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domenica 12 settembre 2021

Tra l'Indo e la Stura di Demonte. Albo di ricordi


A memoria recente, solo due libri hanno scatenato in me così tanti ricordi di tempi e viaggi lontani ma non per questo dimenticati.
Il primo s’intitola Imperi dell’Indo, scritto da Alice Albinia nel 2008 e pubblicato in Italia da Adelphi nel 2013. Il suo sottotitolo, La storia di un fiume, puntualizza il racconto che si snoda nelle 403 pagine successive (493 alla fine del lungo elenco di Note, Bibliografia, Glossario, Ringraziamenti e dell’uitilissimo Indice analitico). Albinia, inglese residente in India, raccontando del suo viaggio seguendo l’Indo dalla foce alle sorgenti tratta argomenti a me cari, studiati in lunghi viaggi solitari - come ha fatto lei del resto, sempre che solitario possa essere definito dai puristi da divano e giornale un viaggio fatto da una giovane donna (classe 1976) in compagnia di due o tre uomini reclutati sul posto, tra cui l’indispensabile autista per il fuoristrada preso in affitto. A mio avviso, a rendere “solitario” un viaggio è l’insieme congiunto dell’intuizione (concretizzare un’idea restando fuori dai circuiti lordati dai viaggi organizzati), degli studi che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, tenendo - una volta sul campo - gli occhi ben aperti per evitare ogni possibile pericolo, sia esso oggettivo che soggettivo, ma anche sempre collegati al cervello per comprendere il territorio in cui ci si muove giorno dopo giorno. Una fatica che ben conosco, ma quanta gioia procura! (e portarsi appresso altri compagni che non siano di etnia locale è solo causa di distrazione).


Nel suo libro, Albinia riporta alla luce tante mie esperienze vissute e quindi, leggendolo, mi è stato “naturale” attaccarmi al computer e commentare ogni suo capitolo, aggiungendo informazioni di natura culturale, filosofica-religiosa e antropologica. Alla fine mi sono ritrovato con tante pagine di annotazioni integrative, il cui numero ammonta a quelle del testo stampato da Adelphi. Di metterle in rete e renderle pubbliche non mi sembra proprio il caso. Innanzitutto, devo trovare persone che hanno già letto il libro dell’Albinia e che siano disposte a rileggerlo una seconda volta saltando tra le pagine stampate e i miei appunti integrativi. Tradotto in soldoni: un lavoro per un pubblico inesistente. Ho quindi tenuto tutto per me, depositato nella cartella Albinia Alice.


Il secondo libro è Il giardino incantato di Carlo Grande, stampato nel 2021 da Edizioni Terra Santa, la casa editrice che fa capo alla Fondazione Terra Santa e al suo centro editoriale Custodia di Terra Santa in Italia. I frati francescani.
Non pochi dei 17 capitoli in cui il libro è suddiviso hanno riportato in superficie le tante stratificazioni della mia vita. Leggo della valle della Stura, del Colle della Maddalena, di Demonte e mi rivedo in vacanza - la prima vera vacanza della mia vita e l’unica coi miei genitori, anno 1964. Coi mezzi pubblici di allora - i treni color merda e l’odore ferroso dei binari chi li ricorda? - siamo arrivati a Demonte, dove amici di mio padre - lui nel 1939, giusto un mese dopo aver sposato mia madre, era stato inviato sul fronte di guerra con la Francia e lì vi era rimasto fino all’8 settembre del “liberi tutti” - ci avevano procurato una stanza nel sottotetto di una vecchia palazzina del centro. Lavandino e latrina fuori, sul pianerottolo di legno, come di legno erano le scale e le pareti. Subito ho fraternizzato coi figli degli amici dei miei genitori (anche mia madre era vissuta un paio d’anni a Demonte, dove aveva raggiunto il marito portandosi appresso mia sorella, nata nel 1940) e coi loro amici, torinesi che ogni anno arrivavano in vacanza.






La sera stessa, noi giovani eravamo ai piedi delle mura del castello. Qualcuno aveva portato il mangiadischi e un tot di 45 giri, giusto per far festa ballando. Una ragazza minuta ma ben proporzionata fu la compagna affidatami dal destino. Aveva una decina di anni più di me e veniva da Alessandria. Al nostro primo incontro la chimica ci mise del suo. Lei, smaliziata, percepì i miei ardori e a un certo punto mi disse: capisco il tuo entusiasmo ma non è il caso che mi strozzi, versione casereccia del più noto aforisma: Is that a gun in your pocket, or are you just glad to see me? (Hai una pistola in tasca o sei semplicemente felice di vedermi?). Ci rimasi male. Ero giovane, 18 anni, ma non aggressivo verso le ragazze. Per evitare una nuova gaffe, nelle successive serate con dischi e mangiadischi mi ero proposto di evitare di ballare con lei, ma così non fu. Ora era lei che mi cercava e ballando i lenti mi si stringeva addosso, molto addosso, troppo addosso. I ruoli si erano invertiti: essendo più alto di lei, non potevo dirle “mi strozzi”, quindi alle sue provocazioni reagivo allontanando il mio corpo dal suo, creando un vuoto nell’area più sensibile, mettendo in pratica i versi di una canzone di Guccini: bisogna saper scegliere i tempi, non arrivarci per contrarietà. Due settimane di vacanza, tante tempeste ormonali.


Sopra Demonte vi è la frazione Cornaletto. Qui veniva in vacanza una famiglia originaria della contrada ma residente a Marsiglia. Ero diventato amico dei figli, maschi e femmine. Loro parlavano solo francese e per me era un piacere mettere in pratica la lingua studiata a scuola. Ricordo la loro grossa Peugeut posteggiata nella corte dal suolo sassoso e su cui scorrevano i liquami rilasciati dalle vacche in stalla …e tra questi liquami loro giocavano a bocce, sport amatissimo dai francesi.


Sopra al Cornaletto una parete di roccia aveva attirato la mia attenzione. La base era strapiombante, un lavorìo degli arcaici ghiacciai, e al suo centro vi era una classica pissavacca, il nome dato ad ogni cascata d’acqua che fuoriesce lontano dalla roccia. Mi piaceva …ma ero solo, senza corde né chiodi - e il Beppe era militare di leva nell’Oltrepò pavese, corpo dei carabinieri.



A Demonte sono tornato l’anno dopo, stavolta col Beppe e suo fratello Luigi. Io avevo una vecchia Gilera 150 cc, il Beppe una Lambretta 125 cc, una cilindrata non ammessa in autostrada. Partenza alle 4 del mattino, attraversamento di Milano. In piazza Duomo si prende via Torino, poi via in direzione di Abbiategrasso, la strada da noi scelta per il Piemonte. Ricordo strade strette e tanta nebbia. Poco prima di mezzogiorno eccoci a Demonte, dove i miei amici ci avevano messo a disposizione la stessa stanza dell’anno precedente.
All’angolo con la strada che attraversa Demonte vi era una trattoria. Noi tre occupiamo un tavolo. Ad un certo punto sentiamo delle urla arrivare dalla cucina. Subito dopo la porta si spalanca, un uomo corre tra i tavoli inseguito da un secondo uomo vestito da cuoco che impugna un lungo, aguzzo coltello da macellaio. I due urlano. Il primo esce in strada, il secondo si ferma sulla porta continuando a sbraitare. Poi rientra in cucina e riprende il suo lavoro. Benvenuti in Provincia granda…
Sotto ai portici, nei pressi del panificio - i grissini erano una vera specialità - una serie di gradini di pietra anticipano un ingresso. Qui, abitava Carla, in vacanza coi suoi genitori. Ci eravamo già frequentati l’anno prima e rivederci è stato bello. Lei aveva una Vespa col sidecar, l’unica del genere mai vista in vita mia, e con questa, io nel carrozzino, facevamo gite a due su per la valle. Un giorno lei si ferma davanti alle mura del forte di Vinadio, resti abbandonati ma che, vox populi, aveva degli interni interessanti, non fosse che ogni ingresso era stato murato. Era una provocazione? Accettata. Mi attacco alle mura e arrampico fino ad un finestrone. Una volta all’interno cerco un possibile varco rimasto libero. Nella penombra mi lascio guidare dalle luci. Trovo un pertugio all’esterno nascosto dalla vegetazione. Esco: il passaggio a nordovest è stato trovato! Adesso sappiamo come entrare facilmente e senza essere visti. Le visite si susseguono e i meandri del forte non avranno più segreti per noi.
Un giorno organizziamo la gita pedestre al santuario di Sant’Anna di Vinadio. In cima troviamo nebbia e freddo. Carla non ha di che coprirsi, io le cedo il mio maglioncino …restando a barbelare per il freddo al posto suo. Qualcuno scatta una foto.


Come già detto, sopra il Cornaletto vi è la parete rocciosa che uno strato di gesso ha reso liscia come una lavagna. Nessun appiglio in vista. Io e il Beppe andiamo a dare un’occhiata. Un possibile attacco è a destra, dove lo strapiombo è minimo. Al centro, la parete forma una grotta. Da solo, senza assicurarmi, attacco il soffitto. Il Beppe mi scatta alcune foto. Poi un chiodo esce di colpo, io volo e cado a terra sulla schiena. La botta si fa sentire, soprattutto i polmoni che per un tot non vogliono sapere di dilatarsi. Mi è andata di culo.



Una gita a Cuneo si rende necessaria. Cerchiamo un negozio di articoli sportivi che sia aperto in agosto. Dentro, il commesso scende dalle nuvole: chiodi da roccia? Ah sì, in magazzino dovremmo averne …sono di marca, sono dei Cassèn. Cassin, dico io. Cassèn, ribatte lui prima di assentarsi per andare a frugare in magazzino. Torna con una scatola. Dentro vi sono dei chiodi Cassin in parte arrugginiti. Ma siccome per lui sono dei Cassèn, il prezzo richiesto dal francesismo supera di gran lunga il loro valore reale. Tornare a casa costa di più, quindi mano al portafogli e i chiodi Cassèn sono nostri, ruggine inclusa.
Quando, anni dopo, ho raccontato questo aneddoto all'amico Riccardo lui - che ha sempre chiamato Grandi Giorasse le Grandes Jorasses - si è fatto una gran bella risata.
Su quella parete ci ho messo mano. La conformazione non permetteva altro che forare e mettere chiodi a pressione da due centimetri. Sono salito per un tiro di corda, poi la decisione: scendo e nel frattempo schiodo. Uno dopo l’altro i preziosi Cassèn rientrano in nostro possesso. La via, idealmente dedicata a Carla, ha fatto la fine del nostro idillio: finito dopo 40 metri.









Anno 1972. Gli stessi amici di allora mi procurano un alloggio, ricco perché su due piani. Non è proprio a Demonte ma a valle, in una sua frazione a ridosso della Stura. È una contrada agricola, abitata da una cordiale famiglia di contadini con vacche in stalla (Martini il loro cognome). Anche stavolta non solo solo: il sedile posteriore dell’Aermacchi 350 cc è occupato da una giovane donna dai capelli biondi, originaria di Schio, da 18 mesi mia moglie. La nostra vacanza è breve, un ponte pasquale, ma non ci manca il tempo per salire al Colle della Maddalena - dove mio padre è stato fotografato mentre svolgeva il suo compito di istruttore di sci (e il cane Makallè che salta la barra del confine) - e ai piedi della strapiombante parete. Qui Daniella mi fotografa mentre le mostro il punto d’attacco. Uno strato della mia vita si è disvelato. Altri seguiranno ...per 'colpa' di Carlo Grande.









giovedì 31 ottobre 2019

Arrampicare ai Corni, 1969-2019 (1/7)


Da un po’ di tempo le Grigne ci stavano strette. Arrampicare accompagnati dai coretti dei gitanti della domenica - tipo: “guarda quelli là in parete”, oppure “quèj lì in màtt” - non rientrava nel nostro Dna. Confesso: sia io che il Beppe soffrivamo di quella forma di timidezza (“due orsi” si diceva) che ci portava alla ricerca di luoghi nascosti dove dar sfogo alla nostra voglia di arrampicare. Fossimo nati vent’anni dopo, non avremmo di certo sfondato nel rutilante mondo dei free-climbers. E fu nella ricerca di altri campi di gioco che un bel giorno capitammo ai Corni di Canzo. Era il 24 marzo 1968, domenica. Il cielo era blu, la neve abbondante.






Due sera prima, al Cai avevamo consultato la guida del Saglio per cercare qualche via da fare e la scelta era caduta, genericamente, sulla Parete Fasana. Ne seguiamo la gengiva in salita. Sopra di noi un chiodo si staglia contro il cielo: la nostra prima via sui Corni ci ha scelto. Inizio a salire su placche, con qualche strapiombino di tanto in tanto. Il cielo è chiuso da un piano inclinato “roverso” che promette giochi d’equilibrio nel vuoto.



Non sappiamo niente di questa via: né chi l’ha aperta, né quale difficoltà presenti, ma in tasca abbiamo le certezze dei vent’anni, quindi niente ci può preoccupare. Trovo lo strapiombo terminale chiodato a pressione. Dopo quattro o cinque, uno di questi chiodi decide di uscire dal suo buco e per la prima volta in vita mia esperimento la goduria del volo. La buona sicurezza del Beppe mi blocca; le mie mani, che automaticamente si sono strette alle corde per frenare la discesa, sanguinano. Buttiamo giù le doppie. Non male come esordio. I Corni ci hanno sfidato. Ritorneremo.[1]






Il 21 del mese dopo siamo di nuovo a Canzo. Stavolta abbiamo ben chiaro in mente cosa fare: la Dell’Oro-Maggi al Corno Centrale, versante sud-est. Da quel che si legge sulla guida di Saglio dovrebbe essere una via tosta, un “sesto grado” dice l’autore. Il primo tiro, con il suo attacco in spaccata, è decisamente non usuale per dei grignaioli: là si trovano appigli e fessure, qui tutto ha forme tondeggianti (appigli a mammelloni scrive da qualche parte il Saglio; che sia stato questo ad attirarci?). Altri due tiri e la via è archiviata.[2]






Stupidamente considerate di “rango minore” rispetto alle Grigne, in quegli anni i Corni offrivano un ambiente silenzioso. Nessun picnic ai piedi delle pareti, nessun cicaleccio sovrapposto al gracchiare delle radioline sintonizzate su “tutto il calcio minuto per minuto”. Troppo bello!
Tutto questo per dire che il 20 luglio siamo di nuovo qui. Tre mesi prima, cercando l’attacco della Dell’Oro-Maggi avevamo “scoperto” uno spigolo evidentemente già salito. Sulla guida del Saglio (stampata nel 1948) non ne esisteva traccia, quindi ancora una volta seguiamo l’istinto. Sarà la prima di una serie di salite (anche in solitaria, per me) del divertente Spigolo Tessari-Riva al Pilastro.[3]


Ma il vero motivo di questa gita è un altro: vogliamo conoscere il Corno che precipita sotto i nostri piedi, l’Orientale. Visto dalla SEV mostra soltanto la sua parte terminale, con un grosso strapiombo a botte, chiuso all’orizzonte dal profilo di un “naso”. Dalla Bocchetta di Luera scendiamo alla sua base e ne cominciamo l’esplorazione. Una larga fessura che sale verso sinistra attira la nostra attenzione: domani la saliremo. Per la notte, il sacco a pelo steso sull’erba e le stelle come soffitto.




L’inizio della via [4] non è male: la fessura è formata dalla parete strapiombante e da una scheggia arrotondata che butta in fuori. Dopo una trentina di metri, in parte fatti col piede destro nella fessura e l’altro nel vuoto, arrivo a un terrazzino dove trovo un chiodo. Sopra vi è uno strapiombino e più in alto il chiodo di sosta. Il Beppe mi raggiunge e mi preparo a ripartire. Nelle manovre tipiche del momento (passaggio dei moschettoni ricuperati, corde da sbrogliare) la mia Pentax Spotmatic trova il tempo per volare (e dai che l’è un vizio su ’sti Corni …). Atterra una quarantina di metri sotto, esplodendo. Giù la doppia. Ricupero l’obiettivo intatto e il rotolino delle diapositive. Torno a casa mesto, il portafogli alleggerito (allora il corpo macchina costava 80 mila lire in Svizzera, 105 mila a Milano …e per me 80 mila lire valevano un mese di lavoro).





[1] Schizzo della parete alla mano (cfr: L’isola senza nome, pp 408-409), oggi posso affermare che fino allo strapiombo terminale abbiamo seguito la Via Elvezio - aperta nel maggio 1965 da Pierlorenzo Acquistapace, Piero Ravà e Angelo Canali; difficoltà d’insieme: TD sostenuto, difficoltà max V, A2 - e di essere volato sui chiodi della Via Direttissima Città di Cantù.
[2] Nota anche come Via dei Tre Tetti, è opera di Darvino Dell’Oro e Dante Maggi (11 agosto 1947). Oggi è data per TD superiore, con difficoltà max di VI, A2.
[3] Nota tecnica: Pilastro Maggiore o Gian Maria, spigolo SE, prima ascensione Giorgio Tessari, Alfonso Riva, 1965; difficoltà max A1, IV.
[4] È il primo tiro della Don Arturo Pozzi - salita nel luglio 1964 da Giorgio Tessari e Antonio Rusconi; V+, V, A1.