistici di Theotocopuli. E tutto questo straordinariamente vivo, vivace, arrogante, contradditorio. Dal 1902 al ’6 Picasso ha dato fondo alla meravigliosa leggenda degli arlecchini e dei saltimbanchi. Ha dipinto Le Marchand de Gui, Les jeunes Acrobates, Jeune fille à la chevelure, Femme à l’éventail, il ritratto di Gertrude Stein. Le Demoiselles d’Avignon sono dello stesso 1906 epoca dell’arrivo di Modigliani a Parigi. È una tela capitale per la storia dell’arte moderna e preannuncia quello che due anni dopo sarà il cubismo. Modigliani non si estranea da questi fermenti. È troppo sensibile e inquieto per non accorgersi cosa avviene intorno, anche se la sua inquietudine non dipende dalle convinzioni. Comunque il contatto con spiriti forti e attivi, le loro ricerche, l’aria stessa che respira tutto serve a renderlo attento. Riesamina quello che ha visto e comincia a diluire certe sue fisime estetizzanti. Ora vede anche Botticelli con un altro occhio. Ha modificato le letture. Il libro di capezzale è sempre Dante. Nelle giornate buone legge Petrarca agli amici del Sacro Cuore come aveva fatto prima con quelli di Firenze e di Venezia. Ha scoperto Ronsard. E poi Mallarmé, Rimbaud, i parnassiani, i simbolisti; infine Lautréamont di cui sa brani a memoria. È più incline agli abbandoni che alla logica. Impulsivo malinconico tenero è di volta in volta casto e dissoluto. Gli spiriti aerei della poesia trovano in Modigliani un terreno più propizio delle polemiche diurne e notturne coi pittori circa il trattamento della forma, la costruzione, i cubi. Si interessa a quello che fanno; ne stima molti; spesso è battagliero, qualche volta sarcastico. Lui così mite e delicato può essere anche furioso. E non solo quando beve, e beve gagliardo. Lavora poco e quel poco lo distrugge. Sarcastico con gli altri non è certo clemente con se stesso. Quello a cui aspira è diverso da ciò che si dipinge in Rue Ravignan e dintorni. Il colore dei fauves così com’esce dal tubetto e incollato alla tela non è affar suo. E neanche le strutture dei cubisti. Non si tratta di impianto o d’esecuzione: è il suo ideale che è diverso. È la mancanza di adattamento alle formule, la mancanza di talento promiscuo. Umano, troppo umano? Sarà il suo limite. Ma non bisogna avere fretta. È una maturazione piuttosto lenta e faticosa. Attendiamo e vedremo come in questo limite Modigliani si brucerà.
In un periodo in cui tutti operano calcoli e vanno oltre le tre dimensioni in cui il paesaggio è avvitato e la natura morta agli albori di una rivoluzione, Modigliani non dipinge né un paesaggio né uno, natura morta. Le schegge di Mediterraneo che Matisse di ritorno dalla riviera sottopone agli amici nel Convento degli Uccelli, Rue de Sèvres, lo incantano. Ma tutto quel cobalto gli ricorda Rimbaud. Non problemi pittorici dunque, ma allusioni poetiche. La corrispondenza di Modigliani dal ’6 al ’9, le poche lettere che ci sono pervenute sono ricche di citazioni: Rimbaud e Baudelaire i nomi più frequenti. Dei pittori ne ammira due, Picasso e il Doganiere. Di Picasso usufruisce le modelle. Ma mentre Picasso lavora duro Modigliani si distrae. È bello come Davide. Gli amici per la sua eleganza lo chiamano « il principe ». Eleganza d’anima ha questo principe di Gerusalemme che anche stracciato e affamato sembra uscire dal Cantico dei Cantici. Le donne l’adorano. Sono le parigine che ha dipinto trent’anni prima Lautrec davanti allo zinco dei bistrò: le stesse dei racconti di George Moore. Una Bisanzio floreale per il giovane Davide che tiene in onore fa Regina Teodora. I pochi disegni che conosciamo di questo periodo sono di scarso interesse. Modigliani pregusta tra le modelle che un giorno diventeranno quadri quello che sarà il suo inferno. Nell’amore mescola troppe cose e cerca la melodia nella linea.


Bisogna attendere la partecipazione di Modigliani al Salone degli Indipendenti del 1910 per trovare nel Violoncellista un sicuro punto di partenza. L’influenza di Cézanne non è sottolineata come nella tela del Mendicante di Livorno - l’unica dipinta da Modigliani nel breve soggiorno in Italia durante il 1909. Nel Violoncellista lo spazio è meno suscettibile di divisioni plastiche e i valori costruttivi appaiono di uno docilità atta più a ricevere la vibrazione dei toni che a far spicco e peso di per se stessi. Vi troviamo esplicati il principio del suo colore e della sua linea. Ci sono le sue gamme e le sue terre; e velature come rugiade. Terra d’ombra pei contorni e terra verde per le ombre. E i rossi: il rosso cupo, il rosso fluido e profondo che traspare sotto i bruni; il bruno Van Dyck, il verde smeraldo, il nero e la terra di Siena. L’accenno alle lacche come il principio di un canto appena affiorato. E intorno alla figura l’aria incantata, quei sussurri di rosso sul verde replicati come in una eco. L’angolo acuto è sensibile a ulteriori impieghi e azzardi; ma quella che sarà la sua impostazione successiva il Violoncellista l’annunzio e la conferma.
L’incontro di Modigliani con l’arte negra è avvenuto l’anno prima della partecipazione al Salone degli Indipendenti. Picasso e Matisse sono stati gli iniziatori e ognuno ne ha fatto l’esperienza del resto affascinante, e per diversi aspetti istruttiva. Modigliani ha scolpito quattro o cinque teste: ovuli chiusi in una plastica limpida a due dimensioni. L’attività di Modigliani scultore va intesa come esperienza stilistica, infatti la sua pittura ne ha tratto giovamento e le cariatidi dipinte nello stesso periodo ce lo confermano. È una reazione al languore che ogni tanto interviene nella sua concisa grafia. Esempio tipico il Nudo doloroso (1908) dove insieme a residui di origine letteraria si avvertono riflessi di Klimt e di Secessione. Dal primo cartone delle cariatidi la reazione è manifesta: la grafia cessa di essere la scrittura elegante di un disegno fine a se stesso. La linea oscillante è decisamente trasformata in curva e la curva in sagoma. Gli ovuli dello scultore riappaiono agganciati in una materia più sensibile. L’astrazione è meno condensata anche se si procede per riassunti ed eliminazioni. La sagoma è il limite entro il quale la costruzione si sviluppa e si suggella: la sua principale funzione è di contenere gli sviluppi che va prendendo la forma costretta in uno spazio ridotto. Ma anche l’espressione strutturale più tesa non raggiunge l’impiego che ne fanno i cubisti. Entro la sagoma Modigliani va introducendo profili appena percettibili, curve che appaiono e svaniscono come filamenti di musica. Elimina dai pesi l’ombra e le costruzioni diventano trasparenti nella flessione. Il contorno è netto; nelle cariatidi dipinte nel 1913 la forma è sottolineata da puntini come d’imbastitura. Ma è la fine dell’astrazione e la cariatide va maggiormente precisando la sua origine umana. Nelle sagome di terra rossa si possono leggere lineamenti friabili e occhi. Sta per nascere Venere. La venere di una nuova mitologia. Un essere trasparente e malinconico, una forma precisa e larvale.

La Pianista: il titolo è Madame H. devant le Piano. Credo si tratti di Beatrice Hasting la poetessa inglese che Modigliani conobbe a Parigi nel 1914, la Beatrice del papier collé datato 1915. Sulla cronaca degli spettacoli il profilo di Beatrice. La fronte sotto il colbacco forma una linea col naso e la bocca, una perpendicolare su cui poggia un grande occhio socchiuso. L’incontro con Beatrice Hasting ha diverse influenze: la vita randagia di Modigliani trova nella poetessa una compagna fanatica: è una delle maggiori consumatrici d’oppio del quartiere. Ma è anche una modella eccezionale. Con Beatrice Modigliani semplifica e porta all’estrema purezza il suo disegno. Il chiaroscuro diventa blando sino ad estinguersi nei fogli posteriori. Il contorno è il segno percettibile di una vibrazione che può cessare o continuare. Qualcuno cita Rodin: ma Modigliani non ha preoccupazioni anatomiche e il suo disegno è limpido ma statico: l’immagine epurata da ogni pregiudizio chiaroscurale e descrittivo. Quando si parla di evocazione spesso si fraintende. Modigliani evoca con un rapporto continuo tra linea e forma. Mancano i numeri intermedi che hanno contribuito al risultato. Ma dove trovare questi numeri se non nel progressivo sviluppo dei suoi fogli? Dai ritratti a matita di Moder Branteska ai profili di Beatrice Hasting c’è un sommario di eliminazioni. I nudi che disegna con Beatrice sono appena mormorati. Eliminati gli spessori dell’intera orchestra negro è rimasto un flauto. E di questo flauto una sola nota, la tenera. Tra i molti dipinti e disegni ispirati da Beatrice nel giro di tre anni quello che più ricorda la Pianista è Tête de femme au chapeau: potrebb’essere uno studio preliminare. Il volto di Beatrice generalmente allungato qui è sferico e i lineamenti si identificano col ritratto successivo. Il disegno tradotto nel dipinto si elettrizza: un rapido fuoco l’attraversa. La pennellata è veloce e affastella: si sente il crostone degli Impressionisti maciullato dalla spatola. Il cappello è verde come la rana. E la faccia rossa come la crosta della luna. All’altezza delle spalle, un poco più in basso, la tastiera del pianoforte col suo mosso e scintillante paesaggio. L’aria è pregna di musica. La Regina Teodora nell’ultima incarnazione? Antonio Mancini e Ravenna.
I ritratti di Beatrice Hasting si susseguono: acquerelli, olio e matita grassa, guazzi; ma il colore, qualunque sia la tecnica, torna ad essere trasparente. Tornano gli impasti sulla scala dei verdi e dei bruni, i profili incastrati sotto le fronti che vengono in avanti, gli ovali degli occhi nell’ovale più grande del volto, la bocca prominente come una mandorla chiusa. E il collo alto che continua la linea del mento. L’ultimo ritratto di Beatrice Hasting ha la data del ’16. Dello stesso anno sono quelli di Deleu e di Lepoutre, il secondo ritratto di Paul Guillaume: una costruzione di angoli che si intercettano con piani in successione. Modigliani vi ha impiegato una massa di neri di difficile manovra: il rosa il verde il grigio non rallentano la solidità dei neri e creano accordi intermedi usufruendo degli angoli su cui poggiano. Attraverso questi angoli e questi piani la flessione curvilinea determina la composizione. Ma non per ragioni strettamente costruttive come in Cézanne. A tale proposito Lionello Venturi in una breve nota chiarisce la posizione del nostro: « Se si guarda a Modigliani e all’arte che lo ha immediatamente preceduto, egli è impensabile senza l’impressionismo ed è essenzialmente fuori dell’impressionismo. Inoltre lo sviluppo della sua linea sembra riporti sul piano molti elementi creati per la profondità, e quindi egli consideri come scopo dell’arte il valore decorativo. E poi ci si accorge che non è affatto così, e che le sue linee non si sviluppano mai sopra un medesimo piano, e realizzano in un’apparenza di superficie una visione a tre dimensioni. Se cioè si assume in Cézanne il simbolo della visione costruttiva in profondità, e in Monet il simbolo della visione decorativa in superficie, si sente che Modigliani è lontano dall’uno e dall’altro, e ch’egli parla un diverso linguaggio... Il sentimento della linea ideale ha preceduto l’esecuzione della linea materiale... ». Codesto sentimento è rintracciabile sin dalle prime opere. Ma in gradi diversi sì evolve nella medesima direzione anche quando sembra sviata e sopraffatta da altre esigenze. Nei momenti di minore impegno diventa maniera e si esaurisce in una elegante metafora. L’impianto invece resta immutato. Una parete di fondo. Una parete dall’intonaco delicato capace di armonizzare le più lievi congiunzioni. Su questo schermo sensibile Modigliani muove le verticali stabilendo un ordine di cadenza e le fa coincidere secondo la disposizione ritmica delle figure. A volte la parete finisce in angolo acuto, altre volte è scanalata da linee o suddivisa in riquadri. Come nelle iconi bizantine, specie in alcuni ritratti (vedi il Kisling della raccolta Jesi) compone caratteri nello stile lapidario. Ma è un gioco e non si ripete spesso. Se lo sfondo non è una parete sarà una porta. Una porta chiusa. È forse quella del paradiso? Un capolavoro lo conferma: Ragazzo dalla giubba blu. Chi vi si appoggia si inazzurra, si allunga e diventa straordinariamente trasparente come se le evaporazioni del rosa dei rossi e del turchino combinati in una miscela fatata cancellassero la parte pesante e terrestre che è in ognuno. L’operazione raggiunge particolare intensità quando davanti a una di queste porte sta in piedi o seduta la patetica Madame Hebuterne, l’ultima compagna di Modigliani. L’allungamento si produce con un ritmo parallelo e crescente come in una fuga: i lineamenti attraversano l’ovulo da parte a parte. Le ciglia si inarcano in un disegno appena percettibile e gli occhi sono a fior di pelle; alta è la fronte e altissimi i capelli che compongono una fumata.
Le linee salgono dalle curve in una superficie che le riflette di spazio in spazio, in quella profondità modulata dove i profili labili si imprimono. Il concerto delle tonalità raggiunge angelici abbandoni. Il colore trasmette la sua febbre e i suoi balsami. Tutto è vivo e ardente: porte e piastrelle, i muri, l’intonaco, il mobile d’angolo con la scodella in ombra. Chi siede trasmette la febbre alle sedie. Non importa se è il ragazzo del portinaio Cocteau o la signora Cekowska. Non importa se è un nudo che prende fuoco. È la prima o l’ultima giornata dell’Apocalisse? Nell’Autoritratto del 1919 è seduto anche lui, Modigliani, e ci mostra la tavolozza come Veronica il fazzoletto con l’impronta di Cristo. Modigliani sembra dall’altra parte distante e socchiuso. Non ha più niente da bruciare. Modigliani è all’ultima stazione della sua arte e della sua vita.
Dal 1916 al 1919 dipinge le sue maggiori opere. È ansioso di trasmettere l’ultimo messaggio, la trasfigurazione che va compiendo in quel mistero figurato che è la sua pittura. Nel disegno della Donna seduta ha trascritto: « La vita è un dono: dei pochi ai molti, di coloro che sanno e hanno a coloro che non sanno e che non hanno ». Negli ultimi anni questo dono aumenta di grazia di intensità e di numero. Le immagini sono le stesse: le stesse donne sulle stesse sedie. E questi occhi aperti che continuano a guardarci senza vederci. E queste bocche che sembrano appartenere tutte alla medesima faccia. Fioraie e lattaie, giovani fantesche, la prostituta, la cioccolattaia. Gli amici e le mogli degli amici. Ha dipinto uno dopo l’altro Kisling, Jacob, il messicano Rivera, Cocteau, Baranowski. Ha dipinto Soutine col volto di santo martire rappezzato. Ha dipinto il fedele Zborowski. E quelli che non ha potuto dipingere li ha disegnati nei caffè di Montparnasse: Cendrars, Friesz, Lipchitz, Zadkine, Fabiano De Castro, Paresce. E tanti Zborowski in sogno. Fra le nuove immagini ci sono le bellissime di Madame Hebuterne dipinte tra il ’17 e il ’18: Gli occhi blu, Donna di profilo, La Moglie dell’Artista. Della stessa epoca sono i ritratti della Cekowska (l’ultimo, in una raccolta privata a Milano, è del ’19) e della signora Menier (raccolta Cardazzo), della signora Zborowski replicata più volte. Dal ’17 al ’18 Modigliani inizia e porta a compimento la serie dei Nudi: se la composizione è orizzontale le curve saranno ampie e distese e la linea sarà chiusa da angoli. La funzione dei suoi Nudi sembra che non abbia altro scopo al di là di questa solenne distensione e accensione. Il Nudo coricato della raccolta Feroldi rappresenta la massima temperatura nella sua gamma di rossi. Il presentimento della fine lo rende apprensivo e fanatico ma anche pieno di misericordia. Perdona a sé e perdona agli altri. Ma basta un solo bicchiere per ubriacarlo. Quante volte Zborowski non l’ha raccolto all’alba sui marciapiedi del Boulevard Raspail? Da Salmon a Carco c’è tutta una letteratura dedicata alle notti di Modigliani, ai suoi eccessi, alla sua miseria, alla sua fine nell’Ospedale della Carità. «ITALIA, CARA ITALIA!» furono le parole che disse prima di morire.
Il giorno dopo la sua morte il suicidio di Madame Hebuterne non commosse soltanto gli artisti di Montparnasse ma tutta Parigi: Amedeo Modigliani, il peccatore che non poté diventare angelo fu assunto in gloria dagli uomini.
RAFFAELE CARRIERI