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lunedì 15 luglio 2019

Picasso. Segreti d'alcova di uno studio


Segreti d’alcova di uno studio
Editori Riuniti, Roma 1966.

Titolo originale: Le peintre et son modèle
Editions Cercle d’Art, Paris 1965

Il giorno in cui Picasso chiamò Segreti d’alcova di uno studio quel vivo miscuglio di opere d’ogni tempo, di oggetti, di materiale, di arnesi disposti tutt’intorno a un pittore che dipinge e che fanno l’atmosfera nella quale l’opera si sviluppa, non sapeva quanta ragione avesse.
Qualcuno si è detto sorpreso, persino indignato per una definizione siffatta. Come se la virtù della pittura fosse messa in discussione.
Ma non è affatto vero che tutti i segreti siano scandalosi. Né è vero, d’altra parte, che le alcove siano ghiotte dei peggiori bocconi dell’amore.
Anzi.
E se io scrivo che Picasso non sapeva quanta ragione avesse, è perché, quando andiamo ad alzare un poco le tende dell’alcova della pittura, ahimé, cerchiamo vanamente i segreti che non ci sono più. Qualche cosa è accaduto, ma noi non c’eravamo. Però ecco lì tutte le prove: il colore ancora fresco, la tela ancora sgualcita, e il disordine del processo… Il solo corpo del reato che abbiamo, la pittura, non prova né dimostra niente. All’infuori del suo tumultuoso svolgersi…


Quando a Vallauris ha dipinto la bambina che salta con la corda, prima ha fatto una tela. Il terreno vi è accennato con un breve tratto. L’ombra, per dir meglio.
Tempo fa ha ricevuta fusa nel bronzo la scultura tratta dallo stesso dipinto che è a Notre Dame de Vie.
Al tempo in cui ne metteva insieme gli elementi, la scultura diventava la maggior ricerca del reale. Quel problema della bambina sospesa per aria non esasperava la pittura.
Ma la scultura doveva trovare il modo di uscirne. Come?
Un giorno Picasso compare tutto felice. Ha lavorato intorno al problema della bambina che salta con la corda sospesa nello spazio.
«Ho trovato - dice - su che riposa la bambina quando è per aria. Sulla corda, naturalmente! Ma come ho fatto a non pensarci prima?»


Nell’alcova dello studio a Notre Dame de Vie, mescolate insieme con tutte le altre, ci sono tre tele con dei colombi. Sono i colombi dipinti alla California. (Non so dove siano le altre tele, ne ha fatte molte.) Alla California, Picasso dipingeva Les Ménines in una camera al terzo piano. Sul balcone aveva costruito da sé la piccionaia. I colombi volavano, tubavano, facevano le uova, le covavano, si ammazzavano fra loro, lì accanto intorno in mezzo a Picasso che dipingeva Les Ménines. Ma anche Les Ménines erano la realtà. E nient’affatto perché le finestre erano le sue o perché il bassotto Lump era al posto del grande cane di Velazquez, così come il dalmata Perro entrava nelle tele dei buffè di Vauvenargues e l’afgano Kaboul nelle tele di Notre Dame de Vie.
Picasso costringeva Velazquez a esprimere una realtà che il suo secolo non poteva concepire. Con la realtà delle Ménines, egli dipingeva la sua realtà del XX secolo.
La pittura è realtà, ma anche una qualunque parte della realtà. Propone al pittore che guarda un quadro lo stesso problema che gli propone il mondo intero. Con l’aggiunta di qualche cosa di più difficile, che è l’anima dell’altro pittore raffigurata in quella realtà.




La realtà, la realtà, la realtà…
Se ne parla tanto che si direbbe non esista. O che la sua esistenza non abbia poi tanta importanza, giacché bisogna battere e ribattere sempre il medesimo chiodo per porvi rimedio.
Tuttavia tante pitture si richiamano alla realtà… Tutte, direi. Si dice che la realtà interiore può astrarre dalla realtà generale ed essere ugualmente una. Quando si parla dell’opera di Picasso, si parla irresistibilmente della realtà, del suo Toson d’oro, del suo Graal.
Una volta egli ha detto: la realtà è una parola che porta dappertutto. La si cucina in tutte le salse.



Il 5 aprile 1960 ha dipinto un piccolo picador tutto nero e un piccolo toro tutto nero che fa impennare il cavallo tutto nero davanti a un piccolo torero tutto nero che agita la cappa. Sono soli nell’arena che si avvolge su se stessa come una chiocciola. Sopra e intorno, un gran cielo e tutti quei puntini sulle gradinate (senza gradinate) che sono la folla. È la corrida. La piccola scena del picador, del matador e del toro tiene col fiato sospeso. L’arena tiene lo spazio.
«Mi piacerebbe - dice Picasso - dipingere una corrida proprio com’è.»
Qualcuno gli risponde: ogni volta che dipingi un toro, un banderillero, una folla, un cavallo, forse non è la corrida proprio com’è? Anche sul fondo di una piccola coppa di terra o di un grande piatto.
«Vorrei farla come la vedo», dice Picasso.
Ma non è così che lui la vede quando la dipinge? Goya, non è così che ha fatto, che ha visto le sue tauromachie?
«Sì. Ma non tutta la corrida, - dice Picasso: - io vorrei farla mettendoci tutto; tutta l’arena, tutta la folla, tutto il cielo e anche il toro com’è e anche il torero e tutta la quadrilla, il banderillero e la musica e poi anche il venditore di cappelli di carta…»
Una vera corrida.
Certo, bisognerebbe fare il toro a grandezza naturale (e lo ha fatto). E l’arena, tutta l’arena intorno?
«Ci vorrebbe una tela grande come l’arena… Spaventoso non poterlo fare… Sarebbe magnifico…»


Tutti i tratti di un volto o di un corpo possono apparire agli occhi dello spettatore anche se sulla tela nessun segno delinea un naso, una bocca, un seno.
Il segno, la macchia, la sua forma, il suo colore, e i rapporti fra loro, hanno «una carica» di realtà. Picasso, in questo inverno 1964, sembra in cerca di una presenza del volto senza desrizione senza enumerazione senza trasposizione senza deformazione, senza niente di ciò che fa il volto, ma che porti tuttavia la carica di un volto.
È ciò che gli fa dire:
«In questo momento, su quelle tele là, dipingo sempre meno».


Quale verità? Dice Picasso. La verità non può esistere.
Se io cerco la verità nella mia tela, posso fare cento tele con questa verità. Allora qual è quella vera? Qual è la verità, quella che mi fa da modella o quello che dipingo? No, è come per tutto il resto. La verità non esiste.
«Ricordo - dice Paulo Picasso - che quand’ero piccolo ti sentivo continuamente dire: “La verità è una menzogna”…»



Si conversa sulla libertà di ricerca, che dà all’artista una tecnica splendida.
«Sì - dice Picasso - ma a una condizione: averne tanta e poi tanta da farla cessare completamente d’esistere. Farla scomparire. A questo punto, ecco, è importante averla. Perché mentre lei fa il suo lavoro, tu ti puoi occupare di ciò che cerchi.»






La libertà, dice Picasso: bisogna stare attenti! In pittura e in tutto il resto. Fate come volete, ma alla fine vi trovate con le catene addosso. La libertà di non fare una cosa, ecco: ciò esige che se ne faccia un’altra, in maniera imperativa. Allora, ecco le catene. Mi viene a mente la storia di Jarry; sapete, quando i soldati anarchici fanno le esercitazioni. Dice: fianco destro! e quelli, perché sono anarchici, fanno tutti fianco sinistro. La pittura è così. Prendi la libertà e ti rinchiudi con la tua idea, proprio la tua e non un’altra. E rieccoti con le catene addosso.



Ancora sulla libertà e sulle catene. Picasso se n’esce fuori:
Vi spiegano che bisogna lasciare ai bambini la loro libertà. In effetti s’impone loro di fare i disegni da bambini. Direi che s’insegna loro a farne. Si è insegnato loro a fare persino disegni astratti da bambini.
Insomma, come di consueto, con il pretesto di lasciare ai bambini la loro libertà, di non ostacolarli, si finisce per imprigionarli nel loro genere, con le loro catene.
Curioso, dice Picasso, io non ho mai fatto disegni da bambini. Mai. Neppure quando ero bambino.
Ricordo uno dei miei primi disegni. Forse avevo sei anni, forse meno. In casa di mio padre, nel corridoio, c’era un Ercole con la clava. Bene. Mi sono messo lì nel corridoio e ho disegnato quell’Ercole. Ma non era un disegno da bambini. Era un vero e proprio disegno che raffigurava Ercole con la clava.




A Mougins nevica. È domenica. Jacqueline si mette al volante e porta via Picasso, a caso, tra quelle montagnole subito là fuori, appena voltate le spalle alla costa. Sono belle, con quei ripidi declivi, quelle gole, quei colli, quelle radure, quelle macchie.
A Picasso e a Jacqueline capita un’avventura. C’è un velo di ghiaccio sotto le ruote; c’è un cielo intensamente azzurro sopra le loro teste. Si divertono a sentirsi soli nel mondo, a non sapere dove vanno. Si perdono. Sono contenti, pazzi, innamorati, avventurosi. Forse stanno per rompersi il collo, e non ci vuole molto, in quella natura magica e nevosa che pare oro ciò che di più bello v’è al mondo. E di più solitario.
(La penna, come si dice, cerca di seguire il filo del loro racconto.)
Perché di questa passeggiata essi parleranno a lungo, come di un viaggio nel paese delle meraviglie, come di un’avventura della quale conserveranno nella mente il piacere dell’imprevisto, della libertà, e il rimpianto. (Per fare più bello il racconto, fu tirato in ballo persino un castello sorto improvvisamente dalla strada, e dalla mente di Picasso. Essi guardano il cortile attraverso il buco della serratura; ed ecco che c’è una festa; ed entrano tutti coperti di neve, con i loro scarponi, nella festa del Grand Meaulnes.)
Tornano felici a Mougins.
Perché raccontare questa passeggiata? I Guerrieri dormivano in sospeso come il loro signore. I pittori e le modelle non erano ancora nati. Ma il 26 dicembre 1962 venne al mondo quella tela blu. Una tela unica, con quelle montagne, quei fianchi di ghiaccio, quei blu di neve, quegli occhi di lago.
Orgoglioso, Picasso annunzia: «Ho fatto un paesaggio».
Cinque giorni dopo è l’ultimo dell’anno. Pomeriggio del 31 dicembre. Picasso dipinge un enorme sonatore di zufolo seduto a gambe larghe, con i gomiti alzati, su una tela per metà blu (il cielo) e per metà verde (l’erba). L’uomo spande la sua musica sull’universo. È una tela carica di felicità, singolarmente ispirata. Un profeta suonava il flauto. Era grande come il mondo. Annunziava tempi nuovi.



A gennaio si possono vedere nello studio tutti i Guerrieri, tutti i loro cavalli e tutte le loro teste, tutte le donne e tutti i bambini, il gatto, il cane crudele e l’aragosta; e, dietro, dei blu che non si sa di dove scappino fuori. E Picasso dice che è proprio curioso, che ha fatto cose piuttosto strane quell’inverno… Dice a Pignon:
«…tu che sei pittore, tu lo sai come succede. Si può durare una fatica da morire, strapparsi la pelle per fare tele che nessuno ti costringe a fare. Anzi, tutti se ne infischiano, non importa niente a nessuno che tu lavori intorno a questa o a quella cosa. Il fatto è che si sceglie sempre il peggio, anche se si sa che a quelli là piacerebbe molto di più un bel mazzo di fiori. Ad ogni modo non gli piacerà. E anche se gli piace, sta sicuro che non sarà affatto per merito della pittura. Però tu, tu pittore, hai lavorato, ed è già molto, ti senti contento. Così te ne vai a passeggio e fai un paesaggio o un brav’uomo che suona lo zufolo. Perché? Perché questo e non Notre Dame? O il ritratto del pappagallo? Te lo dico io perché. Mentre lo fai, ti dà piacere, ti conforta. E l’essenziale è questo.»
Sulle pagine bianche di una «serie nera», quella sera stessa, nella mia camera, ho annotato tutte queste cose perché non volevo dimenticare una frasetta sulla libertà che serviva di conclusione. «Bisogna stare molto attenti a quello che si fa. Perché proprio quando si crede di essere meno liberi, accade che lo si sia di più. E non lo si è affatto quando ci si sentono ali grandissime: quelle ali ci impediscono di camminare.»





venerdì 20 marzo 2015

Picasso visto da Hélène Parmelin

L'Aubade, 1965

Fedele alla mia scelta editoriale di riproporre brandelli di vite altrui - Leonardo, Hemingway, Joyce e (adesso) Picasso - allego un breve capitolo estrapolato dal citatissimo (dai biografi) libro Picasso dice… di Hélène Parmelin - traduzione dal francese di Domenico Tarizzo, Rizzoli Editore, Milano 1971, pp. 57-63.



Picasso moralista (seguito)

Tranquillamente allineati sul terreno, chiusi negli esagoni dorati delle piastrelle di ceramica, dei diavoli o dei fauni, degli uomini insomma, facendo sfoggio di tutta la loro virilità, perseguitano col loro ardore, decisi a violarle, ninfe chiomate, fuggenti, spaurite, con tutte le loro grazie esposte: delle donne insomma.
Queste sarabande sfrenate di seni, capelli, sessi, barbe, fianchi, con i piccoli tratti d’unghia ai margini, sono contenute nel piccolo spazio di una piastrella. «Sarebbe carino, un’intera stanza piastrellata così» dice Picasso.
Le ha fatte in una settimana dell’agosto 1962. Nessuna donna o ninfa è consenziente. Ma appare evidente che l’uomo, il diavolo, il fauno avrà l’ultima parola. Nessuna bella fuggitiva si sottrarrà a lungo a simili armi, né a volontà così deliberatamente aggressive. E così trionfanti.

Ieri, grigia giornata d’ottobre, ho fatto con un amico una lunga passeggiata nel parco di Versailles, scendendo verso il grande canale e il Trianon, in mezzo ad alberi d’oro, in una divina solitudine, ben presto però un po’ triste.
Fortunatamente c’erano delle statue, che il parco deserto rendeva più piacevoli del consueto: una quantità di Ercoli e di Apolli, ogni genere di amabile divinità più frequentabile del silenzio dei viali. Le loro foglie di vite ben assestate, più aderenti di guaine d’atleta, donavano alle loro figure una dolcezza ermafrodita.
Ercole stesso, malgrado la clava e l’immancabile leone Nemeo, ne traeva una sorta di angelismo morbido, ben in carattere con la sua natura di statua di Versailles, povero Ercole!...
Picasso si sarebbe divertito se avesse saputo che camminando severamente in questo parco solitario e gelido (ma con gli occhi fissi sulle foglie di vite come la dama di una caricatura in visita al museo) io pensavo al posto che occupano i sessi nella sua pittura: non intendo l’uomo e la donna ma i loro attributi.
Un posto enorme. E in piena evidenza, realistico, in una parola. Intendo cioè dire che il posto che occupano non è maggiore di quello del quale la natura li ha resi degni...
Nella pittura di Picasso tutto è naturalmente conforme alla realtà, comprese quelle parti del corpo umano che nell’uomo e nella donna hanno una funzione primaria.
Il sesso di una donna, il suo occhio, la mano, il piede hanno diritto allo stesso sguardo da parte del creatore responsabile.
Gli occhi, nei volti raffigurati da Picasso, si muovono, si allungano, si ergono verticalmente o si volgono le spalle, sono come fiori o pesci, si incalzano come ondate o si sovrappongono come croci; i nasi si dispiegano, espongono il loro profilo e le loro nari, si aprono, si raddoppiano, si siedono o si coricano sul volto, tutto all’interno di una realtà sovreccitata, di una verità più vera, di una poesia più libera; nello stesso modo i sessi diventano qui pittura come in nessun’altra opera conosciuta. Con la medesima naturalezza, con la medesima disinvoltura. Come forse accade solo nei poeti.
E pensare a Picasso, a tutto questo e ai poeti, mi rimanda ad Apollinaire, di cui Picasso parla così spesso, come parla spesso di Max Jacob. «E Salmon?» mi chiede sempre quando arrivo.
Ad ascoltarlo parlare di quel tempo di poeti, si può immaginare la loro gioventù intenta a produrre quell’infinita libertà che li ha fatti ciò che sono. Se Picasso canta una canzone «di Max» o parla di Apollinaire, avviene qualcosa per cui si è al di là del tempo. Si è altrove. Ed è qualcosa di sfrenato, di generoso, di traboccante, una creatività impetuosa, una follia di parole e di idee in cui in piena naturalezza si colloca la verità ed esplode.
«Ombre del mio amore.» Penso a quei poemi di Apollinaire, dove i seni e le “natiche di rosa” di Lou fioriscono tra i canti del soldato-poeta, in mezzo agli orrori della guerra.

O gracieuse et callipyge
Tous les culs sont de la Saint-Jean...

un roseo ardore d’amore esasperato di sbocciare e di poter solo immaginare, in mezzo alla morte, la meraviglia di amare una donna e la donna e di far di questa rosea pelle un sogno tra i cannoni e le trincee, tutto ciò si dispiega nei versi, l’amore e il desiderio che moltiplicano l’amarezza della morte, la morte che ingigantisce l’immaginazione dell’amore... Finché avanza ciò che, negli stessi poemi, Apollinaire profeticamente chiama «il fatale zampillare del mio sangue sul mondo».
C’era tanto Picasso in Apollinaire, c’è tanto Apollinaire in Picasso.
Il fauno d’amore e l’uomo in guerra sono lo stesso loro personaggio, l’uomo in guerra e l’uomo in tutto.

Che facciano l’amore o la guerra, gli uomini e le donne di Picasso rivelano in piena naturalezza di non essere angeli. Per Matisse, il sesso scivolava via, spariva tra le cosce dell’odalisca. Esisteva soprattutto in armonie, colori e arabeschi, per lo più era solo un punto di intersezione del corpo, raramente diceva il suo nome.
Gli splendidi nudi di Matisse non hanno sesso, come non hanno sguardo. I nudi di Picasso hanno l’uno e l’altro. Per lui il sesso del nudo è una parte indispensabile del corpo di cui va cercando la realtà: sembrerebbe un’affermazione lapalissiana, eppure il pudore da secoli livella i corpi. Anche se a nessuno è mai venuto in mente di cancellare dal volto il naso, questa appendice protesa e annusante.
Per Picasso, il sesso, della pittura e della realtà, è un segno dai molteplici significati come l’occhio, è l’occhio del corpo, il suo punto cruciale, un fiore che sboccia in tratti, macchie o colori in cima allo stelo che nasce dal congiungimento delle gambe. È sempre quello di un innamorato e di un poeta, senza ritegno e senza malinteso.
E se Picasso canta l’amore, conosce un solo modo di farlo. Per di più, vi sono quella sua vivacità spagnola, quella felicità dell’amore, quel costante stupore dell’impeto in tutto, quella capacità di vita senza freno, che danno alla sua opera un respiro così ampio.
Un giorno Picasso voleva far piacere a un amico. Disse:
Ti faccio un disegno”.
«Splendido!»
Cosa vuoi come soggetto?
«Vorrei un disegno sull’amore.»
Picasso disegnò un uomo e una donna che fanno l’amore. Era un disegno magnifico e un magnifico amore. Vi è sempre in Picasso, come in tutti gli esseri che amano l’amore, una specie di intenerimento e di emozione di fronte alla coppia, e ciò colmava il disegno di calore e di tenerezza.
«Ma che cosa posso farne?» disse imbarazzato l’amico. «Non oserò mostrarlo e tanto meno appenderlo.»
Lo tenne nascosto per anni. Quando fu finalmente esposto, quel disegno non turbò mai nessuno.
Picasso ricordò a lungo l’incidente, che trovava terribile.
E a qualcuno che un giorno diceva, non so più a proposito di cosa, che in arte non può esserci pudore, rispose che la pittura poteva dipingere qualsiasi soggetto, a condizione che fosse vera pittura.
Solo quando la pittura non è tale, può esserci oltraggio al pudore.

Tutta la pittura di Picasso glorifica la virilità, e non solo la glorifica, ma l’associa com’è naturale alla potenza, alla violenza, ed eventualmente alla distruzione e alla vittoria.
In un quadro non sopprimerebbe né il sesso dell’uomo né il seno della donna.
Tutti i suoi tori portano ostentatamente gli attributi che fanno la loro potenza. Tutti i terribili cavalli dei guerrieri e delle guerre conducono la loro battaglia di stalloni contro gli uomini, schiacciano l’umanità col sesso in piena evidenza, guerriero e cavallo a un tempo.
Lì è la loro forza e il simbolo della conquista.
Il toro nell’arena, senza i segni della sua virilità diventa l’animale da macello, di quel macello che si sta per farne. Ma se è toro, qui risiede il segreto del suo furore eterno e della sua indomabilità.
Resta l’amore, e Dio sa quanto ne sia impregnata l’opera di Picasso, perché l’amore è la vita stessa. Con tutte le risorse e con tutte le materie del suo mestiere egli ha generato la più numerosa folla di amanti, centauri, ninfe, dei, belle, uomini e donne, spagnole e matadores, nudi a colazione sull’erba, donne d’Algeri, grandi nudi in piedi, seduti, coricati, migliaia di disegni in cui la coppia eternamente cerca l’amore e se ne inebria.
Eppure non vi è nulla di più casto della pittura e del pittore che dipinge. Basta guardare «Il pittore e la modella». La modella è sempre nuda. Come la realtà. Il pittore sempre severo nelle sue vesti di pittore, dietro il cavalletto, preoccupato esclusivamente del problema di dipingere di fronte al nudo. Anche se il clima d’amore nel quale egli può vivere lo riempie e gli dona l’incomparabile ricchezza dei giorni dell’amore, la tela lo chiude e lo astrae. Allora la verità dell’amore si esprime, pittoricamente, all’interno del quadro, nell’intimo di quello strano mondo che è quello del pittore nell’atto di di­pingere.

Il mondo rimprovera a Picasso, e ci vorrà molto tempo prima che smetta, la sua libera rappresentazione della figura umana e l’emancipazione che egli ha dato ai tratti del viso e del corpo per meglio esprimerne la vita.
Eppure nessuno ha esaltato come lui la donna e la sua femminilità, la sua bellezza e fragilità, la sua dolcezza, la sua maternità. Davanti a questo corpo egli è un eterno stupefatto e continua a cantarlo. E a interrogarlo. È quello che egli piange, torce, squarcia nei disastri della guerra o nei massacri degli Innocenti. È il soggetto che preferisce dipingere, più di ogni altra cosa al mondo.

Quando Picasso ha dipinto la serie dei «Déjeuners sur l’herbe», l’esposizione si aprì a Parigi con le tele da un lato e i disegni dall’altro.
Nel frattempo nello studio di Mougins i «Déjeuners sur l’herbe» continuavano a crescere e a moltiplicarsi.
Quando da Parigi si parlava per telefono con Picasso a Mougins, e gli si raccontava delle esposizioni e dei vernissages, lui rispondeva sempre: «Ma qui continua, sapete. La cosa va avanti!». Disegnava e disegnava «Déjeuners sur l’herbe». A forza di disegnarli o di dipingerli, tutti i personaggi che vi partecipavano cominciavano a vivere una vita propria, a esistere, con i caratteri dati loro dai disegni, da un «Déjeuner» all’altro. Tra quei bei nudi campagnoli e i barbuti intellettuali sempre impegnati a parlare, con le loro mani eloquenti, i loro bastoni da passeggio e i cappelli, un bel giorno accadde quel che fatalmente doveva accadere.
«Ci si meraviglia persino» disse Picasso «che non sia successo prima.» Il nudo di Manet di Picasso stava finalmente per diventare preda di quei bei parlatori correttamente vestiti. O almeno essi stavano facendogli una corte... visibile.
«Non si può immaginare cosa stia succedendo» diceva Picasso «Cose orribili!...»

Così terminò, in modo perfettamente naturale, la lunga e severa conversazione, sull’erba della colazione, tra i nudi e i signori.

Coppia che fa l'amore, 1902
Due nudi e un gatto, 1903
Gli amanti, 1904
Il pittore e la modella (Eva), 1914
Lo stupro (L'abbraccio)
Suite Vollard, tav. 29, verso il 1933
Lo scultore e la sua modella
Suite Vollard, tav. 63, 3 aprile 1933
Il Minotauro beve in compagnia dello scultore e di due modelle
Suite Vollard, tav. 85, 18 maggio 1933
Il Minotauro aggredisce un'amazzone
Suite Vollard, tav. 87, 23 maggio 1933
Toro 3, 1945
Toro 5, 1945
Toro 8, 1946
Toro 11, 1946
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1961
Le déjeuner sur l'herbe apres Manet, 1962

domenica 15 marzo 2015

Picasso a Vallauris - di Antonello Trombadori


Inserisco uno scritto di Antonello Trombadori
che integra il mio post
Picasso a Vallauris

Parlo con la pittura[1]

Queste notizie e questi pensieri ci sono stati trasmessi dal critico Antonello Trombadori, che sull’argomento aveva già scritto in precedenza due articoli: il primo sul settimanale «Vie Nuove», Roma, 25 gennaio 1953; il secondo sul quotidiano «l’Unità», Roma, 9 luglio 1958.[2] Di particolare interesse, per la loro rarità, sono i riferimenti che Picasso fa alla sua pittura di paesaggio.

Nel giugno del 1958 andai a trovare Picasso alla «Californie». Si sarebbe dovuto inaugurare il Tempio della pace con la definitiva collocazione nella vecchia cappella a cunicolo di Vallauris dei due grandi pannelli La Guerra e la Pace, dipinti nel 1952, e della lunetta terminale quasi ancor fresca di colore.
Con pretestuosi motivi di «sicurezza» (la cappella non aveva doppia uscita), un’ordinanza di polizia impedì che la cerimonia si svolgesse secondo le previsioni. Finimmo così in pochi amici per festeggiare ugualmente Picasso nel giardino della «Californie», dove egli stesso sistemò a terra gli elementi della lunetta: quattro figure sagomate, bianco, giallo, rosso, nero, le quattro razze umane, sollevanti, da una base verde contro un mondo azzurro, la colomba della pace. Lo stesso insieme che si può oggi ammirare nell’abside della cappella di Vallauris, priva ancora di doppia uscita. Il motivo della proibizione disposta dal ministro gollista Berthoin fu, infatti, nel 1958, stupidamente politico.[3]
«Io non faccio discorsi» disse Picasso. «Io parlo con la pittura. È per questo che oggi hanno voluto impedire l’apertura del Tempio della pace. Le guerre condotte contro il popolo sono sempre gravide di fascismo. Così accadde nel ’36 con Franco. Mi viene in mente che ai tempi in cui la Spagna perdeva le Fiandre, i Paesi Bassi e tutto il suo impero, un pittore di blasoni eseguì per il monarca, a guisa di emblema araldico, un sistema con secchia e verricello. Il cartiglio sentenziava: Plus on lui enlève - plus il est grand».
È un tipico esempio dell’ironia di Picasso, sempre polivalente, mai ambigua. Alludeva a se stesso, a quel monarca della pittura che più riceve colpi e più è trionfatore, ovvero al popolo inesauribile fonte di energia, ovvero, con amarezza, al pozzo senza fondo della stupidità umana? Tutte le versioni dell’apologo funzionano egregiamente, come in un ritratto di Picasso dove l’orrido e il bello, il normale e l’anormale, sono intercambiabili e formano una compiuta ma sempre aperta unità. A me tornano a mente le parole pronunciate da Picasso sei anni prima, quando mi mostrò, nel capannone di Vallauris che gli era servito da luogo di lavoro, Il massacro in Corea e le pitture, appena terminate, de La Guerra e la Pace.
«Per raffigurare il volto della guerra» mi disse in quella occasione «non ho mai pensato ad alcun attributo particolare, salvo quello della mostruosità. Tanto meno all’elmetto o alla divisa del soldato americano, o di qualunque altro esercito. Io non ho nulla contro gli americani. Io sto dalla parte degli uomini, di tutti gli uomini. Per questo non ho saputo immaginare il volto della guerra separato da quello della pace. Anche la pace non m’è venuta in mente con altri attributi che quelli dell’assoluto appagamento dei bisogni umani e della piena libertà degli uomini sulla terra. L’arte deve porre un’alternativa. Vorrei che la mia opera aiutasse gli uomini a scegliere dopo averli obbligati a riconoscersi, secondo la loro autentica vocazione, in una delle mie immagini. Tanto peggio per chi, essendo costretto a riconoscersi nei mostri della guerra, sarà ancora tanto debole da non saper cambiare strada».
Il giorno dopo andammo a colazione sulla collina di Mougins. Da quell’altezza riappare in natura lo stesso paesaggio della baia di Cannes che Picasso ha più volte iperbolizzato sulla tela. Mi disse:
«Bisogna tornare a dipingere il paesaggio con gli occhi. Per vedere una cosa occorre vederle tutte. Il paesaggio si deve dipingere con gli occhi e non con i pregiudizi che stanno nella nostra testa. Magari con gli occhi chiusi,» corresse per timore di avere esagerato «ma con gli occhi».
A quel punto due piccoli aerei volteggiarono tra le sponde delle colline.
«Sono farfalle in amore» commentò Picasso. «Ricordo due versi di Apollinaire per un mio vecchio disegno, un disegno di pecore e capre che brucavano. Apollinaire scrisse: “Mes enfants si vous ne serez pas sages / vous ne mangerez plus du paysage. Davvero l’uomo non mangia che paesaggio, e se è un fatto che il paesaggio muta nel tempo non è detto che esso debba forzatamente mutare per le follie degli uomini, le guerre, le brutture edilizie. L’avvertimento di Apollinaire era perfetto: figli miei, se non sarete buoni...».
Poi, tornando al tema del paesaggio dipinto con gli occhi e puntando il dito in direzione di un’enorme tazza di porcellana isolante all’incrocio dei fili dell’alta tensione, disse: «Sarebbe bello dipingere quel solo particolare. Ma per capirlo e trasformarlo in immagine occorre dipingere l’intera veduta che lo fa esistere così. Non è possibile dipingerlo direttamente senza tutte le sue infinite relazioni. Una volta dipinsi un paesaggio interminabile: colline, terrazze, mare, alberi e non so più che cosa. A un certo punto trovai sul mio cammino una pesca. La dipinsi con attenzione ed evidenza, con avidità. Alla fine mi accorsi che di tutto il resto non m’importava nulla. Volevo dipingere proprio quella pesca. Ma la pesca da sola non avrei nemmeno saputo vederla».


Queste note a pie' di pagina sono di Giancarlo Mauri


[1] Estratto da: Pablo Picasso. Scritti, a cura Mario de Micheli, SE 1998.
[2] L’articolo, pubblicato domenica 6 luglio e non il 9 come scritto nella presentazione, si legge qui:
Ve ne propongo l’incipit:
CANNES, luglio - Nei giorni stessi in cui il ministro gollista Berthoin vietava l’inaugurazione del «Tempio della Pace» di Vallauris, il governo francese riammetteva in patria, a piede libero, l’ex ministro dell’Educazione Nazionale di Vichy, Abel Bonnard, condannato a morte per intelligenza col nemico nel 1945 e vissuto tredici anni in Ispagna sotto la benevola protezione di quei vescovi e di Francisco Franco.
I lettori conoscono la storia del sorpruso di Vallauris ma non è male ricordarla alla luce di questa eloquente coincidenza. Come non è male sapere che la motivazione della Direzione dei Musei di Francia per impedire l’apertura del «Tempio della Pace» («la vecchia cappella non ha una uscita di sicurezza») è una sciocca menzogna: poco lontano da Vallauris, a Villefranche, un’altra vecchia cappella priva di doppia uscita, ma tuttora consacrata e decorata dagli affreschi religiosi di Matisse, è da tempo aperta al pubblico senza avere mai attirato la vigilanza delle autorità. […]
[3] L’Unità, venerdì 4 luglio 1958, pagina 8:
PARIGI, 3 - Il governo De Gaulle, con un nuovo gesto arbitrario, ha proibito la grande manifestazione repubblicana che il comitato di resistenza contro il fascismo aveva deciso di organizzare in Piazza della Repubblica il prossimo 14 luglio, 169. anniversario della presa della Bastiglia.
Proprio ieri, nel corso della sua conferenza stampa, André Malraux aveva detto: «Noi vi chiediamo di giudicarci in base in base alle nostre azioni né più né meno». Dopo di che, avendo De Gaulle congedato il Parlamento, sequestrato recentemente i settimanali «France Observateur» e «l’Express», interdetto l’accesso al Tempio della pace di Picasso e messo in soffitta il 14 luglio (il tutto in poco più di un mese d’attività), si può dedurre che il generale ha il più sovrano disprezzo della democrazia e delle tradizioni democratiche francesi. […]