Segreti d’alcova di uno studio
Testo di Hélène Parmelin
Editori Riuniti, Roma 1966.
Titolo originale: Le peintre et son modèle
Editions Cercle d’Art, Paris 1965
Qualcuno si è detto sorpreso, persino indignato per una
definizione siffatta. Come se la virtù della pittura fosse messa in
discussione.
Ma non è affatto vero che tutti i segreti siano scandalosi.
Né è vero, d’altra parte, che le alcove siano ghiotte dei peggiori bocconi
dell’amore.
Anzi.
E se io scrivo che Picasso non sapeva quanta ragione avesse,
è perché, quando andiamo ad alzare un poco le tende dell’alcova della pittura,
ahimé, cerchiamo vanamente i segreti che non ci sono più. Qualche cosa è
accaduto, ma noi non c’eravamo. Però ecco lì tutte le prove: il colore ancora
fresco, la tela ancora sgualcita, e il disordine del processo… Il solo corpo
del reato che abbiamo, la pittura, non prova né dimostra niente. All’infuori
del suo tumultuoso svolgersi…
Quando a Vallauris ha dipinto la bambina che salta con la
corda, prima ha fatto una tela. Il terreno vi è accennato con un breve tratto.
L’ombra, per dir meglio.
Tempo fa ha ricevuta fusa nel bronzo la scultura tratta
dallo stesso dipinto che è a Notre Dame de Vie.
Al tempo in cui ne metteva insieme gli elementi, la scultura
diventava la maggior ricerca del reale. Quel problema della bambina sospesa per
aria non esasperava la pittura.
Ma la scultura doveva trovare il modo di uscirne. Come?
Un giorno Picasso compare tutto felice. Ha lavorato intorno
al problema della bambina che salta con la corda sospesa nello spazio.
«Ho trovato
- dice - su che riposa la bambina quando è per aria. Sulla corda, naturalmente!
Ma come ho fatto a non pensarci prima?»
Nell’alcova dello
studio a Notre Dame de Vie, mescolate insieme con tutte le altre, ci sono tre
tele con dei colombi. Sono i colombi dipinti alla California. (Non so dove
siano le altre tele, ne ha fatte molte.) Alla California, Picasso dipingeva Les Ménines in una camera al terzo
piano. Sul balcone aveva costruito da sé la piccionaia. I colombi volavano,
tubavano, facevano le uova, le covavano, si ammazzavano fra loro, lì accanto
intorno in mezzo a Picasso che dipingeva Les
Ménines. Ma anche Les Ménines
erano la realtà. E nient’affatto perché le finestre erano le sue o perché il
bassotto Lump era al posto del grande cane di Velazquez, così come il dalmata
Perro entrava nelle tele dei buffè di Vauvenargues e l’afgano Kaboul nelle tele
di Notre Dame de Vie.
Picasso costringeva
Velazquez a esprimere una realtà che il suo secolo non poteva concepire. Con la
realtà delle Ménines, egli dipingeva la sua realtà del XX secolo.
La pittura è
realtà, ma anche una qualunque parte della realtà. Propone al pittore che
guarda un quadro lo stesso problema che gli propone il mondo intero. Con
l’aggiunta di qualche cosa di più difficile, che è l’anima dell’altro pittore
raffigurata in quella realtà.
La realtà, la
realtà, la realtà…
Se ne parla tanto
che si direbbe non esista. O che la sua esistenza non abbia poi tanta importanza,
giacché bisogna battere e ribattere sempre il medesimo chiodo per porvi
rimedio.
Tuttavia tante
pitture si richiamano alla realtà… Tutte, direi. Si dice che la realtà
interiore può astrarre dalla realtà generale ed essere ugualmente una. Quando
si parla dell’opera di Picasso, si parla irresistibilmente della realtà, del
suo Toson d’oro, del suo Graal.
Una volta egli ha
detto: la realtà è una parola che porta dappertutto. La si cucina in tutte le
salse.
Il 5 aprile 1960 ha
dipinto un piccolo picador tutto nero e un piccolo toro tutto nero che fa
impennare il cavallo tutto nero davanti a un piccolo torero tutto nero che
agita la cappa. Sono soli nell’arena che si avvolge su se stessa come una
chiocciola. Sopra e intorno, un gran cielo e tutti quei puntini sulle gradinate
(senza gradinate) che sono la folla. È la corrida. La piccola scena del
picador, del matador e del toro tiene col fiato sospeso. L’arena tiene lo
spazio.
«Mi piacerebbe -
dice Picasso - dipingere una corrida proprio com’è.»
Qualcuno gli risponde:
ogni volta che dipingi un toro, un banderillero, una folla, un cavallo, forse
non è la corrida proprio com’è? Anche sul fondo di una piccola coppa di terra o
di un grande piatto.
«Vorrei farla come
la vedo», dice Picasso.
Ma non è così che
lui la vede quando la dipinge? Goya, non è così che ha fatto, che ha visto le
sue tauromachie?
«Sì. Ma non tutta la corrida, - dice Picasso: - io
vorrei farla mettendoci tutto; tutta l’arena, tutta la folla, tutto il cielo e
anche il toro com’è e anche il torero e tutta la quadrilla, il banderillero e
la musica e poi anche il venditore di cappelli di carta…»
Una vera corrida.
Certo, bisognerebbe fare il toro a grandezza naturale (e lo
ha fatto). E l’arena, tutta l’arena intorno?
«Ci vorrebbe una
tela grande come l’arena… Spaventoso non poterlo fare… Sarebbe magnifico…»
Tutti i tratti di
un volto o di un corpo possono apparire agli occhi dello spettatore anche se
sulla tela nessun segno delinea un naso, una bocca, un seno.
Il segno, la
macchia, la sua forma, il suo colore, e i rapporti fra loro, hanno «una carica»
di realtà. Picasso, in questo inverno 1964, sembra in cerca di una presenza del
volto senza desrizione senza enumerazione senza trasposizione senza
deformazione, senza niente di ciò che fa il volto, ma che porti tuttavia la
carica di un volto.
È ciò che gli fa
dire:
«In questo momento,
su quelle tele là, dipingo sempre meno».
Quale verità? Dice
Picasso. La verità non può esistere.
Se io cerco la
verità nella mia tela, posso fare cento tele con questa verità. Allora qual è
quella vera? Qual è la verità, quella che mi fa da modella o quello che
dipingo? No, è come per tutto il resto. La verità non esiste.
«Ricordo - dice
Paulo Picasso - che quand’ero piccolo ti sentivo continuamente dire: “La verità
è una menzogna”…»
Si conversa sulla
libertà di ricerca, che dà all’artista una tecnica splendida.
«Sì - dice Picasso
- ma a una condizione: averne tanta e poi tanta da farla cessare completamente
d’esistere. Farla scomparire. A questo punto, ecco, è importante averla. Perché
mentre lei fa il suo lavoro, tu ti puoi occupare di ciò che cerchi.»
La libertà, dice
Picasso: bisogna stare attenti! In pittura e in tutto il resto. Fate come
volete, ma alla fine vi trovate con le catene addosso. La libertà di non fare
una cosa, ecco: ciò esige che se ne faccia un’altra, in maniera imperativa.
Allora, ecco le catene. Mi viene a mente la storia di Jarry; sapete, quando i
soldati anarchici fanno le esercitazioni. Dice: fianco destro! e quelli, perché
sono anarchici, fanno tutti fianco sinistro. La pittura è così. Prendi la
libertà e ti rinchiudi con la tua idea, proprio la tua e non un’altra. E
rieccoti con le catene addosso.
Ancora sulla
libertà e sulle catene. Picasso se n’esce fuori:
Vi spiegano che
bisogna lasciare ai bambini la loro libertà. In effetti s’impone loro di fare i
disegni da bambini. Direi che s’insegna loro a farne. Si è insegnato loro a
fare persino disegni astratti da bambini.
Insomma, come di
consueto, con il pretesto di lasciare ai bambini la loro libertà, di non
ostacolarli, si finisce per imprigionarli nel loro genere, con le loro catene.
Curioso, dice Picasso,
io non ho mai fatto disegni da bambini. Mai. Neppure quando ero bambino.
Ricordo uno dei
miei primi disegni. Forse avevo sei anni, forse meno. In casa di mio padre, nel
corridoio, c’era un Ercole con la clava. Bene. Mi sono messo lì nel corridoio e
ho disegnato quell’Ercole. Ma non era un disegno da bambini. Era un vero e
proprio disegno che raffigurava Ercole con la clava.
A Mougins nevica. È
domenica. Jacqueline si mette al volante e porta via Picasso, a caso, tra
quelle montagnole subito là fuori, appena voltate le spalle alla costa. Sono
belle, con quei ripidi declivi, quelle gole, quei colli, quelle radure, quelle
macchie.
A Picasso e a
Jacqueline capita un’avventura. C’è un velo di ghiaccio sotto le ruote; c’è un
cielo intensamente azzurro sopra le loro teste. Si divertono a sentirsi soli
nel mondo, a non sapere dove vanno. Si perdono. Sono contenti, pazzi,
innamorati, avventurosi. Forse stanno per rompersi il collo, e non ci vuole
molto, in quella natura magica e nevosa che pare oro ciò che di più bello v’è
al mondo. E di più solitario.
(La penna, come si
dice, cerca di seguire il filo del loro racconto.)
Perché di questa
passeggiata essi parleranno a lungo, come di un viaggio nel paese delle
meraviglie, come di un’avventura della quale conserveranno nella mente il
piacere dell’imprevisto, della libertà, e il rimpianto. (Per fare più bello il
racconto, fu tirato in ballo persino un castello sorto improvvisamente dalla
strada, e dalla mente di Picasso. Essi guardano il cortile attraverso il buco
della serratura; ed ecco che c’è una festa; ed entrano tutti coperti di neve,
con i loro scarponi, nella festa del Grand Meaulnes.)
Tornano felici a
Mougins.
Perché raccontare
questa passeggiata? I Guerrieri dormivano in sospeso come il loro signore. I pittori
e le modelle non erano ancora nati. Ma il 26 dicembre 1962 venne al mondo
quella tela blu. Una tela unica, con quelle montagne, quei fianchi di ghiaccio,
quei blu di neve, quegli occhi di lago.
Orgoglioso, Picasso
annunzia: «Ho fatto un paesaggio».
Cinque giorni dopo
è l’ultimo dell’anno. Pomeriggio del 31 dicembre. Picasso dipinge un enorme
sonatore di zufolo seduto a gambe larghe, con i gomiti alzati, su una tela per
metà blu (il cielo) e per metà verde (l’erba). L’uomo spande la sua musica
sull’universo. È una tela carica di felicità, singolarmente ispirata. Un
profeta suonava il flauto. Era grande come il mondo. Annunziava tempi nuovi.
A gennaio si
possono vedere nello studio tutti i Guerrieri, tutti i loro cavalli e tutte le
loro teste, tutte le donne e tutti i bambini, il gatto, il cane crudele e
l’aragosta; e, dietro, dei blu che non si sa di dove scappino fuori. E Picasso
dice che è proprio curioso, che ha fatto cose piuttosto strane quell’inverno…
Dice a Pignon:
«…tu che sei pittore, tu lo sai come succede. Si può durare una fatica da morire, strapparsi
la pelle per fare tele che nessuno ti costringe a fare. Anzi, tutti se ne
infischiano, non importa niente a nessuno che tu lavori intorno a questa o a
quella cosa. Il fatto è che si sceglie sempre il peggio, anche se si sa che a
quelli là piacerebbe molto di più un bel mazzo di fiori. Ad ogni modo non gli
piacerà. E anche se gli piace, sta sicuro che non sarà affatto per merito della
pittura. Però tu, tu pittore, hai lavorato, ed è già molto, ti senti contento.
Così te ne vai a passeggio e fai un paesaggio o un brav’uomo che suona lo
zufolo. Perché? Perché questo e non Notre Dame? O il ritratto del pappagallo?
Te lo dico io perché. Mentre lo fai, ti dà piacere, ti conforta. E l’essenziale
è questo.»
Sulle pagine
bianche di una «serie nera», quella sera stessa, nella mia camera, ho annotato
tutte queste cose perché non volevo dimenticare una frasetta sulla libertà che
serviva di conclusione. «Bisogna stare molto attenti a quello che si fa. Perché
proprio quando si crede di essere meno liberi, accade che lo si sia di più. E
non lo si è affatto quando ci si sentono ali grandissime: quelle ali ci
impediscono di camminare.»
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