Inserisco uno scritto di
Antonello Trombadori
che integra il mio post
Picasso
a Vallauris
Parlo con la pittura[1]
Queste notizie e questi pensieri ci sono
stati trasmessi dal critico Antonello Trombadori, che sull’argomento aveva già
scritto in precedenza due articoli: il primo sul settimanale «Vie Nuove», Roma,
25 gennaio 1953; il secondo sul quotidiano «l’Unità», Roma, 9 luglio 1958.[2] Di particolare interesse, per la loro
rarità, sono i riferimenti che Picasso fa alla sua pittura di paesaggio.
Nel giugno del 1958 andai a trovare Picasso alla
«Californie». Si sarebbe dovuto inaugurare il Tempio della pace con la definitiva collocazione nella vecchia
cappella a cunicolo di Vallauris dei due grandi pannelli La Guerra e la Pace, dipinti nel 1952, e della lunetta terminale
quasi ancor fresca di colore.
Con pretestuosi motivi di «sicurezza» (la cappella non
aveva doppia uscita), un’ordinanza di polizia impedì che la cerimonia si
svolgesse secondo le previsioni. Finimmo così in pochi amici per festeggiare
ugualmente Picasso nel giardino della «Californie», dove egli stesso sistemò a
terra gli elementi della lunetta: quattro figure sagomate, bianco, giallo,
rosso, nero, le quattro razze umane, sollevanti, da una base verde contro un
mondo azzurro, la colomba della pace. Lo stesso insieme che si può oggi
ammirare nell’abside della cappella di Vallauris, priva ancora di doppia
uscita. Il motivo della proibizione disposta dal ministro gollista Berthoin fu,
infatti, nel 1958, stupidamente politico.[3]
«Io non faccio discorsi» disse Picasso. «Io parlo con la
pittura. È per questo che oggi hanno voluto impedire l’apertura del Tempio
della pace. Le guerre condotte contro il popolo sono sempre gravide di
fascismo. Così accadde nel ’36 con Franco. Mi viene in mente che ai tempi in
cui la Spagna perdeva le Fiandre, i Paesi Bassi e tutto il suo impero, un
pittore di blasoni eseguì per il monarca, a guisa di emblema araldico, un
sistema con secchia e verricello. Il cartiglio sentenziava:
Plus on lui enlève - plus il est grand».
È un tipico esempio dell’ironia di Picasso, sempre
polivalente, mai ambigua. Alludeva a se stesso, a quel monarca della pittura
che più riceve colpi e più è trionfatore, ovvero al popolo inesauribile fonte
di energia, ovvero, con amarezza, al pozzo senza fondo della stupidità umana?
Tutte le versioni dell’apologo funzionano egregiamente, come in un ritratto di
Picasso dove l’orrido e il bello, il normale e l’anormale, sono intercambiabili
e formano una compiuta ma sempre aperta unità. A me tornano a mente le parole
pronunciate da Picasso sei anni prima, quando mi mostrò, nel capannone di Vallauris
che gli era servito da luogo di lavoro, Il
massacro in Corea e le pitture, appena terminate, de La Guerra e la Pace.
«Per raffigurare il volto della guerra» mi disse in quella
occasione «non ho mai pensato ad alcun attributo particolare, salvo quello
della mostruosità. Tanto meno all’elmetto o alla divisa del soldato americano,
o di qualunque altro esercito. Io non ho nulla contro gli americani. Io sto
dalla parte degli uomini, di tutti gli uomini. Per questo non ho saputo
immaginare il volto della guerra separato da quello della pace. Anche la pace
non m’è venuta in mente con altri attributi che quelli dell’assoluto
appagamento dei bisogni umani e della piena libertà degli uomini sulla terra. L’arte
deve porre un’alternativa. Vorrei che la mia opera aiutasse gli uomini a
scegliere dopo averli obbligati a riconoscersi, secondo la loro autentica
vocazione, in una delle mie immagini. Tanto peggio per chi, essendo costretto a
riconoscersi nei mostri della guerra, sarà ancora tanto debole da non saper
cambiare strada».
Il giorno dopo andammo a colazione sulla collina di
Mougins. Da quell’altezza riappare in natura lo stesso paesaggio della baia di
Cannes che Picasso ha più volte iperbolizzato sulla tela. Mi disse:
«Bisogna tornare a dipingere il paesaggio con gli occhi.
Per vedere una cosa occorre vederle tutte. Il paesaggio si deve dipingere con
gli occhi e non con i pregiudizi che stanno nella nostra testa. Magari con gli
occhi chiusi,» corresse per timore di avere esagerato «ma con gli occhi».
A quel punto due piccoli aerei volteggiarono tra le sponde
delle colline.
«Sono farfalle in amore» commentò Picasso. «Ricordo due
versi di Apollinaire per un mio vecchio disegno, un disegno di pecore e capre
che brucavano. Apollinaire scrisse: “Mes enfants si vous ne serez pas
sages / vous ne mangerez plus du paysage”. Davvero
l’uomo non mangia che paesaggio, e se è un fatto che il paesaggio muta nel
tempo non è detto che esso debba forzatamente mutare per le follie degli
uomini, le guerre, le brutture edilizie. L’avvertimento di Apollinaire era
perfetto: figli miei, se non sarete buoni...».
Poi, tornando al tema del paesaggio dipinto con gli occhi e
puntando il dito in direzione di un’enorme tazza di porcellana isolante all’incrocio
dei fili dell’alta tensione, disse: «Sarebbe bello dipingere quel solo particolare.
Ma per capirlo e trasformarlo in immagine occorre dipingere l’intera veduta che
lo fa esistere così. Non è possibile dipingerlo direttamente senza tutte le sue
infinite relazioni. Una volta dipinsi un paesaggio interminabile: colline,
terrazze, mare, alberi e non so più che cosa. A un certo punto trovai sul mio
cammino una pesca. La dipinsi con attenzione ed evidenza, con avidità. Alla
fine mi accorsi che di tutto il resto non m’importava nulla. Volevo dipingere
proprio quella pesca. Ma la pesca da sola non avrei nemmeno saputo vederla».
Queste note a pie' di pagina sono di Giancarlo Mauri
[1] Estratto da: Pablo Picasso. Scritti, a cura Mario de Micheli, SE 1998.
[2] L’articolo, pubblicato domenica 6 luglio e non il 9 come scritto nella presentazione, si legge qui:
[2] L’articolo, pubblicato domenica 6 luglio e non il 9 come scritto nella presentazione, si legge qui:
Ve ne propongo
l’incipit:
CANNES, luglio - Nei
giorni stessi in cui il ministro gollista Berthoin vietava l’inaugurazione del «Tempio della Pace» di Vallauris, il governo
francese riammetteva in patria, a piede libero, l’ex ministro dell’Educazione
Nazionale di Vichy, Abel Bonnard, condannato a morte per intelligenza col
nemico nel 1945 e vissuto tredici anni in Ispagna sotto la benevola protezione
di quei vescovi e di Francisco Franco.
I lettori
conoscono la storia del sorpruso di Vallauris ma non è male ricordarla alla
luce di questa eloquente coincidenza. Come non è male sapere che la motivazione
della Direzione dei Musei di Francia per impedire l’apertura del «Tempio della
Pace» («la vecchia cappella non ha una uscita di sicurezza») è una sciocca
menzogna: poco lontano da Vallauris, a Villefranche, un’altra vecchia cappella
priva di doppia uscita, ma tuttora consacrata e decorata dagli affreschi
religiosi di Matisse, è da tempo aperta al pubblico senza avere mai attirato la
vigilanza delle autorità. […]
[3] L’Unità,
venerdì 4 luglio 1958, pagina 8:
PARIGI, 3 - Il governo De Gaulle, con un
nuovo gesto arbitrario, ha proibito la grande manifestazione repubblicana che
il comitato di resistenza contro il fascismo aveva deciso di organizzare in
Piazza della Repubblica il prossimo 14 luglio, 169. anniversario della presa
della Bastiglia.
Proprio ieri, nel corso della sua conferenza
stampa, André Malraux aveva detto: «Noi
vi chiediamo di giudicarci in base in base alle nostre azioni né più né meno».
Dopo di che, avendo De Gaulle congedato il Parlamento, sequestrato recentemente
i settimanali «France Observateur» e «l’Express», interdetto l’accesso al
Tempio della pace di Picasso e messo in soffitta il 14 luglio (il tutto in poco
più di un mese d’attività), si può dedurre che il generale ha il più sovrano
disprezzo della democrazia e delle tradizioni democratiche francesi. […]
Le tre immagini che seguono, aventi come soggetto
La Californie (Cannes)
sono estratte dal volume i Picasso di Picasso
La Californie (Cannes)
sono estratte dal volume i Picasso di Picasso
di David Douglas Duncan
Edita S.A., Lousanne, 1961
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