sabato 14 settembre 2019

Una pagina di storia delle Grigne - Claudio Cima Benincà


Siamo alla fine degli anni Sessanta. Da tempo meditavo di scrivere una guida delle Grigne, rinverdendo l’ormai vecchio libro di Saglio edito dal TCI-CAI nel 1937. Un’impresa improba la mia, soprattutto per la parte alpinistica, che avrebbe richiesto non pochi contributi esterni.
Inattesa, nel 1971 arriva in libreria un titolo inequivocabile: Le Grigne, una guida firmata da Claudio Cima dove è preponderante la parte alpinistica, strettamente limitata quella escursionistica. Confesso di aver subito un duro colpo: il mio certosino lavoro di ricerca di ogni notizia inerente le prime esplorazioni e le prime ascensioni era divenuto pressoché inutile.


Per attutire l’amarezza dirottai le mie ricerche sullo studio di una possibile Alta Via delle Grigne, un anello circolare di sentieri colleganti cime e rifugi, un genere di escursionismo che in quegli anni stava prendendo piede, soprattutto in ambito dolomitico.
Sfruttando le passate esperienze nelle Grigne, presi a descrivere i possibili anelli da me ideati, carteggio poi inviato ai rari editori italiani interessati alla montagna. L’unico a rispondermi fu Oscar Tamari, che dopo aver visionato il lavoro mi fissò un appuntamento da lui, a Bologna. Pragmaticamente, l’editore-stampatore suggerì di aggiungere altri sentieri alla mia Alta Via delle Grigne, così da integrare la guida di Claudio Cima, un lavoro che fin da subito era stato oggetto di pesanti critiche arrivate da più parti, soprattutto dai soliti inutili idioti corrosi dentro e fuori dall’invidia.
La disponibilità mostrata da Oscar lasciava una porta aperta: se riuscivo nell’intento da lui auspicato, a sue spese avrebbe stampato e distribuito il mio primo libro.




Seguirà un anno complicato. Il 4 novembre 1974 nasce Marco. Il 1° febbraio 1975 mi trovo senza lavoro (senza preavviso la ditta di Monza ha chiuso i battenti, trattenendo l’ultimo stipendio e il Tfr). Noi due (io e Daniella) si tira la cinghia, io mi sbatto per trovare un lavoro - impresa ardua: siamo in 2500 a farlo e il territorio è saturo. A luglio il caldo è soffocante e Marco, che sta mettendo i primi denti, ne soffre. Prendo la tenda e la vado a piantare ai Piani Resinelli, a mezza strada tra la chiesetta e l’Alippi. Più sotto, ai Colonghei, vi è chi tiene delle vacche al pascolo: il latte per Marco è assicurato.




Sono giorni intensi. Per onorare l’impegno preso con Tamari devo sfruttare ogni minuto di questa trasferta. Carta, penna, orologio, altimetro, cartina del TCI e vecchie pubblicazioni sulla segnaletica a portata di mano, prendo a girare per le Grigne alla ricerca di ogni rimasta traccia di passaggio. Talvolta lascio la tenda all’alba e rientro al tramonto. Un giorno dai Resinelli scendo a Maggiana, attraverso fino a Rongio, salgo all’Elisa, da questa al Buco di Grigna, poi per la Cresta del Giardino, le serpentine della Val Scarettone in discesa fino al Colle Valsecchi, punto di contatto col Sentiero della Direttissima. Nel tardo pomeriggio sono di nuovo alla tenda.
Agosto lo passo in città pestando sui tasti della Lettera 32, ticchettio di tanto in tanto interrotto per nuove capatine di controllo sulle Grigne.
A novembre ritrovo il lavoro (e lo stipendio) e noi tre si va a festeggiare i nostri compleanni (sì siamo tre scorpioni novembrini) a Bologna, dove consegno le pagine di Escursioni nelle Grigne all’editore Tamari. Per ragioni di programmazione interna, la guida arriverà nelle librerie il 15 luglio del 1976.


Nei miei colloqui con Oscar Tamari si finiva sempre col parlare del lavoro di Claudio Cima. Lui si era appoggiato, anche troppo, ad un paio di nomi dell’arrampicata locale, col risultato di far diventare facili vie di roccia che proprio così facili non erano. Un gioco pericoloso, questo. Chi scrive guide di montagna deve sempre tener conto che la platea dei suoi lettori è vasta ed eterogenea. Accodarsi alle bizze del campioncino di turno, che a suo piacimento trasforma il V in IV grado o peggio ancora un VI in V, è cosa da non fare. Caso mai, nel dubbio, è meglio salire di grado, scoraggiando i meno preparati. Tra gli alpinisti vi era chi, scherzando ma non troppo, affermava: non sei in grado di ripetere una via di sesto grado? Nessun problema. Aspetta la prossima edizione della guida di Cima e vedrai che sarà diventata di quinto, quindi più facile …e se aspetti ancora, tra qualche anno sarà di quarto…
Deciso a dare un contributo critico positivo, invio a Tamari una busta contenente non poche annotazioni fondate sulle mie esperienze alpinistiche, chiedendo il favore di farle pervenire a Claudio Cima. Oscar mi assicura d’averlo fatto, da Claudio nessuna risposta.


Scalate nelle Grigne esce nel 1975, ma dei miei contributi non vedo tracce. Noto invece che il nuovo titolo - ora non più semplicemente Le Grigne - è stato scelto per creare un legame col mio lavoro, ancora inedito ...e un madornale refuso tipografico lo conferma: nelle cartine che accompagnano Scalate nelle Grigne si legge Escursioni nelle Grigne, un titolo inesistente.


Come ho già scritto, nel luglio del 1976 esce la mia guida …e anche qui, tanto per non cambiare, la Rivista Mensile del Club Alpino Italiano pubblica una lettera di critiche spedita dal CAI di Lecco, critiche a cui ribatto punto per punto. Siccome la legge non è uguale per tutti, la mia risposta non sarà mai pubblicata. Noblesse oblige.



Al contrario, su carta intestata della Rivista della Montagna, in data 19 ottobre 1976 Claudio Cima m’invia un cavalleresco commento.



Il ghiaccio è rotto e noi due ci si prende a frequentare con una certa assiduità. In verità ci si era già conosciuti prima, ma sempre di sfuggita: ricordo una volta al Colle Valsecchi, dove lui rientrava dopo aver tentato la prima salita invernale della Cresta Segantini del 1966-67 (ci riusciremo io, Giuseppe e Luigi Verderio, il giorno stesso dell’incontro con Claudio, come da lui ricordato in un articolo apparso anni dopo). Un’altra volta lo ricordo all’attacco della Cassin alla Medale, dove era legato alla corda del Dumenigh Mazzini, persona a me cara.
Dei tanti nostri giri conservo rare tracce fotografiche: una ci vede sul Sentiero del Tecett e alla chiesetta di San Martino, sopra Lecco.





L’altra sulla Strada delle 52 gallerie, in Pasubio, dove Cesco Zaltron, l’allora gestore del Rifugio Balasso, lo assalì verbalmente per via dell’ascensione al Baffelàn raccontata da Reinhold Messner nel suo libro Settimo grado …e io lì a sorbirmi Claudio che mi riteneva responsabile: non dovevi fare il mio nome con lui! è l’accusa. Bastava m’avessi avvisato prima, la mia difesa. Tutto è poi finito ai piedi della famigerata parete del Baffelàn, sdraiati sul prato, godendoci una lattina di birra e un sigaro di Brissago, due must che Claudio aveva introdotto nella mia dieta.










Al telefono Claudio mi informa di aver deciso di lasciare Milano per ritirarsi nella casa dei suoi avi, nel bellunese. Mi racconta che ha chiuso ogni rapporto con l’editore Tamari - reo, a suo dire, di stampare e vendere più copie di quante dichiarate -, che intende dedicarsi all’insegnamento scolastico e scrivere libri sulle Dolomiti. Chiude invitandomi a passare da lui ogni volta che sarai dalle mie parti.
Non accadrà. Per anni la vita professionale mi ha portato a frequentare più aeroporti che rifugi, lui in Grigna non vuole più mettere piede. Restiamo in contatto telefonico e seguendo i rispettivi lavori editoriali.


La notizia della sua morte - 8 settembre 2005 - mi arriva con qualche giorno di ritardo. Contatto sua madre, la signora Antonietta, e lei conferma: Claudio doveva sbrigare delle pratiche a Belluno. La sera non è tornato e il giorno dopo ho avvistato i carabinieri chiedendo di mettersi alla sua ricerca, ma loro mi hanno sempre risposto: non si preoccupi, vedrà che tornerà. E intanto i giorni passavano. Poi, a furia d’insistere, qualcuno si è mosso. L’hanno trovato morto nel letto di un torrente. Il suo zainetto era vicino a una panca con lo schienale sfondato. Dicono che vi si sia appoggiato, lo schienale si è rotto, lui ha perso l’equilibrio


Con una mail informo la segreteria del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna), poi stilo un breve necrologio che invio alle riviste di settore. Sarà ignorato da tutte le redazioni, eccezion fatta per il Bollettino della SAT. Lo stesso necrologio, introdotto da Alberto Benini, lo proporrò un anno dopo tra le pagine di Vertice, l’annuario della Sezione CAI di Valmadrera a cui collaboravo.



Quando passi da Belluno vienimi a trovare, diceva Claudio. Tardi, ma l’ho fatto. A casa ho trovato sua madre. Al cimitero la sua lapide è accanto a quella di un suo fratello, morto pochi mesi dopo. Quel giorno ero con Daniella: la prossima volta fermatevi anche a dormire è stata la richiesta della signora Antonietta. Non vi è mai stata l’occasione.

domenica 8 settembre 2019

8 settembre 1944 - Giuseppe Verderio


L’8 settembre non mi ricorda soltanto una data dell’infausta storia patria.
L’8 settembre 1944 è soprattutto la data di nascita di Giuseppe Verderio, mio compagno di cordata a partire da una primaverile domenica del 1965 - e qui non rammento il giorno perché all’epoca non tenevo il conto delle ascensioni. Entrambi lavoravamo a Monza, stessa ditta, reparti differenti: lui era tornitore, io fotografo industriale. Una mattina lui mi abborda: ho saputo che vai ad arrampicare. Io non l’ho mai fatto ma vorrei tanto provare. Non è che una domenica mi porti con te?
Io non avevo un compagno di cordata fisso. Talvolta arrampicavo con degli amici di Sesto San Giovanni - Luigi Dendi e Giuseppe Camanini -, due ragazzi conosciuti in Grigna, ma il più delle volte me ne andavo solitario, cercando sassi sperduti su cui imparare a non cadere.
La proposta del Beppe era quindi musica per le mie orecchie e subito trovammo un accordo: io avevo una vecchia Gilera 150 e una corda da 40 metri; lui una Lambretta 125 …e basta.
Una visita ad un negozio di Monza che teneva chiodi, moschettoni e corde in rotolo da tagliare su misura e il gioco era fatto: domenica si va in Grignetta. Insieme.
Ovviamente, il banco di prova non poteva che essere il Campaniletto. All’attacco insegnai al Beppe le regole basilari su come legarsi in cordata e su come fare sicurezza (spalla a monte, ascella a valle e al compagno). In vetta ci si strinse la mano. La nuova cordata era nata, ma si fece poco: il 29 aprile il Beppe m’inviava la prima cartolina da Torino, dove era in servizio militare nell’arma dei carabinieri. Gli risposi con una lettera in cui lo informavo che in cordata con gli amici di Sesto SG ero salito in vetta al Nibbio, una parete che il Beppe aveva tanto desiderato.














Luglio 1966: Beppe ha il congedo in mano e insieme si torna sui monti. A lui manca l’allenamento ma non certo la volontà. Per le vacanze estive (due settimane in tutto) gli propongo di salire a Demonte, cittadina in provincia di Cuneo dove mio padre aveva conservato delle amicizie risalenti al tempo della guerra contro la Francia - e dove io avevo stretto amicizia con alcuni giovani della mia età (avevo 19 anni, 20 a novembre).
Gilera e Lambretta sotto il culo, zaino con corda, chiodi e martello in spalla …e via, stavolta in compagnia di Luigi, il fratello più giovane del Beppe.
Dei ragazzi di Marsiglia in vacanza alla frazione Cornaletto di Demonte ci mostrarono una parete dall’aspetto strano: tondeggiante e con una grotta in basso, ricoperta da uno strato gessoso nella parte superiore. Decidiamo di metterci le mani sopra. L’attacco è nel vuoto, sopra pare una saponetta, ma chiodo dopo chiodo m’innalzo. Abbiamo ripreso a fare cordata.










Un giorno Beppe esprime un desiderio: vorrebbe provare l’esperienza di salire da capocordata. L’occasione si presenta il 2 giugno 1967, quando mi prende l’uggia di andare a dare un’occhiata alla rossa e strapiombante parete del Torrione Porro, in Valmalenco. Attacco subito a destra di uno spigolo ricco di tetti. Traverso a destra, le dita in una fessurina. Una lastra di roccia fuoriesce per 80-90 cm. L’afferro con una mano, poi con l’altra. Adesso devo tirarmi su di peso, il vuoto sotto i piedi, e issarmici sopra. E questo è solo l’attacco, penso. Ricupero il Beppe e insieme guardiamo verso l’alto: a destra dello spigolo vediamo una possibile via di salita. Qui gli dico: vuoi fare il capocordata? allora facciamo un tiro di corda a testa. Beppe mi guarda e i suoi occhi non nascondono la gioia. Parte e supera i 40 metri delle placche verdi.  Lo raggiungo e le successive placche rosse sono tutte per me. Segue un tratto facile, dove saliamo di conserva. Il diedro terminale è cosa mia. Due ore dopo essere partiti ci stringiamo la mano in vetta. La Via Mauri-Verderio è cosa fatta. 250 metri di IV e V, nessun chiodo infisso in parete, neppure per le soste. Più ecologici di così…







Una gelida giornata di fine dicembre del 1968 ci vede attendati ai piedi della parete della Medale, sopra Lecco. Intendo esplorare se a destra della via aperta da Cassin e Boga vi è una possibilità di salita. Salgo alcuni tiri di corda - ricordo di aver messo un solo chiodo, non indispensabile - fino ad arrivare ad un’erbosa cengia (si vede nella foto 31). Sopra di noi la parete prende a strapiombare. Il freddo è cane - e il Beppe pagherà caro l’essersi dimenticato di mettere l’antigelo nel radiatore della sua Seicento. Un chiodo di sicurezza, che ci servirà per calarci in corda doppia, ed eccoci seduti a rimirare il mondo da questo nido d’aquila. Tolgo il formaggio (francese) dallo zaino e facciamo colazione. Torneremo quando farà più caldo per finire la nostra via, ci diciamo.
Non sarà così. Il Beppe muore il 2 marzo 1969, cadendo dalla vetta della Medale mentre eravamo sul facile sentiero di discesa.