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domenica 12 settembre 2021

Tra l'Indo e la Stura di Demonte. Albo di ricordi


A memoria recente, solo due libri hanno scatenato in me così tanti ricordi di tempi e viaggi lontani ma non per questo dimenticati.
Il primo s’intitola Imperi dell’Indo, scritto da Alice Albinia nel 2008 e pubblicato in Italia da Adelphi nel 2013. Il suo sottotitolo, La storia di un fiume, puntualizza il racconto che si snoda nelle 403 pagine successive (493 alla fine del lungo elenco di Note, Bibliografia, Glossario, Ringraziamenti e dell’uitilissimo Indice analitico). Albinia, inglese residente in India, raccontando del suo viaggio seguendo l’Indo dalla foce alle sorgenti tratta argomenti a me cari, studiati in lunghi viaggi solitari - come ha fatto lei del resto, sempre che solitario possa essere definito dai puristi da divano e giornale un viaggio fatto da una giovane donna (classe 1976) in compagnia di due o tre uomini reclutati sul posto, tra cui l’indispensabile autista per il fuoristrada preso in affitto. A mio avviso, a rendere “solitario” un viaggio è l’insieme congiunto dell’intuizione (concretizzare un’idea restando fuori dai circuiti lordati dai viaggi organizzati), degli studi che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, tenendo - una volta sul campo - gli occhi ben aperti per evitare ogni possibile pericolo, sia esso oggettivo che soggettivo, ma anche sempre collegati al cervello per comprendere il territorio in cui ci si muove giorno dopo giorno. Una fatica che ben conosco, ma quanta gioia procura! (e portarsi appresso altri compagni che non siano di etnia locale è solo causa di distrazione).


Nel suo libro, Albinia riporta alla luce tante mie esperienze vissute e quindi, leggendolo, mi è stato “naturale” attaccarmi al computer e commentare ogni suo capitolo, aggiungendo informazioni di natura culturale, filosofica-religiosa e antropologica. Alla fine mi sono ritrovato con tante pagine di annotazioni integrative, il cui numero ammonta a quelle del testo stampato da Adelphi. Di metterle in rete e renderle pubbliche non mi sembra proprio il caso. Innanzitutto, devo trovare persone che hanno già letto il libro dell’Albinia e che siano disposte a rileggerlo una seconda volta saltando tra le pagine stampate e i miei appunti integrativi. Tradotto in soldoni: un lavoro per un pubblico inesistente. Ho quindi tenuto tutto per me, depositato nella cartella Albinia Alice.


Il secondo libro è Il giardino incantato di Carlo Grande, stampato nel 2021 da Edizioni Terra Santa, la casa editrice che fa capo alla Fondazione Terra Santa e al suo centro editoriale Custodia di Terra Santa in Italia. I frati francescani.
Non pochi dei 17 capitoli in cui il libro è suddiviso hanno riportato in superficie le tante stratificazioni della mia vita. Leggo della valle della Stura, del Colle della Maddalena, di Demonte e mi rivedo in vacanza - la prima vera vacanza della mia vita e l’unica coi miei genitori, anno 1964. Coi mezzi pubblici di allora - i treni color merda e l’odore ferroso dei binari chi li ricorda? - siamo arrivati a Demonte, dove amici di mio padre - lui nel 1939, giusto un mese dopo aver sposato mia madre, era stato inviato sul fronte di guerra con la Francia e lì vi era rimasto fino all’8 settembre del “liberi tutti” - ci avevano procurato una stanza nel sottotetto di una vecchia palazzina del centro. Lavandino e latrina fuori, sul pianerottolo di legno, come di legno erano le scale e le pareti. Subito ho fraternizzato coi figli degli amici dei miei genitori (anche mia madre era vissuta un paio d’anni a Demonte, dove aveva raggiunto il marito portandosi appresso mia sorella, nata nel 1940) e coi loro amici, torinesi che ogni anno arrivavano in vacanza.






La sera stessa, noi giovani eravamo ai piedi delle mura del castello. Qualcuno aveva portato il mangiadischi e un tot di 45 giri, giusto per far festa ballando. Una ragazza minuta ma ben proporzionata fu la compagna affidatami dal destino. Aveva una decina di anni più di me e veniva da Alessandria. Al nostro primo incontro la chimica ci mise del suo. Lei, smaliziata, percepì i miei ardori e a un certo punto mi disse: capisco il tuo entusiasmo ma non è il caso che mi strozzi, versione casereccia del più noto aforisma: Is that a gun in your pocket, or are you just glad to see me? (Hai una pistola in tasca o sei semplicemente felice di vedermi?). Ci rimasi male. Ero giovane, 18 anni, ma non aggressivo verso le ragazze. Per evitare una nuova gaffe, nelle successive serate con dischi e mangiadischi mi ero proposto di evitare di ballare con lei, ma così non fu. Ora era lei che mi cercava e ballando i lenti mi si stringeva addosso, molto addosso, troppo addosso. I ruoli si erano invertiti: essendo più alto di lei, non potevo dirle “mi strozzi”, quindi alle sue provocazioni reagivo allontanando il mio corpo dal suo, creando un vuoto nell’area più sensibile, mettendo in pratica i versi di una canzone di Guccini: bisogna saper scegliere i tempi, non arrivarci per contrarietà. Due settimane di vacanza, tante tempeste ormonali.


Sopra Demonte vi è la frazione Cornaletto. Qui veniva in vacanza una famiglia originaria della contrada ma residente a Marsiglia. Ero diventato amico dei figli, maschi e femmine. Loro parlavano solo francese e per me era un piacere mettere in pratica la lingua studiata a scuola. Ricordo la loro grossa Peugeut posteggiata nella corte dal suolo sassoso e su cui scorrevano i liquami rilasciati dalle vacche in stalla …e tra questi liquami loro giocavano a bocce, sport amatissimo dai francesi.


Sopra al Cornaletto una parete di roccia aveva attirato la mia attenzione. La base era strapiombante, un lavorìo degli arcaici ghiacciai, e al suo centro vi era una classica pissavacca, il nome dato ad ogni cascata d’acqua che fuoriesce lontano dalla roccia. Mi piaceva …ma ero solo, senza corde né chiodi - e il Beppe era militare di leva nell’Oltrepò pavese, corpo dei carabinieri.



A Demonte sono tornato l’anno dopo, stavolta col Beppe e suo fratello Luigi. Io avevo una vecchia Gilera 150 cc, il Beppe una Lambretta 125 cc, una cilindrata non ammessa in autostrada. Partenza alle 4 del mattino, attraversamento di Milano. In piazza Duomo si prende via Torino, poi via in direzione di Abbiategrasso, la strada da noi scelta per il Piemonte. Ricordo strade strette e tanta nebbia. Poco prima di mezzogiorno eccoci a Demonte, dove i miei amici ci avevano messo a disposizione la stessa stanza dell’anno precedente.
All’angolo con la strada che attraversa Demonte vi era una trattoria. Noi tre occupiamo un tavolo. Ad un certo punto sentiamo delle urla arrivare dalla cucina. Subito dopo la porta si spalanca, un uomo corre tra i tavoli inseguito da un secondo uomo vestito da cuoco che impugna un lungo, aguzzo coltello da macellaio. I due urlano. Il primo esce in strada, il secondo si ferma sulla porta continuando a sbraitare. Poi rientra in cucina e riprende il suo lavoro. Benvenuti in Provincia granda…
Sotto ai portici, nei pressi del panificio - i grissini erano una vera specialità - una serie di gradini di pietra anticipano un ingresso. Qui, abitava Carla, in vacanza coi suoi genitori. Ci eravamo già frequentati l’anno prima e rivederci è stato bello. Lei aveva una Vespa col sidecar, l’unica del genere mai vista in vita mia, e con questa, io nel carrozzino, facevamo gite a due su per la valle. Un giorno lei si ferma davanti alle mura del forte di Vinadio, resti abbandonati ma che, vox populi, aveva degli interni interessanti, non fosse che ogni ingresso era stato murato. Era una provocazione? Accettata. Mi attacco alle mura e arrampico fino ad un finestrone. Una volta all’interno cerco un possibile varco rimasto libero. Nella penombra mi lascio guidare dalle luci. Trovo un pertugio all’esterno nascosto dalla vegetazione. Esco: il passaggio a nordovest è stato trovato! Adesso sappiamo come entrare facilmente e senza essere visti. Le visite si susseguono e i meandri del forte non avranno più segreti per noi.
Un giorno organizziamo la gita pedestre al santuario di Sant’Anna di Vinadio. In cima troviamo nebbia e freddo. Carla non ha di che coprirsi, io le cedo il mio maglioncino …restando a barbelare per il freddo al posto suo. Qualcuno scatta una foto.


Come già detto, sopra il Cornaletto vi è la parete rocciosa che uno strato di gesso ha reso liscia come una lavagna. Nessun appiglio in vista. Io e il Beppe andiamo a dare un’occhiata. Un possibile attacco è a destra, dove lo strapiombo è minimo. Al centro, la parete forma una grotta. Da solo, senza assicurarmi, attacco il soffitto. Il Beppe mi scatta alcune foto. Poi un chiodo esce di colpo, io volo e cado a terra sulla schiena. La botta si fa sentire, soprattutto i polmoni che per un tot non vogliono sapere di dilatarsi. Mi è andata di culo.



Una gita a Cuneo si rende necessaria. Cerchiamo un negozio di articoli sportivi che sia aperto in agosto. Dentro, il commesso scende dalle nuvole: chiodi da roccia? Ah sì, in magazzino dovremmo averne …sono di marca, sono dei Cassèn. Cassin, dico io. Cassèn, ribatte lui prima di assentarsi per andare a frugare in magazzino. Torna con una scatola. Dentro vi sono dei chiodi Cassin in parte arrugginiti. Ma siccome per lui sono dei Cassèn, il prezzo richiesto dal francesismo supera di gran lunga il loro valore reale. Tornare a casa costa di più, quindi mano al portafogli e i chiodi Cassèn sono nostri, ruggine inclusa.
Quando, anni dopo, ho raccontato questo aneddoto all'amico Riccardo lui - che ha sempre chiamato Grandi Giorasse le Grandes Jorasses - si è fatto una gran bella risata.
Su quella parete ci ho messo mano. La conformazione non permetteva altro che forare e mettere chiodi a pressione da due centimetri. Sono salito per un tiro di corda, poi la decisione: scendo e nel frattempo schiodo. Uno dopo l’altro i preziosi Cassèn rientrano in nostro possesso. La via, idealmente dedicata a Carla, ha fatto la fine del nostro idillio: finito dopo 40 metri.









Anno 1972. Gli stessi amici di allora mi procurano un alloggio, ricco perché su due piani. Non è proprio a Demonte ma a valle, in una sua frazione a ridosso della Stura. È una contrada agricola, abitata da una cordiale famiglia di contadini con vacche in stalla (Martini il loro cognome). Anche stavolta non solo solo: il sedile posteriore dell’Aermacchi 350 cc è occupato da una giovane donna dai capelli biondi, originaria di Schio, da 18 mesi mia moglie. La nostra vacanza è breve, un ponte pasquale, ma non ci manca il tempo per salire al Colle della Maddalena - dove mio padre è stato fotografato mentre svolgeva il suo compito di istruttore di sci (e il cane Makallè che salta la barra del confine) - e ai piedi della strapiombante parete. Qui Daniella mi fotografa mentre le mostro il punto d’attacco. Uno strato della mia vita si è disvelato. Altri seguiranno ...per 'colpa' di Carlo Grande.









venerdì 15 novembre 2019

Arrampicare ai Corni. Commenti (6/7)

Il 14 settembre 2019 ho inviato questa mail:

Sto riprendendo a scrivere di montagna, mettendo in rete i miei appunti.
Li trovate qui, se volete:

- Gigi Grana, alpinista e operaio





Tra meno di due mesi ricorrerà il 50mo anniversario della Via Giuseppe Verderio da me aperta sulla parete Nord-Est del Corno Orientale di Canzo.
Statemi bene.
Giancarlo Mauri

Queste le risposte “alpinistiche” ricevute, in ordine cronologico:

19.09.2019
Ciao Giancarlo,
grazie per avermi segnalato i tuoi scritti.
In questo periodo arrampico poco.
[…] Ti scrivo però, forse un po’ di corsa, perché ci tenevo alla ricorrenza del 50mo della Giuseppe Verderio (che non avrei colto senza tua indicazione).
È una via particolare, sull’Onda (come la chiamano oggi), per certi versi unica ed irripetibile.
Chiunque tentasse di “riammodernarla” sostituendo i chiodi ad espansione sarebbe un pazzo scriteriato.
Chiunque tentasse di ripeterla, così come è, con i suoi 50 anni, dovrebbe essere mosso da profondi motivi personali.
Sarebbe una salita grandiosa e terribile.
Io, francamente, la guardo con ammirazione ma non potrei ripeterla.
Sulla Luigi Paredi, dedicata a mio nonno, ho “navigato” sui vecchi chiodi ad espansione, ma era una placca liscia “quasi” appoggiata.
L’onda è uno strapiombo che hai affrontato dritto per dritto, come una nave che spinge a fondo i motori puntando alla cresta dell’onda per non essere travolta.
Senza un buon motivo, come lo hai avuto tu, non si può fronteggiare in quel modo qualcosa di simile.
Ciao e grazie!
Davide “Birillo” Valsecchi

* * *

November 1, 2019


La prima guida all’arrampicata dei Corni, di cui ho notizia, fu scritta da Giorgio Tessari e Gian Maria Mandelli nel 1979. Un volume piccolo, quasi tascabile, denso di relazioni, foto in bianco e nero, schizzi delle vie disegnati a mano: “Valmadrera: montagne ed itinerari alpinistici”. La prima ristampa, con aggiornamento, fu pubblicata nel 1996. Due volumi preziosi ed ancora oggi molto validi. Tuttavia ciò che per me ha davvero spalancato un mondo è stata la terza guida, “L’isola Senza Nome: storie di uomini e montagne, dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” pubblicata nel 2005. Probabilmente quel libro ha influito sulla mia vita come pochissimi altri. Tornato dall’Africa ne trovai una copia mentre curiosavo in biblioteca e, da allora, l’ho sfogliato migliaia di volte. Sebbene sia ormai un libro introvabile ne ho posseduto ben due copie. Anche se, purtroppo, ora solo una. La prima infatti la diedi anni fa, in una sera d’inverno, ad un celebre e giovane alpinista erbese: da allora non ci siamo più rivolti parola. Certo, nella vita non si può mai sapere, ma temo che non rivedrò mai quella mia vecchia copia. Tuttavia Ivan Guerini mi ha fatto dono della sua copia, ricevuta con tanto di dedica da Gianni Mandelli, ed in qualche modo l’equilibrio ha ritrovato la sua strada. La grande differenza di questo libro rispetto alle due guide che l’hanno preceduto è chiara fin dal titolo: “L’isola Senza Nome”, un luogo ben preciso - “dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” - che in realtà non esiste, non ha nome, e che in qualche modo è isolato, distante, unico e disgiunto da tutto il resto. Un libro che non è una semplice guida all’arrampicata ma la raccolta di “storie di uomini e montagne”. Fino ad allora tutti mi avevano sconsigliato di arrampicare lassù, raccontandomi che erano vie brutte, pericolose, con vetuste soste tenute insieme con il filo di ferro: “Rischi solo di farti male o lasciarci la pelle!!”. Grazie a questo libro quelle vie restavano “terribili” - e tutt’oggi io credo lo siano - ma acquisivano una storia, una profondità umana che mai avrei immaginato. In quel libro si poteva ripercorrere un secolo di arrampicata scoprendo, con incredibile sorpresa, momenti di straordinario coraggio ed intensa passione. Per me, che ero ventenne a cavallo degli anni 90, l’arrampicata si era trasformata nello “sport” con cui far pubblicità agli orologi “che spaccano il secondo”, mentre all’alpinismo era toccata la pubblicità dell’acqua gasata “purissima” in bottiglie di plastica. Niente che avesse in qualche modo a che fare con il mio viaggio in Pakistan o con la montagna che mi aveva insegnato mio padre, niente che potesse attrarre lo slancio della mia gioventù. Ma in quel libro, in quell’isola ribelle, vi era un mondo nuovo ed allo stesso tempo antico, un mondo intenso, brutale, spaventoso ma capace di scintillare su quella roccia lucida circondata dal verde, un mondo intriso di un’umanità travolgente, capace di brillare nel buio dell’incertezza, capace di accomunare ed unire le generazioni attraverso un secolo di tradizione: “storie di uomini e montagne”. Non potevo che restarne attratto, non potevo che desiderare farne parte.
Una di queste storie è stata scritta da Giancarlo Mauri e ripercorre le vicende che lo portarono all’apertura della via “Giuseppe Verderio” al Corno Orientale. Aperta il 2-3 e 9 novembre del 1969 da Giancarlo Mauri e Diego Pellacini in ricordo dell’amico “Beppe” caduto il 2 marzo di quello stesso anno dalla vetta del Medale. Quest’anno ricorre il 50° anniversario dei fatti narrati in quella storia: “Arrampicare ai Corni”. Confesso che sono state tante le cose “strane” che mi sono capitate lassù ed oggi, anche più della prima volta, trovo speciale il racconto di Giancarlo. C’è qualcosa di trascendentale su queste montagne, qualcosa che spinge a guardare in faccia i propri sogni e le proprie paure. Nel silenzio di quelle pareti aleggiano fantasmi e spiriti che sussurrano le verità che non vogliamo ascoltare, i ricordi che non vogliamo lasciarci sfuggire.
Davide “Birillo” Valsecchi

* * *

2.11.2019
Di questa storia dell’Onda mi piace un sacco l’avventura: dormire in tenda (freddo boia) a 10 minuti dal rifugio, il su e giù dalla parete, gli arditi tratti in libera e poi la progressione in arrampicata artificiale tipica di quegli anni lì. Anche dalle foto, non sembra una roba di pochi tiri, ma ha tutta la dignità di una tosta salita alpina.
Dove si riesce chiodi normali (spesso “psicologici”), poi i terribili chiodini a pressione. Tre centimetri di metallo ruzzati a forza in un buchino fatto a martellate col bulino, ai quali appendere la propria pellaccia... come un quadro alla parete.
Magnifici Conquistatori dell’inutile. Haha
Apprezzo tantissimo ’ste cose, nonostante oggi arrampico praticamente solo in falesia. Per varie ragioni, soprattutto cliniche. Ma anche, lo confesso, per una certa pigrizia. Avvicinamenti brevi, ambiente confortevole, belle sequenze di scalata, spesso difficile (almeno fino a dove oggi posso permettermelo) e di soddisfazione, sportivamente parlando.
Però ricordo con grande piacere quel “ravanage” che racconti, che ho ampiamente goduto su certe nuove salite sulle strutture di Introbio, Medale, Cima Calolden etc. Spesso inconsapevolmente protetti (i miei soci ed io) da qualche buona stella che non finirò mai di ringraziare.
E poi le tue immagini: bellissime. Una in particolare; e non è di scalata... Te la riallego così se intendemo mejo.



Ciao
P [Pietro Corti]

sabato 9 novembre 2019

Arrampicare ai Corni, 1969-2019 (5/7)


Estraggo dal mio archivio di note personali:

1969.11.08 - Notte al Rifugio SEV. Con Diego
1969.11.09 - Corno Orientale di Canzo. Nevica e c’è nebbia. Diego mi fa sicurezza a spalla e io dalla vetta mi calo fin sul bordo del grande strapiombo. Da qui, assicurato da Diego, salgo in vetta.

La Via Giuseppe Verderio è terminata.


Ai coniugi Roberto Assi e Maria Elena Fiori, allora residenti a Valmadrera, verrebbe accreditata la prima ripetizione della Via Giuseppe Verderio e questo attorno alla metà degli anni Ottanta - 1988 e peraltro parziale si legge su Vertice, n. 15, anno 2000 (vedi sotto)Cosa significhi quel peraltro parziale non mi è noto, ma una cosa è certa: essendo stato l’unico a superare l’Onda tutto il materiale da me utilizzato era rimasto in parete, staffe penzolanti incluse, attrezzi rimasti ben visibili per oltre 15 anni, poi scomparsi.


Come è giusto fare, ho subito provveduto ad informare i redattori della Rivista Mensile del CAI dell’avvenuta apertura della via, aggiungendo la relazione tecnica.

Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, anno 91, n. 3, marzo 1970, pag. 122
NUOVE ASCENSIONI
PREALPI LOMBARDE - GRUPPO SAN PRIMO
CORNO ORIENTALE DI CANZO (1215 m) - Parete NE
Prima salita via diretta: Giancarlo Mauri (CAI Vimercate) e Diego Pellacini (CAI Sesto San Giovanni);
2, 3 e 9 novembre 1969.
Altezza 200 m, difficoltà ED, A2, Ae3, 48 ch. (24 a espansione), nessuno tolto; 14 ore.
I salitori hanno proposto di dedicare la nuova via a Giuseppe Verderio.

RELAZIONE TECNICA. Dal rifugio S.E.V. alla Bocchetta di Luera, 1221 metri. Qui scendere per il ripido canale erboso che termina in un  ghiaione e per questo al piede della parete (20 minuti). Aggirato lo spigolo di un torrione, puntare al primo diedro della parete. Si è all’attacco.
1° tiro. Salire il diedro (10 m, IV) e al suo termine uscire a sinistra. Proseguire lungo un saltino erboso fino a roccette che si aggirano a destra, poi verso l’alto fino al termine della corda (40 metri).
2° e 3° tiro) Salire per rocce friabili ed erbose per 60 metri, mirando alla fessura sotto alla striscia nera di destra.  Variante: questa prima parte si può evitare entrando in parete direttamente dal ghiaione che scende dalla Bocchetta di Luera; giunti all’altezza del torrione, traversare verso il masso incastrato. Salire ora per erba 15 metri, poi traversare a sinistra fino a degli alberi. Da essi, con traversata orizzontale (in piena parete) di 40 metri si è alla fessura.
4° tiro) Traversare 5 metri a destra, salendone 3 o 4. Ritornare a sinistra (V, 2 chiodi) e si è di nuovo alla fessura. Salirla per 15 metri, poi traversare 4 metri a sinistra. Si è in centro alle due strisce nere. Puntare direttamente verso l’alto. Superare un piccolo strapiombo e con breve passaggio in libera si è ad un’aerea nicchia. Sosta. (30 metri, V, A1 e A2, 18 chiodi).
5° tiro) Dalla nicchia uscire verso sinistra, poi puntare verso lo strapiombo, che si raggiunge dopo 20 metri. Superarlo direttamente. Verso il suo termine, obliquare un poco a destra fin sotto ad un diedro-camino. Salirlo per 3 metri. Sosta più che precaria. Negli ultimi 17 metri si è usciti almeno 10 metri dalla verticale. (40 metri, A2 e A3, 27 chiodi).
6° tiro) Salire il diedro per 5 metri, fin sotto ad uno strapiombino. Superarlo direttamente. Al suo termine, traversare in lieve discesa a sinistra per 3 o 4 metri. Per rocce più facili, si è brevemente alla cresta terminale. (25 metri, IV e IV+).
Per facile sentiero, dopo 50 metri, si è alla vetta.

BIBLIOGRAFIA.
Città di Vimercate, n. 13, dicembre 1969, pagina 52.
Lo Scarpone, n. 5, 1° marzo 1970.
Rivista Mensile del C.A.I., 1970, n. 3, pagina 122.


Lo Scarpone, n. 5, 1° marzo 1970


Negli anni a seguire escono le prime guide stampate sui Corni di Canzo. Sebbene (come visto sopra) la Via Giuseppe Verderio fosse stata ufficialmente segnalata, a pagina 72 di Valmadrera. Montagne e itinerari alpinistici - di Giorgio Tessari e Gian Maria Mandelli, 1979 - si legge Via CAI Melzo - Primi salitori: Soci del CAI Melzo.



Nel 1996 appare in libreria una nuova edizione, che porta il titolo Valmadrera. Escursioni e Itinerari Alpinistici. Ancora una volta alla Via Giuseppe Verderio viene appioppato il fantasioso nome di Via CAI Melzo.




Stavolta mi metto in contatto telefonico con l’allora Presidente della Sezione CAI di Valmadrera, rimarcando la svista. Dall’altro capo del filo mi si suggerisce di mettere il tutto nero su bianco e d’inviarlo in Sede. Alcuni mesi dopo le mie annotazioni trovano posto tra le pagine di Vertice, l’annuario della Sezione CAI di Valmadrera (n. 15, anno 2000).





In seguito sono uscite altre guide, dove le fotografie riportano malamente l’itinerario e sempre fatto iniziare a metà parete, dimenticando che esiste una parte inferiore, evitabile, ma da me salita.







A memoria futura, qui pubblico due fotografie. La prima mostra i miei “studi” per salire quella parete - e questi risalgono a quando il Beppe era ancora il mio compagno di cordata, dimostrazione che la Nord-Est del Corno Orientale era già nel nostro mirino e quindi era per me “naturale” che fosse quell’onda pietrificata a dover portare il suo nome, non altro.


La seconda indica l’esatto tracciato, parte superiore, della Via Giuseppe Verderio. Per l’intero tracciato della via rimando alla Polaroid messa in copertina.


Ai Corni di Canzo sono tornato più e più volte, ma qui voglio ricordare la prima volta che io e Daniella siamo saliti con Marco, nato sei mesi prima e al suo primo “bivacco” sul prato dell’Alpe Oneda (990 m circa), al riparo di un masso erratico. Era il 18 maggio 1975.






A valle, beneamato punto di riferimento era l’alpeggio Terz’Alpe - in Val Ravella, a quota 770 m - dove ho sempre trovato una calda accoglienza …soprattutto nei mesi invernali. Le fotografie sono del 9 marzo 1974.