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giovedì 5 maggio 2016

Max Jacob, dalle pagine del Diario di Jean Cocteau

Max Jacob, di Marie Laurencin, 1907

Letta l’autobiografia di Misia Sert - di cui racconterò a breve in un altro post - subito ho ripreso il Diario (1942-1945) di Jean Cocteau, un testo ricco di aneddoti sui suoi amici - e Misia per Cocteau lo era.
Pagina dopo pagina, nel Diario ritrovo lettere e appunti su Max Jacob …e l’occasione è buona per trascriverli nella loro interezza. Li trovate qui di seguito, note redazionali comprese (ne ho eliminate alcune, non indispensabili per la comprensione del testo).
Buona lettura.

Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Titolo originale: Journal 1942-1945
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Revisione e note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Éditions Gallimard 1989
Gruppo Ugo Mursia Editore 1993


pp. 42-44, lunedì 6 aprile1942
Lunga lettera di Max Jacob. Mi racconta le sue innumerevoli difficoltà con la Gestapo.

5 aprile 1942
Gioia della tua lettera

Caro Jean,
appena giunta la tua lettera, ecco i ricordi degli ultimi mesi... Una lettera di dodici pagine!... Anzi, un libro di trecento pagine, solo per i miei rapporti con la Gestapo... o i viaggi ripetuti per far vidimare la carta d’identità con un freddo di x gradi, senza treno, senza auto né bicicletta, per poi sentirmi dire: «Non abbiamo ordini!» (ed io: «ordini o ordine?») oppure «Si! ma ci vuole il timbro e non lo abbiamo ancora!» Il timbro è quello che porta la parola ebreo. E quindi scene commoventi, i funzionari mi stringono la mano come al cimitero... ecc.
Con la Gestapo, è incominciata nel giugno ’40. Faccio, il cicerone nella Basilica:[1] «Lei è ebreo! - Ah! lei arriva proprio a puntino, dice un prete. E il migliore parrocchiano del curato. - Non fa niente, è la razza che conta, ecc.». In quel mentre, la Gestapo va a chiedere al parroco perché ha un cicerone ebreo. Il curato risponde che non ha un cicerone, e che bisogna amare il proprio prossimo, qualunque esso sia. Nel frattempo, fui avvisato dal parroco stesso che c’era un piantone alla porta della Basilica per sorvegliare i miei movimenti. Ingenua polizia! Mi hanno aspettato tre giorni, e, non vedendomi più, si sono stancati. Quindici giorni dopo, un generale viene a visitare la Basilica... Suona al presbiterio e chiede una guida. «Il parroco non c’è!» dice la donna di servizio (o meglio la deliziosa signorina che compie quel lavoro per dedizione). «E quando non c’è?...» chiede il generale. «Quando non c’è, sono io che la faccio visitare. - Lei? - Io o qualche altro parrocchiano.» Questo «qualche altro parrocchiano» ha salvato tutto. Affare chiuso.
Il 4 novembre scorso, arriva in camera mia un signore con gli occhiali e le spalle spioventi (tipo Edmond Jaloux), con un soldato. «Polizia! - Molto lieto! Si avvicini al fuoco! Fa tanto freddo, vero? - Cosa scrive? - Peccato che io non abbia i miei libri... Ma ora che ci penso, ho almeno una brochure di versi. Mi permette di regalargliela? Vorrebbe una dedica? Mi dica il suo nome. Grazie!... Cosa le potrei scrivere?... Con simpatia? Perché no? Scriverò “ricordo”.» Poi comincia a farmi delle domande.
«Tenga, signore! Ecco un libriccino (il libro di Hubert Fabureau su di me), che risponde in anticipo a tutto: data di nascita, biografia, analisi delle opere. Non glielo regalo, perché ne ho una copia soltanto e vede come può essere utile!! - Quindi lei è conosciuto. - Oh!!! Ho alcuni amici!». Dopo di che, vede delle lettere sul tavolo, pronte per essere spedite, e me le porge perché le apra... e le legge chiedendo spiegazione di ogni riga. Annota gli indirizzi, poi bruscamente arriva allo scopo della visita: «E stata qui una signora ebrea? - Ah si!! la signorina Bernstein... Ma non è ebrea... si chiama Martin. - Non si tratta di quella! - Allora... non vedo... Ah! Parla della moglie di un ebreo assunto per la vendemmia... Ma questo non mi riguarda... Interroghi piuttosto la proprietaria!». La proprietaria sale e comincia una stupida chiacchierata: «Vuole che la arresti?». Cerco di intervenire ma egli fa con le dita un gesto a forma di becco, che significa: «Lei! Non si muova!». Se n’è andato portandosi via le carte della mia povera padrona.
Questo mese, lei era a Orléans, è entrata dalla Gestapo e ha reclamato le sue carte. Gliele hanno rese rimproverandola di avere nomi ebrei nella sua rubrica. Non hanno detto niente su di me. Affare chiuso.
La mia famiglia è meno fortunata. Un cognato morto al campo di Compiègne! A mio fratello hanno preso la bottega in rue Legendre. E il resto della famiglia minacciato... Prevedo un tempo in cui la mia pietosa pittura darà da vivere a tutti. E perché no? Sai che Paul Petit è a Fresnes? Traduce là, un mistico tedesco del tredicesimo secolo, Maestro Eckhart, e sembra prendere con misticismo anche la sua avventura.
Ti sbagli, caro Jean; non faccio niente, o quasi. Actualités éternelles era il titolo di una raccolta che non è mai stata pubblicata e non lo sarà mai, perché non ho diritto di pubblicare (che fortuna!). Non ti sapevo sotto l’occhio dei Barbari. Mi avevano detto soltanto che la tua ultima commedia era proibita. Non sei il solo a vivere con gli uscieri. Sarah Bernhardt non ha mai vissuto diversamente! -: «Mi mandi l’usciere!» diceva a mio padre, antiquario a Quimper quando andava da lui a comprare: «Non pago mai se non agli uscieri!» (sic). Si, vorrei proprio vederti, ma non ci sono più macchine e tu non prenderai la corriera. Leggo qualche volta le tue stupende cronache in «Comœdia», quando Salmon mi manda il giornale. Leggo anche la filosofia di Philippe Lavastine: ha fatto progressi! e Audiberti che ha certe trovate in quel guazzabuglio: «Il surrealismo è un tuono a forma di ponte».
Charles Trenet è passato di qui! Ciò riflette una gran considerazione per me. Flaubert scrive: «Emma serviva i vasetti di marmellata rovesciati su un piatto, il che rifletteva una certa considerazione per Bovary». È proprio così... Ma se avessi visto quei contadini correre dietro agli autografi!
Molti «giovani», ma assolutamente niente di nuovo nei poemi. Penso che Béalu de Montargis - ti ricordi? - ti abbia spedito Mémoires de l’ombre.
«In fin dei conti! Questi ostaggi! Non sono altro che comunisti o ebrei!», frase pronunciata davanti a me dalla dama di un ufficiale dei miei cari amici. Definisco questa frase complicità in assassinio.
Gli anni che verranno saranno propizi alla poesia, ma il ’42 è un anno terribile per tutti: Saturno.[2]
Misia è morta o l’ho solo sognato?
Prego per te. Del resto la disgrazia porta con sé la fortuna.
Un ricordo a Jean Marais. Un ricordo a Picasso e anche a Lifar, a cui volevo bene.


pp. 107-109, giovedì 25 giugno 1942
La mostra di Vuillard. Vuillard è squisito quando non è troppo aneddotico. Generalmente supera l’aneddoto (come Vermeer). C’è un quadro magnifico: se fosse soltanto una forma di gioiello, sarebbe un Albert Guillaume.[3]
Carré, nel suo studio, mi mostra dei Dufy, dei Braque, dei Van Dongen. Ciò che mi manca, è la conversazione. Da tempo non avevo potuto «parlare di pittura». Credo anche di essermi lasciato trascinare, dalla vertigine della parola, a dire troppo quello che penso. Braque[4] e il suo perfetto gusto da modista povero. Dufy, l’irrigatore del teatro. Fa i suoi otto davanti alla ribalta e non fa altro. Van Dongen, vecchio bebè che gioca con gli oggetti da regalo. Era un pittore. La vita stramba di casinò lo relega tra Picabia e Domergue. Allego la lettera di Max Jacob[5] in cui cita il lavoro su Picasso che Picasso mi aveva letto e che Éluard ha fatto fare senza dire di chi fosse la scrittura. Il silenzio di Éluard continua (furioso per il Salut à Breker).

24 giugno (1942)
Saint-Benoît
Caro Jean,
sono un’anticaglia in vetrina (i vetri della Loira). «Ha conosciuto Victor Hugo (sic)? Cos’era Gambetta?» Mi sembra di essere la moglie di Alphonse Daudet che chiamava Zola, Émile e Maupassant, Guy. In questo momento, e dopo la Pentecoste, è così tutti i giorni. Ma M. Bourla[6] è veramente molto aggiornato - e decisamente intelligente, e credo che sarà un amico. Mi piacciono i volti dalle vaghe onde grigie: sono molto rari.
Hai visto quel consulto grafologico di M. Raymond Trillat su Picasso? Incredibile: «Ama intensamente e uccide l’oggetto del suo amore». Ho soltanto poche righe comunicatemi da Éluard. Trillat non sapeva di chi fosse la scrittura: «Mania delle armi per difendere dagli altri il suo povero essere» (la parola povero mi lascia un po’ perplesso). «Attinge tutto dalla tristezza... Per alcuni un pazzo creatore, per altri, sublime... Appartiene ad un altro tempo, a un altro mondo: cavalleresco, pazzo, infantile. Nietzsche che bacia un cavallo sulle narici. Baudelaire superlativamente buono». M. Trillat viene consultato, all’ospedale Necker, per la rieducazione dei bambini a sviluppo ritardato.
Quando mi annoio, prendo un tuo libro a caso (sic) - e anche quando non mi annoio...
Straordinario il dito del piede rotto! Come hai fatto? E molto tempo fa, la statua è stata completamente rotta a martellate, rifatta, rotta di nuovo.
Vorrei che tu conoscessi la mia affittacamere. Quando ha saputo che Salmon era là, ha schiuso la porta del salotto (di velluto d’Utrecht verde scuro con i quadri nell’ombra), e si è fermata, come per caso, sulla porta socchiusa. Il salotto è sempre chiuso ed è stato aperto solo per quella visione estatica.
Parlando di Nizza, Vichy, Pau, Ginevra, dice: «In quelle città, il treno di Parigi arriva sempre verso le quattro». È originale, non trovi?
«Rouen è sulla Loira? (sic) Le Mans è in Bretagna.» Pare che lei fosse, da giovane, una bellezza. Col pretesto delle nevralgie, si avvolge la testa in parecchi scialli verdi, gialli, ecc. Vive in un miraggio, immagina che le sue fattorie (vere, ma nessuno paga l’affitto), siano zeppe di legna da bruciare e si stupisce anche, sinceramente, che non gliela portino a casa. In realtà, se io non comprassi la legna da un negoziante di legname (che del resto non la consegna a domicilio), passeremmo inverni interi senza riscaldamento - cosa che, d’altra parte, non si è ancora verificata.
Ha degli impeti di furore e di indignazione veramente comici.
Credo che M. Bourla tornerà oggi o domani: gli parlerò di Guillaume, di Fabio, ecc., di Jules, di Pierre, di Arthur, di Paul, di Léon, di Léon-Paul e di Amédée (Modigliani).
Ti abbraccio
Max


p. 1111, mercoledì 1° luglio 1942
Cena con Valéry e Mondor.
Mondor racconta che gli hanno portato uno che si era tagliato il pene. Gli chiede perché: “Basta con le stronzate”, risponde. Valéry racconta una battuta molto bella di uno spagnolo accecato da una palla da pelota basca: “Buona notte, signori!”. Valéry mi prega, se scrivo a Max, di inviargli i suoi saluti. Ieri il giovane B.,[7] di ritorno da Saint-Benoît, diceva: “Max chiama Valéry abominevole imbroglione”. Valéry l’intelligente non si rende conto nemmeno per un attimo di un certo tipo di intelligenza come il nostro.


pp. 285-286, Notte di Natale
Max Jacob mi scrive da Saint-Benoît-sur-Loire:

Saint-Benoît, 15 dicembre
Caro Jean,
se ti cresce la barba bianca, la mia cresce ultra... Come avrei voluto riceverti sulle verdi distese del mio paese di trent’anni fa, nel Finistère di Pierre Loti.[8] Hanno fatto saltare le rocce per costruire dei block-notes.[9] Ma ci sono ancora le ostriche! Resiste un po’ troppo lo stile Sarah Bernhard! e la pittura a spatola che tu per primo hai fatto notare e con tanta precisione: i pittori di Quimperlé[10] pensano di essere rivoluzionari, dipingendo con la spatola come Dunoyer de Segonzac.[11] Non porteranno via le ostriche né la pittura con la spatolaccia, la stessa con cui si spalmavano il burro e il lardo. In questo mese, il Finistère è la Scozia! Non la Scozia dei viaggi in calesse, con i laghi e gli abeti, ma la Scozia dei «laghisti»,[12] i poeti che imitavano Béranger o Greuze: i bretoni sono Greuze o Béranger sullo sfondo di nebbie madreperlacee e colline nere. D’estate, il tuo angolo di Névez è una stampa giapponese - il fiume di Pont-Aven. Riceverti davanti alla prefettura di Quimper sul muschio e nel mio bosco di faggi vent’anni fa! Ciò nonostante, vorrei che andassi a Quimper: non ho più nessuno là, mia sorella è morta di dolore (sic) e mio fratello è stato portato in Germania, in una prigione non si sa dove. Se tu dovessi avere qualche noia amministrativa o altro (Dio sa che ci si può aspettare di tutto) rivolgiti al dottor Tuzet, medico della prefettura, 16 rue Vis. È un uomo spiritoso e tenero, influente, ingegnoso e grafologo geniale, padre di un’adorabile famiglia. Vallo a trovare anche senza seccature... Ti saprà dire di certo un luogo dove potrai trovare degli approvvigionamenti (come si dice con una parola sinistra).
Per vie impreviste, ricevo spesso tue notizie. Montargis va a Parigi dove bazzica gente informata. Montargis, cioè Béalu! Anche Jean-François mi dà tue notizie. Io lo chiamo l’Amico di professione!
Sì, Raymond[13] è nel mio libro da messa. Prego per lui, anche quando non lo nomino, cioè raramente.
Mi parli di una stufa che fuma. Qui ho della legna - in questo momento, improvvisamente, in abbondanza -, ma i ceppi grossi, così deliziosi in poesia, in fatto di comfort sono del tutto negativi: non bruciano, ci vorrebbero dei pezzetti, della carbonella, dei pampini di vigna, come dice una signora di qui. Devo alimentare il fuoco continuamente, ho le mani nere e niente acqua calda per lavarle - nemmeno acqua fredda: tre brocche sono bucate e lo stagnino non vuole lavorare per l’affittacamere, odiata da tutti. Se la carta è sporca, lo è per tutti questi motivi.
Credo che tu sia nel paese dei Polignac. Credo che Jean sia morto.
Il tuo amico fedele,
Max

Max ha ragione. Dalla baronessa, siamo tra Greuze e Béranger. I Botrel, che abitano a Pont-Aven, sono tra Béranger e Greuze. Mi pento di non aver approfittato dell’invito di Mme Botrel. Sarebbe stato bellissimo scrivere una pièce in casa loro. E inoltre ci si scalda e si mangia in maniera superlativa.


p. 298, 22 gennaio 1944
Saint-Benoît-sur-Loire (Loiret)
20 gennaio 1944
Carissimo Jean,[14]
mi dicono che Sacha Guitry può far liberare della gente. Caro Jean, vivo in un’angoscia insopportabile. Con l’idea della sofferenza redentrice ho sopportato la distruzione della casa paterna a Quimper, la morte di mia sorella maggiore, quella di mio cognato e l’incarcerazione di mio fratello. Ora, hanno arrestato mia sorella, la mia sorella prediletta. Ne morirò.
Quella cara bambina è stata la mia compagna d’infanzia. Le disgrazie le piovono addosso da quando si è sposata: suo marito è morto nel campo di Compiègne per le torture; aveva un figlio solo, che da anni è in manicomio. Andava a trovarlo tutte le domeniche; le tolgono anche questa dolorosa consolazione, è una cosa disumana; è infernale. Ho scritto al vescovo di Orléans, all’arcivescovo di Sens, scriverò al superiore del monastero della Pierre-qui-vire.
Ti chiedo scusa di disturbarti nel tuo lavoro. Ma a chi posso chiedere aiuto? Ho scritto a Misia. Se scrivessi a Sacha Guitry, la mia lettera verrebbe messa tra quelle delle solite richieste. Con una tua parola, Sacha la prenderà in considerazione.
È troppo! Se non avessi il Signore, penserei al suicidio. Penso al monastero, ma mi deciderò a questo atto estremo quando mio fratello e mia sorella saranno liberati.
Mio fratello si chiama Gaston Jacob, è stato arrestato il 16 dicembre 1942 e condotto non si sa dove. È nato il 14 maggio 1875 a Quimper, da dove non si è mai allontanato. Era un tranquillo commerciante, né povero né ricco.
Mia sorella è la moglie di Lucien Lévy, abitava al 18 di rue Oberkampf. (È nata il 24 agosto 1885 o 1886.) Il marito aveva una piccola impresa artigiana al 16 di rue de la Pierre-Levée (XIe). Lei lo aiutava. La loro unica impiegata mi ha scritto una lettera commovente.
La mia famiglia risiedeva in Bretagna da più di cent’anni ed era benvoluta.
Cosa dire? Grido aiuto, ti chiamo in aiuto e ti abbraccio. Prego per te.
Max
Cosa sarà del mio povero nipote, mal nutrito e solo nella sua cella di malato a Villejuif?


p. 310, 2 febbraio 1944
Saint-Benoît-sur-Loire
Loiret
2 febbraio 1944
Caro Jean,[15]
non ti ringrazio. Sapevo… conosco il tuo cuore. Ho fiducia solo in te.
Sacha Guitry, contattato da Marcelle Bourlier, ha detto che se fossi stato io, avrebbe potuto far qualcosa. Vuol dire dunque che si può far qualcosa. Sì, hai ragione: è un incubo. La mia vita è in una fossa nera.
Ho voglia di scrivere a Chanel. Potresti andare a trovarla. Mia sorella potrebbe essere salvata se vi ci mettete tutti e due.
Sì, Jean, Girardoux! Tu, lui e Picasso, le uniche persone intelligenti che io abbia conosciuto. Ma non dirlo agli altri.
Il tedio di Saint-Benoît con quel muro per orizzonte: la prigione di mia sorella! Una colomba, un agnello in prigione! E suo figlio da quindici anni in manicomio. Andarlo a trovare alla domenica era la sua unica consolazione.
Ti voglio e ti abbraccio
- sì -
Max


p. 323, 25 febbraio 1944
Lettera di Béalu (Montargis). Max Jacob arrestato a Saint-Benoît, portato di certo a Orléans. È atroce.[16]


pp. 323-324, lunedì 28 febbraio 1944
Ieri, bisognava salvare Max. Ho visto Sacha che mi ha indicato i passi da compiere,[17] Sert agirà tramite l’ambasciata di Spagna, Prade vuol portare un mio breve scritto su Max al responsabile delle prigioni ebree (pare che il responsabile mi ammiri e conosca Max).
Buone speranze.
Stamattina ho spedito il testo. Prade telefona e dice che il testo è magnifico e che mi spedisce delle orchidee. Tutte queste orchidee che mi mandano serviranno da modelli per il quadro del Palais-Royal.

per salvare max jacob...[18]

«[...] Con Apollinaire, egli ha inventato una lingua che domina la nostra lingua ed esprime le profondità.
«È stato il trovatore di quel torneo straordinario in cui Picasso, Matisse, Braque, Derain, De Chirico, si affrontano e lottano con i loro stemmi colorati.
«Da molto tempo, Max ha rinunciato al mondo e si nasconde all’ombra di una chiesa.
«La gioventù francese gli vuol bene e gli dà del tu, lo rispetta e lo ammira come un esempio. Io poi ne ammiro la nobiltà, la saggezza, la grazia inimitabile, il prestigio segreto, la «musica da camera», per dirla con Nietzsche.
«Aggiungerò ancora che Max Jacob è cattolico da vent’anni. I sottoscritti si permettono di segnalare alle autorità competenti il caso molto particolare di Max Jacob.
«Non ha quasi contatti con il mondo, se non attraverso le innumerevoli amicizie di giovani poeti e grandi protagonisti della letteratura francese. L’età e il comportamento, così nobile e degno, spinge il nostro cuore e lo spirito a fare quest’estremo tentativo per liberarlo e salvare una vita che ci sta a cuore. Jean Cocteau.»


pp. 325-326, martedì 29 febbraio 1944
Ricevuta la lettera di Max qui allegata.[19]

Caro Jean,
ti scrivo da un vagone con la compiacenza dei gendarmi che ci sorvegliano. Presto arriveremo a Drancy. E tutto quello che ho da dirti.
Sacha, quando gli hanno parlato di mia sorella, ha detto: «Se fosse lui, potrei fare qualcosa!»
Ebbene, sono io.
Ti abbraccio
Max

Prade mi telefona che abbiamo buone possibilità di farcela.


pp. 327-328, 15 marzo 1944
Max Jacob è morto.[20] È spaventoso. Ieri sera alle dieci, Prade mi ha telefonato dicendo che la sua istanza di liberazione era stata firmata.[21] La notizia della morte arriva stamattina dal sindaco di Saint-Benoît. La lettera qui allegata che Max mi aveva scritto dal treno è di quindici giorni fa.
La notizia della morte deve avere impiegato dieci giorni ad arrivare. Quindi il dramma si è svolto in otto giorni. Ma quale dramma? Era malato?
Ho telefonato a Picasso e a Pierre Reverdy.[22]
Prade farà fare delle ricerche del corpo.
Max era un angelo, un bambino come Saint-Pol Roux.[23]
Perdita inestimabile.


p. 328, marzo 1944
Prade ha finalmente trovato la tomba di Max a Ivry. Vi ha fatto mettere una croce, un recinto e una targhetta. Dopo la guerra, Max sarà trasferito a Saint-Benoît, ma bisogna salvaguardare la tomba. Max aveva fatto testamento e aveva nominato suo esecutore testamentario Pierre Colle. Pierre è venuto a trovarmi. Domani andrà a Saint-Benoît e cercherà di salvare le carte e le poesie. (Ne aveva inviate alcune copie a parecchie persone.) Max è arrivato a Drancy quindici giorni fa, in ottima salute, abituato a uno stile di vita durissimo, al digiuno, al freddo. Sei giorni dopo era morto. Misia Sert fa dire una messa a Saint-Roch.[24] Pierre ha visto il fratello di Max, simile a Max, meno tutto. È l’unico ancora libero della famiglia.


p. 394, 3 dicembre 1944
Ieri, a pranzo da Pierre Colle, visto i manoscritti di Max. Riempiono tre armadi. Dal 1925, Max non aveva pubblicato nulla e tutti i giorni scriveva per ore. Ce n’è abbastanza per pubblicare cento volumi di poesie e di prose. Éluard mi ha chiesto di curare con lui la scelta delle poesie. È impossibile: bisognerebbe dedicarvi un anno di lavoro.
Una storia di Max.
Una signora diventata ricca con i pianoforti (Mme Steinway) non poteva sentir parlare di pianoforti. Cena in un castello nei dintorni di Montargis. Si avvertono tutti: nessuno deve parlare di pianoforte. La signora è contentissima. Ma, al momento della partenza, sulla scalinata esterna, la padrona di casa dice: «Aspetti, faccio portare il pianoforte».






[1] Si sa che Max Jacob viveva nascosto nell’abbazia benedettina di Fleury a Saint-Benoît-sur-Loire.
[2] Appassionato d’astrologia, Max Jacob faceva oroscopi per gli amici. Così, nel 1938, aveva messo in guardia Jean Marais contro un segno del destino degno di Lorenzaccio.
[3] Albert Guillaume (1873-1942), disegnatore, acquarellista, era considerato un pittore molto «parigino». È contemporaneo di Edouard Vuillard (1868-1940).
[4] I testi più tardivi di Cocteau su Georges Braque (1882-1963) e su Raoul Dufy (1877-1953), dimostrano meno riserve (cfr. Le Passé défini, 2, p. 160 e pp. 373-374). Kees Van Dongen (1877-1968), invece, non uscirà mai dallo spazio angusto cui lo confina quel giorno J. Cocteau: tra il mondano Jean-Gabriel Domergue (1885-1962) e il dadaista della pittura, Francis Picabia (1879-1953).
[5] Una copia dattiloscritta della lettera ci è stata trasmessa da Paul Morihien.
[6] Jean-Pierre Bourla, nato nel 1923 o 1924, aveva avuto al liceo Pasteur, nel 1941, nell’ultimo trimestre della terza liceo, J-P. Sartre come professore di filosofia e Max Jacob come consigliere poetico. Dalle memorie di Simone de Beauvoir conosciamo il suo tragico destino: spagnolo di origini ebree, fu arrestato, internato a Drancy e fucilato a vent’anni.
[7] Cocteau conosce Marcel Béalu, nato nel 1908, dal 1938. È Max Jacob che lo porta dal “cappellaio poeta” di Montargis (Le Foyer des artistes, p. 88). Nel 1941, Béalu ha pubblicato L’île au cri de silence (Cahiers de Rochefort) e Mémoires de l’ombre (Debresse) di cui Max Jacob, nella sua lettera del 2 aprile, riprodotta alle pp. 43-44, raccomanda la lettura a J. Cocteau.
[8] Da intendere piuttosto nel senso del Finistère dell’epoca di Pierre Loti (1850-1923, pseudonimo di Julien Viaud). Perché lo scrittore della Charente, ufficiale di marina, formatosi a Brest, lo descrive soltanto nel suo romanzo Pécheur d’Islande (1886), la cui storia si svolge a Paimpol. Vengono descritte anche le lande del Nord Finistère.
[9] La selezione fatta da François Sentein corregge prudentemente in «block-haus» come se non si potesse dar credito alla fantasia verbale di Max Jacob.
[10] È l’«École de Pont-Aven», che alla fine dell’Ottocento raggruppa intorno a Paul Gauguin pittori quali Émile Bernard e Paul Sérusier.
[11] André Dunoyer de Segonzac (1884-1974) faceva parte dei pittori - più numerosi degli scrittori - che avevano risposto nel 1942 all’invito dei loro colleghi tedeschi. Come paesaggista, Segonzac è più noto per gli acquerelli che per le pitture a spatola.
[12] Poeti inglesi, che all’inizio dell’Ottocento vivevano nella regione dei laghi, nel Nord-Est dell’Inghilterra e tra i quali i più noti furono Wordsworth e Coleridge. Questa pochade critica, che comprende lo chansonnier Pierre-Jean de Béranger (1780-1857) e risale fino al pittore Jean-Baptiste Greuze (1725-1805), richiederebbe molti commenti.
[13] Radiguet, che Max Jacob conobbe poco prima di Jean Cocteau, cfr. n. 1 p. 129.
[14] Sebbene Cocteau non la menzioni nel suo diario, abbiamo inserito questa lettera, di cui Paul Morihien ci ha consegnato la versione dattiloscritta, probabilmente con la data in cui è stata ricevuta. Con le grida di allarme del 2 e del 28 febbraio (Cfr. p. 310 e 325), la lettera segna una tappa commovente del calvario di Max.
[15] Sebbene non vi sia nessun riferimento, inseriamo nel diario questa lettera, che preannuncia in modo così tragico quella del 28 febbraio. (Cfr. p. 325.)
[16] Lettera non ritrovata. Max Jacob viene arrestato dalla Gestapo il 24 febbraio, alle 11 del mattino, mentre stava uscendo dalla messa in cui aveva appena servito nella cripta della basilica. Lo conducono dapprima nella prigione di Orléans. In questa circostanza, R. Lannes resta commosso dall’atteggiamento di Cocteau: «Dà prova di un cuore più grande di quanto gli abbia mai visto» (Frammento del diario, in data del 27 febbraio 1944).
[17] Jean Cocteau accumula tutte le possibilità di successo: Sacha Guitry e soprattutto José Maria Sert hanno già dato prova della loro influenza, l’uno nel salvare Tristan Bernard, l’altro, Maurice Goudeket. In quanto a Georges Prade, magnate della stampa e consigliere comunale di Parigi, persiste sino in fondo in una «collaborazione attiva», secondo l’espressione di H. Michel (Paris allemand cit., p. 162). Ricordiamo che nel consiglio comunale sedeva accanto a Darquier de Pellepoix, noto antisemita. Jean Luchaire, come il suo direttore, era amico di Otto Abetz.
[18] Abbiamo inserito qui, e con un titolo che non tradisce Cocteau, un lungo frammento della petizione firmata da parecchi amici di Max, tra i quali A. Salmon, H. Sauguet, S. Guitry, P. Colle. Paul Morihien, in bicicletta, era andato in giro per tutta Parigi a raccogliere le firme. Cfr. É. Charles-Roux, L’Irrégulière, ou Mon itinéraire Chanel, Parigi, Grasset, 1974, p. 548.
[19] Il 28, Max fu trasferito da Orléans a Drancy. Si sa che durante il tragitto aveva redatto almeno altre due lettere, che uno dei gendarmi della scorta imbucherà alla gare d’Austerlitz: una a Paul Bonet, rilegatore d’arte, per il quale Max miniava i libri, l’altra al canonico Albert Fleureau, parroco di Saint-Benoît-sur-Loire. Lucien Scheler pubblica l’ultima lettera in La Grande Espérance des poètes, 1940-1945 (éd. Temps actuel, 1982, p. 270).
[20] Il 4 marzo 1944, alle 21.30, nel suo sessantottesimo anno... Il 2, Max, per una congestione polmonare, fu inviato all’infermeria del campo. «Il male progrediva rapidamente e Max si lasciò morire, mormorando: “Sono con Dio”» (Lucien Scheler, op. cit., p. 270). Il diario di R. Lannes conferma che la triste notizia arrivò a Cocteau il 15 marzo.
[21] Un’uguale consapevolezza di un inutile successo da parte spagnola, secondo Misia Sert: «L’ordine di liberazione che Sert finì con l’ottenere, giunse troppo tardi». (A. Gold e R. Fizdale, Misia, cit., p. 342.) La «Lettera qui allegata», è quella di p. 325.
[22] Il poeta Pierre Reverdy (1889-1960) conosce Max Jacob e J. Cocteau dal 1916. Tutti e tre parteciparono alle attività artistiche di «Lyre et Palette» a Montparnasse, ed è M. Jacob che presenta Reverdy al pubblico, quando lancerà la rivista «Nord-Sud». Come M. Jacob, P. Reverdy viveva proteggendosi in un’abbazia benedettina: Solesmes.
[23] Membro dell’Académie Mallarmé, il poeta Saint-Pol Roux (Paul-Pierre Roux, 1861-1940) era stato la prima vittima della barbarie, nel giugno 1940, nel suo castello di Coceilian, vicino a Camaret.
[24] Il diario di R. Lannes permette di datarla. Fu celebrata il 21 marzo. «L’atmosfera è “da catacomba”. Per poco, si sarebbero sentiti ruggire i leoni alle porte». Lannes nota la presenza di Éluard, Sauguet, Herrand, Marchat, Salmon, Pierre Colle, Misia Sert, Chanel, Mollet. A questa lista, aggiungiamo quella di L. Scheler: «C’erano Cocteau e Picasso - compagni del Bateau-Lavoir - Dora Maar, Pierre Reverdy, [...], François Mauriac, [...], Paulhan e Raymond Queneau» (op. cit., p. 336). R. Lannes conclude così il racconto della cerimonia: «Quando ci siamo ritrovati con Yanette Délétang-Tardif, Colle e Salmon, nella camera di Jean Cocteau, poco dopo, abbiamo misurato con tristezza lo spazio cruento che la scomparsa di Max aveva lasciato tra noi». (Frammento datato 21 marzo 1944.)

martedì 26 agosto 2014

La liberazione di Parigi, versione Cocteau



Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Mursia 1993, pp. 358-363
Titolo originale: Journal 1942-1945
1989 Éditions Gallimard

25 agosto 1944 - Liberazione di Parigi
Mi ero ripromesso di non scrivere niente prima del grande giorno che abbia­mo appena vissuto.
C’era stata l’attesa. C’era stato il panico dei collaborazionisti preceduto da segni di morte. Quella di Fernandez[1] (arresto cardiaco), il suicidio di Drieu La Rochelle (viene salvato),[2] la morte di Saint-Exupéry[3] (aviazione inglese) e la notizia ancora dubbia su Malraux, fucilato dalla Milizia.[4] La fuga di Bonnard, di Brinon, di «Je suis partout», battezzato «Je suis parti», il treno con la famiglia Luchaire, le mogli e le figlie dell’ambiente filotedesco. (Il treno era partito per la Germania con quarant’otto ore di ritardo. Doveva essere convogliato da Fontenoy. È stato convogliato da gangster di Marsiglia, Costantini,[5] se non sbaglio.)
C’era stato il segreto formarsi dei gruppi delle F.F.I.[6] che occupavano i teatri ufficiali, l’Union des artistes, il C.O.I.C., ecc., dato che i comunisti avevano occupato tutti i posti ufficiali e tutti i monumenti pubblici dopo battaglie rapide e decisive. C’era stato lo spettacolo delle bandiere alle finestre e i giornali nuovi che escono durante le operazioni militari tedesche. (I tedeschi occupavano gli Invalides, l’École militaire, la Concorde, il Senato, il Luxembourg, dieci nuclei di resistenza zeppi di munizioni, di truppe S.S. e di esplosivi.) C’era stata l’apertura delle porte di Drancy, di Fresnes, e della Santé, grazie all’incessante mediazione del ministro di Svezia.
C’era stato il cambiamento di stile alla radio, le buone e le false notizie, l’America e l’Inghilterra che festeggiavano la nostra completa liberazione, mentre Parigi si batteva ancora. C’erano state le barricate, le raffiche di mitragliatrice, i miliziani nascosti che sparavano dalle finestre o dai tetti. L’altro ieri, andando a pranzo alla Concorde da Sert nel bel mezzo della difesa tedesca, attraversavamo, Marais, io e Moulouk, una avenue de l’Opéra completamente deserta e assai sospetta. All’angolo con rue des Petits-champs, una raffica di fucile-mitragliatore ci fa voltare. A un metro da noi, l’unico passante visibile incespica e un enorme fiotto di sangue schizza dalla sua schiena. Cade. Perché lui e non noi? È impressionante sapere che forse eravamo presi di mira da un occhio misterioso e che l’abbiamo scampata bella. Il capitano Delrue[7] dirà poi: «Eravate proprio voi ad essere presi di mira. A cento metri, un fucile mitragliatore è sbandato. Avete sentito fischiare la pallottola? No. Vuol dire che sparavano su di voi». I parigini non danno segno di paura. Nonostante il pericolo dei cecchini e delle macchine che sbucano e spazzano la strada, le donne passeggiano come al 14 luglio. Splendida idea di questa folla libera che partecipa al dramma, rischiando di ostacolare le operazioni. (I primi carri armati di Leclerc sparavano in boulevard des Invalides, carichi di donne e bambini che vi si aggrappavano.) C’erano state le visite e le telefonate degli uni e degli altri (come va dalle vostre parti?), ecc. Il telefono non ha mai smesso di suonare. C’era stato perfino l’imbarazzo dei piccoli comitati dei teatri che volevano fare la parte del tribunale rivoluzionario e mettevano le crocette davanti ai nomi delle vedette.
Finalmente l’altro ieri, a mezzogiorno, c’è stata la telefonata di Jacques Fano, l’addetto stampa del generale Leclerc, che annunciava che il generale sarebbe arrivato in giornata. Abbiamo saputo poi che il cerimoniale tra francesi e americani (i francesi diffidano del metodo americano di demolire tutto) aveva fatto ritardare le truppe. I francesi sapevano soltanto che la città si difendeva ancora molto e sarebbe stata a corto di munizioni. Furono informati con esattezza da due gendarmi che andarono in bicicletta ad Antony. La Resistenza non aveva avuto ordini. I comunisti hanno scatenato la sommossa senza aspettare gli ordini. La Resistenza di destra non ha partecipato. Da ciò il ritardo delle truppe che aspettavano. Le truppe hanno fatto duecento chilometri per andare in soccorso delle F.F.I.
Non appena abbiamo saputo che i primi americani arrivavano a Notre-Dame, corsi a dirlo ai Puget.[8] Avevo appena dato la notizia che le campane di Notre-Dame e di Notre-Dame-des-Victoires cominciarono a diffonderla ovunque. Spettacolo sublime: il Palais-Royal illuminato dalle finestre spalancate. Campane, risate, canti. La radio, ancora male organizzata, di nascosto, sotto l’occhio dei tedeschi, trasmette testimonianze di giovani sfiniti, che balbettano per la stanchezza e l’emozione. Il servizio è interrotto continuamente da porte che sbattono. Sono gli inviati delle ultime novità della strada che entrano ed escono, e le voci si confondono con quelle dei reporter ufficiali.
Il giorno dopo, aiutata dai carri armati, l’insurrezione diventa decisiva. In tutti i quartieri ci si batte sulle barricate. Il primo giorno avevo lasciato Roger Stéphane[9] davanti al Municipio, dopo aver visto issare la bandiera francese sulle torri di Notre-Dame, tra una folla che vendeva e comprava distintivi tricolori. Stéphane, in tre giorni, ha combattuto al Municipio, è stato ferito al braccio e nominato capitano della Resistenza (comandante del Municipio). Io non finisco di correre a destra e a sinistra. Cercando di arrivare dai Labourdette, arrivo in place Notre-Dame, dove è difficile muoversi. La folla vuol vedere i prigionieri che vengono condotti in questura. Purtroppo li insultano e i soldati non possono impedire che la collera del popolo si scateni alla cieca. Mi allontano da questo spettacolo che non mi piace e mi rimprovero di non essere abbastanza semplice da trovarlo legittimo. Sul selciato di Notre-Dame scorgo improvvisamente Moulouk, solo, seduto, abbandonato come nelle Due orfanelle. Paul forse l’aveva perso al Municipio. Per lui è molto naturale ritrovarmi e lo porto dai Labourdette.[10]
Vado a vedere De Gaulle che arriva al Municipio. Arriva su una piccola macchina scoperta, con grande semplicità. Compare alla finestra sull’estrema destra, perché il Municipio non ha balconi né finestre tra le colonne. La folla lo distingue male. Sale sul parapetto della finestra e fa dei grandi gesti familiari con le braccia. Applausi. Lo stile è perfetto, antidittatoriale e mi fa pensare alla frase che mi ha detto una volta Lyautey: «Non sono un militare. Sono un soldato». Difficoltà di non essere né legittimato né dittatore, né nominato dal suffragio universale. Difficoltà di arrivare da fuori, solo, sostenuto soltanto da un sogno.
De Gaulle è altissimo, molto magro, in lui tutto si vede: il naso, gli occhi, le orecchie, i gesti. È un divo. Un pezzo grosso. Non c’è dubbio. Porta la divisa kaki con due stelle.
Nulla di più strano di questa città in festa e che si batte. A Parigi, le cose vanno a fasi, a mode: la guerra dei tetti. Le donne rasate, ecc... Fantomas, Belfagor e i film hanno educato una generazione violenta. I nostri amici vanno in giro con fucili o mitra. Ci si separa, ci si ritrova, ci si riperde. Paul, il mio segretario, che rifiuta di portare bracciali e armi, si intrufola in tutti gli attacchi ai monumenti ed entra per primo all’hôtel Crillon e all’Ambasciata americana. Il Crillon, crivellato dalle granate, resta in piedi, tranne una co­lonna (la gente la chiama la quinta colonna).
La guerra dei tetti si fa sempre più subdola. Sparano ovunque. (Era una di quelle cicogne funeste[11] che l’altro giorno ci aveva presi di mira in avenue de l’Opera.) Sparano dai tetti del Palais-Royal. Quelli che rispondono sparano a caso nei vetri.
Il giorno dopo,[12] mattinata di sole e di bandiere. L’aria leggera, la folla leggera. Si rivedono dei volti. Non se ne vedevano più. Andiamo da Maxim’s a mettere le bandiere e a prenderne per la casa. Nel pomeriggio assistiamo a una sfilata da una finestra dell’hôtel Crillon. De Gaulle cammina tra i carri armati e i ragazzi del popolo che si tengono per mano. E il simbolo del suo programma. Una folla immensa (quasi tutte le donne vestite di bianco, blu e rosso) brulica in piace de la Concorde fin sulle statue.
Improvvisamente si scatena il dramma. I tiratori dei tetti cominciano. I carri armati allineati davanti all’hotel rispondono e bombardano. La mia sigaretta è spezzata a metà in bocca. Jeannot e Paul rifiutano di andare via dalla camera sulla facciata. Si buttano a terra, si rialzano e lasciano spuntare la testa dal balcone. Vengono scambiati per cecchini e i carri armati rispondono. Nello stesso momento, a Notre-Dame sparavano sul generale De Gaulle e su alcuni punti del corteo.
Come mai non erano state ispezionate le torri di Notre-Dame da cui i misteriosi cecchini sparavano da tre giorni? Il custode delle torri, interrogato, risponderà: «Le torri sono delle catacombe» (sic). Parigi è attraversata da macchine F.F.I. con la croce di Lorena; sono state più o meno requisite e sono cariche di giovani con bracciali e rivoltelle. E così vedo sbarcare a casa Goddet (capitano) e il figlio dei Capgras.
Le false notizie circolano in fretta come queste automobili pericolose: le teste di tutte le attrici sono state rasate a zero. Hanno arrestato tutti gli scrittori, ecc. Arresto di Sacha Guitry,[13] condotto al municipio della VII circoscrizione parigina, poi alla polizia giudiziaria, poi alla prigione della Santé!
Titayna[14] e Desmarets[15] sono stati arrestati.
Le donne rasate, tutte nude, trascinate con una catena al collo, insultate, picchiate da altre donne che di certo hanno fatto di peggio. Spettacolo vergognoso.
Donne innocenti e rasate vengono condotte al Municipio. Non hanno il coraggio di rimetterle fuori. Le ospita Roger. Vi resteranno sino a quando i capelli saranno ricresciuti.
Immagino un prigioniero che ritorna con i capelli lunghi e trova la moglie con i capelli a spazzola.
Parigi ribolle, fermenta, prepara gli esplosivi. Lo slancio viene meno e lascia il posto ai piccoli rancori, ai garbugli, ai numerosissimi asti individuali.
Prima ondata. I nostri compagni, tanto liberi nell’oppressione, si trovano oppressi in libertà. La loro resistenza segreta diventa un regime sottomesso a leggi, bolli sui manifesti. Tra poco si metteranno di nuovo a lavorare segretamente contro un ordine che li paralizza. Verrà un’altra ondata e li sommergerà. Éluard - perfetto nella sua nobiltà, ma con una gioia infantile per il trionfo della sua causa - mi dice: «Hemingway ha mandato una macchina e lei è stato a fargli visita al Ritz. Non doveva andarci. Ha scritto contro la Spagna. Se i comunisti sapessero che è andato a trovarlo, se la prenderebbero con lei».[16] Non ho quindi tanto torto a temere un rimprovero di «collaborazione americana».
Dai miei conciliaboli con gli uni e con gli altri, risulta che l’unica posizione nobile è l’estremo riserbo, il silenzio, le vecchie e fedeli amicizie.

Da Picasso. È il re, e giustissimo. Dopo la tempesta, lo trovo nei suoi magnifici antri da leone. Sta finendo una testa di donna sul libro che gli scrittori della Resistenza offrono al generale De Gaulle. «Le cose non cambiano mai» mormora strizzando un occhio, «il nostro regno non è di questo mondo.» Parla sottovoce, perché la minima cosa detta viene ripresa, ripetuta, volta a nostro danno. «Dare un colpo di spugna» fra tutte le frasi è quella che viene perdonata più difficilmente. Ed è giusto. Troppi hanno sofferto, troppi hanno subito le torture tedesche.
La Milizia sparava dai tetti. Le F.F.I. sparano alle gambe. Ieri, trentuno agosto, Fargue mi telefona che è appena uscito un omaggio di fedeltà al regime, firmato dai sette membri rimasti francesi dell’Académie Mallarmé. I nostri nomi non ci sono.[17]
Mondor, Charpentier cedono. Dicono che non è colpa loro, e accusano il giornale di aver travisato il testo. Suppongo che, improvvisamente imbarazzati dall’enormità di questo gesto criminale che equivale, in negativo, a una denuncia, tentino di circondare questo verdetto di un ridicolo mistero. Il giorno dopo[18] hanno aggiunto il mio nome e quello di Fargue.

Ho preso una decisione. Ho detto a Jacques Fano, venuto a cena con me ieri, e ad Éluard, stamattina, che non farò mai neanche un passo, non farò neppure una telefonata e metterò tra le mani di Éluard e di Sartre il mio nome, che stanno cercando di disonorare.
Cosa mi viene rimproverato? Di essere amico di Arno Breker. Certo, conosco Breker da molto tempo. Ha continuamente messo a disposizione di Hitler il suo potere, a servizio della Francia. Ha salvato moltissimi prigionieri, perorato la nostra causa, ha impedito che ci trattassero come la Polonia. Non mi aspettavo niente da quell’articolo su Breker, perché ho sempre rifiutato che intervenisse per interrompere la campagna stampa che mi ha infangato. Giraudoux doveva il silenzio a Ribbentrop. Spesso mi consigliava di imporre il silenzio stampa mediante Breker. Breker si era offerto di farlo. Avevo rifiutato rispondendo che la fierezza me l’impediva e che mi rallegravo di essere in­fangato dalla stampa collaborazionista.
Per di più trovavo nobile parlare di un amico nemico come di un amico alleato. Attualmente l’articolo sovrasta tutto. Nessuno tiene conto degli insulti, della rovina dei Parents terribles e delle bombe lacrimogene in sala, della censura della Machine à écrire, del mio rifiuto di salutare la bandiera della L.V.F. e dell’aggressione che per poco non mi ha reso cieco. Conta solo Breker, l’articolo su Breker, l’amicizia con Breker, il solo atto che riuscirà a farmi impiccare.
Meraviglia di un’amicizia nata da un lungo odio. Éluard si accanisce a difendere la mia causa e, nonostante la lettera così dura dopo l’articolo su Breker, pensa che pochi dei nostri amici avrebbero avuto il coraggio di non togliersi il cappello in mezzo ai membri del P.P.F. Ecco a che punto siamo. La coerenza profonda di un individuo non lo discolpa, importa solo mettere dei fatti sulla bilancia.
Perché dovrebbe cambiare il destino di un poeta? Il mio regno non è di questo mondo e il mondo ce l’ha con me perché seguo male le regole. Soffrirò sempre per la stessa ingiustizia. Scateneranno sempre gli scandali, che detesto, accusandomi di desiderarli ed esserne l’istigatore. Di certo il mio angelo mi protegge facendomi commettere degli sbagli che mi salvano dall’azione diretta e dalla vertigine dell’attualità![19]
Ed eccoci al 31 agosto. Le piccole Gip[20] degli americani trasportano le donne, come le carrozze delle giostre. I nostri amici organizzano dei cocktail. Al Ritz liberato, gli ufficiali americani pranzano con donne da marciapiede. Una grande gioia che si doveva provare non riesce a superare, dentro di me, strati di imbarazzo e tristezza. Hanno guastato la gioia. I parigini credono che la guerra sia finita. Incomincia. Sarà feroce. Due notti fa, i tedeschi hanno bombardato Parigi con le bombe al fosforo e hanno incendiato la Halle aux vins.[21] Ce lo ha raccontato Picasso, più vicino di noi al disastro.[22] Bruciava tutto, alberi, pietre, acqua, in un incredibile silenzio. Tutta la città era illuminata da una luce d’alba, e il calore minerale, sconosciuto, del fosforo accompagnava questo grande bagliore immobile, piatto, color rosa tea.
Nel Palais-Royal c’era l’ombra degli alberi immobili e questo bagliore al suolo. E durava. Non cambiava intensità. Durava tutta la notte. Il disordine organizzato degli americani si oppone allo stile della disciplina tedesca, la sconvolge, la disorienta. I combattimenti terminano nello sbandamento, ma le perdite, ancora ieri, alle porte di Parigi sono state pesantissime.






[1] Ramon Fernandez (1894-1944), romanziere (Le Pari, 1932), saggista (Marcel Proust, 1943, e Balzac, 1944), membro influente della «N.R.F.» e delle edizioni Gallimard. Apparteneva al Co­mitato politico del P.P.F. doriotista e collaborava al «Cri du Peuple».
[2] Riproverà, con esito positivo, il 15 marzo 1945.
[3] Il 31 luglio, durante un volo di ricognizione tra la Corsica e le Alpi.
[4] Ferito e fatto prigioniero il 22 luglio, viene imprigionato a Tolosa.
[5] A proposito di Pierre Costantini (nato nel 1899), cfr. Pascale Ory, Les Collaborateurs, 1940-1945, Parigi, Ed. du Seuil, collana «Points», 1976, pp. 96-98. Fondò la Lega francese di epurazio­ne (nel 1941), un piccolo gruppo che si alleò con il P.P.F.
[6] Le F.F.I. sono le «Forces francaises de l’Intérieur». (N.d.T.)
[7] Ufficiale della divisione Leclerc, Jacques Delrue determinò l’arruolamento di Jean Marais nella seconda divisione blindata.
[8] Vicinissimi: abitavano in rue de Montpensier.
[9] Pseudonimo di Roger Woorms, nato nel 1919. R. Stéphane, che conosceva Jean Cocteau già da qualche anno, non ha ancora pubblicato nulla. Giornalista e produttore televisivo, realizzerà nel 1963 un eccellente Portrait-Souvenir dedicato a Cocteau.
[10] I genitori di Elina Labourdette (nata nel 1919; fu protagonista della Dames du Bois de Boulogne); abitava in rue Chanoinesse.
[11] La cicogna era una specie di aeroplano da ricognizione. (N.d.R.)
[12] II 26 agosto.
[13] Il 23 agosto.
[14] Romanziere (La Japonaise, 1931) e giornalista; Jean Cocteau l’aveva incontrato alla fine del suo giro del mondo (Mon premier voyage, p. 366). Scriveva sui giornali collaborazionisti tra cui «La France au travail».
[15] «Desmarets liberato questa sera» (nota di Jean Cocteau).
[16] Giunto a Parigi il 25 agosto, con l’avanguardia della 2a Divisione blindata, nonostante la proibizione del generale Leclerc fattagli a Rambouillet, Ernest Hemingway (1899-1961), corri­spondente di guerra, si stabilisce al Ritz e riprende contatto con i suoi amici. Sul «rapimento» di Cocteau, possiamo citare la testimonianza di R. Lannes: «Quando arriviamo da Cocteau, ve­diamo la polizia che irrompe e lo stesso Cocteau sequestrato dentro una macchina assai misterio­sa. Abbiamo un momento di grande emozione, ma, una volta tornato a casa, Marie-Laure de Noailles mi telefona dicendo che ha incontrato Jean che giocava al soldatino su un carro americano in compagnia dei divi del cinema» (frammento del 27 agosto 1944).
[17] In un foglio del diario, datato 31 agosto, Lannes designa quali responsabili di questa «manovra perfettamente ignobile, gli elementi più ridicoli dell’Académie Mallarmé: gli Charpentier e i Fontainas che hanno fatto firmare a Valéry e a Mondor un manifesto detto dei “cinque rimasti francesi”».
[18] Questa frase sembra un’aggiunta, messa di traverso sulla pagina di sinistra. Ne «Le Figaro» del 2 settembre, il comunicato dell’Académie Mallarmé porta infatti i nomi di Jean Cocteau e di L.-P. Fargue. Il testo è riportato nella biografia di J.-J. Khim, E. Sprigge e H.C. Béhar, p. 290.
[19] Nel manoscritto è stata cancellata una riga: «Mauriac nelle lettere, Salacrou nel teatro, mi perseguitano».
[20] Oltre a testimoniare uno sforzo immediato di assimilazione, questa grafia - meglio di Jeep - permette di conoscere la sigla originale «G.P.», iniziali di general purpose, cioè «macchina tuttofare».
[21] Nella notte tra il 26 e il 27, la Luftwaffe aveva bombardato Parigi. Oltre alla Halle aux vins, era stato duramente colpito l’ospedale Bichat.
[22] Nelle ultime settimane dell’Occupazione, Picasso, per prudenza, aveva lasciato l’atelier della rue des Grands-Augustins, per sistemarsi da Marie-Thérèse Walter, sua ex amante e madre di Maïa, che abitava in boulevard Henri IV.