lunedì 13 novembre 2017

Picasso. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925


Dopo Napoli, la mostra Picasso. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925 è approdata a Roma, suddivisa tra le Scuderie del Quirinale e Palazzo Barberini. Nelle Scuderie si possono ammirare dipinti, disegni e articoli di contorno riferentesi alla permanenza di Picasso e Cocteau a Roma - dove avevano raggiunto il gruppo dei Ballets Russes di Diaghilev - , nel Salone delle parate di Palazzo Barberini è “calato” il sipario di Parade, un dipinto di 172 metri quadrati.

A mio avviso, il miglior testo che racconta il periodo di vita artistico e privato di Picasso immediatamente successivo alla morte di Eva (dicembre 1915) resta Picasso e il teatro di Douglas Cooper (1967), dove le pagine da 7 a 34 sono interamente dedicate all’approccio e alla successiva realizzazione di Parade.
In questo blog di non-recensioni ho optato per un altro scritto estratto da Parigi era viva. La capitale dell’arte nel ventesimo secolo di Gualtieri di San Lazzaro, Arnoldo Mondadori Editore 1966, al cui termine trovate i miei scatti romani.

pp. 286-291

Pio XII avrebbe voluto un suo quadro per il Museo Vaticano e un comitato s’era formato a Roma per acquistarlo e regalarlo al Pontefice, il quale aveva fatto sapere che avrebbe gradito il ritratto d’una ragazza, con i capelli annodati sulla nuca e ricadenti sulle spalle, come una coda di cavallo; Sua Santità doveva averne visto la riproduzione in qualche rivista.
Di quella ragazza, Picasso aveva fatto diversi ritratti. Silvio, cui il comitato romano si era rivolto, credette opportuno di parlarne con Kahnweiler. «Picasso ne ha infatti conservato uno» gli disse il vecchio mercante «ma vorrà cederlo al Vaticano? Tentate di parlargliene alla prima occasione, ma non dimenticate ch’egli è più ricco di voi e di me. D’altra parte, sapendo di ritrovarsi, nella stessa sala, con pittori di cui non ha nessuna stima, è difficile presentargli la cosa come se potesse procurargli un particolare onore.»
Silvio era persuaso che Picasso avrebbe volentieri ceduto al capriccio del Papa. Non, evidentemente, per quella diecina di milioni che il comitato gli avrebbe versato. Ch’egli fosse più ricco di Silvio e di Kahnweiler, non c’era dubbio, e Silvio a stento aveva trattenuto le risa, quando il mercante aveva cortesemente accoppiato il suo nome al proprio. Ricco? Uno degli uomini più ricchi del mondo, era senza dubbio Picasso. Non era, però, la sua, la ricchezza dei ricchi, ma quella conquistata pazientemente da un povero. Per i ricchi, la fortuna è un mezzo di dominazione e di godimento, per i poveri è soltanto un fine, un tabù miracoloso, magico, il quale non osano toccare, temendo di vederselo sfumare nelle mani. Nonostante la sua immensa fortuna, Picasso viveva poveramente. In tasca non aveva mai un soldo, e la borsetta della signora Picasso era anch’essa disperatamente vuota. Purtroppo la morte del Papa impedì a Silvio di mettere il grande artista alla prova.
No, non era ricco Picasso. Persino Silvio, non si sentiva più povero del creso Picasso: le sigarette che gli capitava di offrire, costavano di più, se non altro, delle gauloises di Picasso. E aveva senza dubbio, nella sua vita, regalato più libri e litografie e numeri della rivista ad artisti e conoscenti, che Picasso non avesse distribuito fra gli amici tele e disegni, salvo le cinque o sei persone, come Dora Maar, André Verdet e il sarto Sapone, per i quali era stato più che un amico, la provvidenza.
Silvio notò, girando l’occhio intorno, che tutti quei nasi di cartone e i cappelli da cow-boy (anche lui gli aveva regalato qualche anno prima un cappello di paglia che un amico aveva portato dalla Cina), tutta la messa in scena burlesca d’una volta era scomparsa. Picasso non vedeva più di frequente nemmeno il sarto Sapone, che una volta riusciva a metterlo di buon umore. Forse non aveva rinunziato a provarsi di essere ancora giovane; di avere sempre quattordici anni, ma il sentimento tragico ch’era di lui, come in tutti gli uomini del Mediterraneo, ora aveva il sopravvento.
Non aveva mai osato esplorare, come Mirò, il proprio inconscio, per tema di scoprirvi degli abissi paurosi. S’era imposto dei limiti, per non perdere la ragione, violando le frontiere della propria natura. Silvio pensò che i collezionisti da alcuni anni non dicevano più: «È il più vivo dei giovani pittori». Dicevano, piuttosto: «Lascerà alcune migliaia di tele. Che fine faranno?». Alle sculture - che erano le sue opere più sbalorditive - non pensava nessuno.
Il discorso intanto s’era spostato sulla ceramica. «Ho potuto, come dicono, rinnovare la ceramica» diceva Picasso «perché non era il mio mestiere. Non ho avuto bisogno, come per la pittura, di dimenticare tutto quello che avevo imparato nelle accademie. Impara l’arte e mettila da parte, dicevano gli antichi. È quello che gli artigiani non hanno mai il coraggio di fare: imparano l’arte, ma non la mettono da parte. La spendono subito, provocando l’inflazione e quindi la miseria generale.»
“Avesse soltanto rinnovato la ceramica” pensava Silvio. “Ha tutto sconvolto e ricreato; ha distrutto e ricostruito l’oggetto, è riuscito a fare amare le sue figure a quattro nasi e a sei bocche. Kahnweiler aveva ragione di dirmi che è molto più facile per il pubblico accettare l’arte astratta che non le deformazioni imposte da Picasso alla figura umana. Quanto alla sua adesione al comunismo, sarebbe più giusto considerarla un’alleanza, senza chiedersi chi, dei due, ha più ricevuto che dato. Nulla è mai riuscito ad abbatterlo.” E Silvio ricordava il loro primo incontro, durante l’occupazione: “Io, personalmente, non posso considerarmi un vinto. Non sono un uomo d’arme, ma un artista. Sono pronto a sfidare tutti gli artisti tedeschi, e a stravincerli.” Parlava davvero, allora, come un fanciullo di quattordici anni.
«Naturalmente, non mi sono mai detto: voglio rinnovare la ceramica. Era fatale che ciò accadesse perché non ero un vero ceramista» diceva Picasso.
«Se Cristoforo Colombo fosse stato un vero ammiraglio» disse Silvio «non avrebbe scoperto l’America. Sarebbe arrivato nelle Indie facendo, come Vasco de Gama, il periplo dell’Africa.»
Tutti risero, di nuovo. Poi Picasso disse, lentamente: «E per la Spagna sarebbe stata una vera fortuna. Perché della scoperta dell’America, la Spagna non si è ancora rimessa. Che cosa succederà ora, alla morte di Franco?» «Scapperanno tutti, intendo quelli che dividono il potere con lui. Non assisteranno nemmeno ai suoi funerali. I preti, però, resteranno» disse ancora Silvio, che due mesi prima era stato a Barcellona, dove aveva esposto il libro di Mirò e di Ionesco: Quelques fleurs pour des amis. Solo Picasso, questa volta, non rise.
Sulla soglia, Silvio chiese al maestro quando e come avrebbe potuto fare fotografare i quadri ch’egli aveva ritrovato. «Per ora» disse Picasso, freddamente «non desidero pubblicarli.»
Non era il caso d’insistere, anche perché, tutto sommato, nulla quelle tele, senza dubbio interessanti, avrebbero aggiunto alla sua gloria o a quella di Silvio.
Alla gloria di Picasso, ora, bastava il fotografo Quinn, che durante la breve visita avevano visto aggirarsi intorno alla villa, come un’ombra alla ricerca del proprio corpo. Silvio l’aveva trovato, qualche anno prima, alla Californie, quando, dalla Russia, dove era stato autorizzato a fotografare le opere dei musei, era giunto a Cannes e s’era presentato a Picasso, ch’era rimasto impressionato dalla sua grande automobile americana, non indegna di un miliardario, e un poco forse anche dalla sua prestanza fisica, di giovane atleta.
Due o tre volte aveva interrotto, allora, il discorso, per dire:
«Avete visto la macchina di Quinn? Sembra un vascello.» (Anche Picasso aveva ricevuto in dono dall’America in quei giorni una Chrysler che il figlio Paolo doveva andare a sdoganare a Le Havre e quell’avvenimento aveva provocato alla Californie l’agitazione dei giorni felici.) Silvio pensò che Jean Dubuffet, il fotografo Edward Quinn, nonostante la sua macchina vascello e la sua indiscutibile perizia professionale, non l’avrebbe tollerato più di sei mesi. Picasso l’aveva invece adottato come un figlio. Il più grande artista del mondo da dieci anni posava per il fotografo Quinn, volontariamente o a sua insaputa, spiato, studiato, analizzato e perseguitato come un animale raro, come l’ultimo, insostituibile esemplare di una razza di cui l’umanità desiderava conservare un ricordo imperituro. Il grande Picasso - si disse ancora Silvio - è più fiero di lasciare ai posteri il ricordo del proprio torace, invero­similmente giovanile - nonostante l’età veneranda - che non la propria opera.
Cardazzo, dieci anni prima, aveva ritrovato, a Milano, il sipario di Parade, dodici metri di altezza per sei o sette di larghezza, di cui il proprietario, un argentino, si proponeva di ritagliare e di conservare solo il pannello centrale, non avendo nessuna intenzione di costruire un palazzo per poterlo esporre intero. Silvio s’era affrettato ad avvertire Kahnweiler. Pensava che Picasso sarebbe stato contento di riaverlo, in cambio di una tela di modeste proporzioni, che l’argentino non avrebbe certo rifiutata. Ma il Kahnweiler, ancora una volta, fu di parer contrario: «Picasso se ne frega» disse «voi lo conoscete...» Se Silvio l’avesse conosciuto come lo conosceva il suo mercante, quell’idea, evidentemente, l’avrebbe subito scartata. Picasso poteva fregarsene, ma Silvio sentiva il dovere di salvare dalla distruzione uno dei più gloriosi cimeli dei Balletti russi. Di Parade, il balletto immaginato da Jean Cocteau per la musica di Erik Satie, rappresentato a Roma, al teatro dell’Argentina, nel 1917, e al teatro dello Chatelet a Parigi, lo stesso anno, al pubblico non era piaciuto che il sipario di Picasso. L’argentino, intanto, al quale Cardazzo aveva scritto, aveva fatto sapere di essere disposto a venderlo per una somma che, pur non essendo eccessiva, era tuttavia troppo alta per i poveri musei di Francia. Silvio, che non s’era ancora rimesso dell’ultima tremenda operazione, era, allora, da sei mesi, degente in una clinica della riviera ligure. Si mise in contatto con il signor Lloyd, acquirente, allora, di opere d’arte per i musei del Regno Unito e del Commonwealth britannico; il signor Lloyd venne a Milano, vide il sipario, ma con profondo rincrescimento, sostenne che non esisteva una galleria pubblica abbastanza grande per esporto. Disperato, come se si trattasse di salvare una vita umana, Silvio scrisse a Pierre Courthion pregandolo di esporre la situazione al conservatore Jean Cassou. Qualche tempo dopo, a Milano, una fredda e nevosa mattina di marzo, Silvio s’incontrava con Bernard Dorival. Cardazzo ottenne dalla “Scala”, per la seconda volta, il favore di issare il sipario sulla scena del grande teatro milanese, per poterlo mostrare al giovane conservatore del museo nazionale di Parigi. Il giorno dopo, l’immenso telone veniva spedito in Francia per essere sottoposto alla commissione del Louvre. Era già arrivato, quando un telegramma di Rockfeller, dall’America, lo chiedeva, a qualsiasi prezzo, per il Modern Art Museum di New York.
Ai primi di giugno, Silvio poté finalmente rientrare a Parigi.
«Dove pensate di metterlo?» chiese a un funzionario del museo, che incontrò alla vernice d’una mostra. «L’essenziale» disse il funzionario «è di averlo assicurato alla Francia. Jean Cassou si propone del resto di ringraziarvi “ufficialmente” per la vostra tempestiva segnalazione.» Anni dopo, Silvio rivide il sipario di Parade a Londra, alla grande retrospettiva di Picasso ordinata da Roland Penrose alla Tate Gallery. E ricordò il rammarico, apparentemente sincero, del signor Lloyd, quando aveva affermato che non c’era nel Regno Unito e nel Commonwealth un museo abbastanza grande per esporlo.
Ma di tutto ciò, con Picasso, che se ne fregava, non aveva mai parlato.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
7 novembre 2017

























martedì 31 ottobre 2017

I Quattro Sergenti de La Rochelle


In cambio di 8 euro un bouquiniste che espone i suoi libri sul quai de la Tournelle mi ha ceduto Les cimetières de Paris di Michel Dansel che il giorno dopo, sul treno per Milano, ho avuto tempo e modo di leggere per intero, trovando spunti per questa non-recensione dedicata al cimitero di Montparnasse.
Una delle caratteristiche di questa necropoli della rive gauche - aperta il 25 luglio 1824 e a cui si accede dal boulevard Edgar-Quinet - è di essere stata divisa in due (1891) da rue Emile-Richard, una strada lunga 382 metri. Al calare delle tenebre questa zona assume un’atmosfera sinistra, gli abitanti si ritirano e dalle finestre di casa, volendolo fare, si possono dedicare à un voyerisme flagrant! Parole (e accento esclamativo) riprese dal citato Dansel, che aggiunge: questi sono luoghi frequentati da coppie illegittime che nottetempo si ritrovano su di un’auto posteggiata sul marciapiede, e qui certaines dames s’y font malaxer le dahlia mentre i loro compagni se laissent lustrer le piolet lontani dagli sguardi indiscreti. Lascio alla vostra immaginazione cosa lui intenda per dalia e piolo.

La storia racconta che essendo ormai saturi i vecchi cimiteri di Sainte-Catherine e di Vaugirard, per accogliere i defunti della rive gauche al prefetto della Senna Frochot non restava che trovare nuovi spazi al di là delle mura a sud di Parigi e alcuni campi contigui alle strade di Montrouge, del Mont-Parnasse e del Maine si rivelarono adatti allo scopo. In realtà, già prima della Rivoluzione alcuni campi erano stati utilizzati dai monaci di Saint-Jean-de-Dieu per seppellire i morti del loro ospedale della Charité in rue des Saints-Peres, riservandosi uno spazio per i defunti della loro comunità.
Qui s’ergeva anche il mulino dei Fratelli della Carità, struttura che gli studenti del vicino collegio di Louis-le-Grand - i cui professori erano stati discepoli di Molina, gesuita spagnolo del XVI secolo - scelsero quale loro totem simbolico, ribattezzandolo Moliniste, in contrapposizione religiosa col non molto distante mulino che altri studenti avevano ribattezzato Janséniste. Non stupirà sapere che per creare lo spazio del nuovo cimitero si fece abbattere il Janséniste mentre si è risparmiato il Moliniste, struttura cattolica tuttora dominante sulle tombe che la circondano.

Sul piano della statuaria non vi è nulla o quasi di classico. Del resto attorno al quartiere di Montparnasse vi erano numerosi atelier per artisti in cerca di fortuna e una buona parte di questi sono sepolti in questo campo di riposo. Le loro tombe esibiscono opere barocche, astratte, avanguardiste …e alcune audaci, come la scultura sulla tomba di Paul Simonpaoli (1900-1985) dove una giovane donna, talmente ben modellata che pare vera, mostra le sue recondite grazie. Traduco dal libro di Dansel: lei è là nella sua femminilità carnale e complice, sulle ginocchia, le cosce aperte, la testa posata al suolo e i capelli riversati in avanti, quasi a voler soffocare le sue grida. Questa maniera di rifiutare l’assurdità della morte e di rispondere a Thanatos con Eros esiste nella grande riserva del non formulabile della maggior parte delle persone. Paoli Simon, noto soprattutto per la sua pittura non figurativa, ha violato il tabù necropolitano con questa singolare piangente che farà data. Aggiungo: non cercate le coordinate di questa sepoltura sulle mappe offerte dalla municipalità. Per loro non esiste …e questo stimola il personale senso della ricerca.



Lascio che siano le mie fotografie a raccontare chi vado cercando in questo cimitero - e il perché lo si può comprendere dai miei scritti. Mi limito ad una solo racconto, dedicato alla stele tronca su cui si legge: A Bories, Goubin, Pommier et Raoulx - Mort le 21 sept 1822. Si trova nell’8e division, poco oltre la tomba di Tristan Tzara, Poete e di fronte alla lapide che ricorda Georges Wolinski, Assassiné le 7 janvier lors de l’attentat contre Charlie-Hebdo.

Ecco, in breve, la storia dei Quattro Sergenti de La Rochelle.
Nel 1821 due studenti, Joubert e Dugied, da Napoli introducono una società segreta repubblicana, frazionata in cellule o vendite di dieci affiliati, detta Carboneria, il cui capo occulto, La Fayette, è da poco rientrato in Francia dall’America. Questa associazione recluta i suoi membri principalmente nell’esercito - dove grande è lo scontento per la fine della Repubblica e la restaurazione di un re sovrano - e soprattutto fra i sottufficiali (soltanto i nobili possono diventare ufficiali). Uno dei più entusiasti sostenitori della carboneria è il sergente maggiore Jean-François-Clair Bories, del 45mo di linea accasermato nel Quartiere latino di Parigi, un ventiseienne originario di Villefranche d’Aveyron, il quale ben presto guadagna alla causa tre suoi camerati: i sergenti Jean-Joseph Pommier, Marius-Claude Raoulx e Charles Goubin, di 25, 24 e 20 anni.
La vicinanza della caserma all’università, fucina di idee repubblicane, induce le alte gerarchie militari a traferire a La Rochelle il 45mo di linea, già in sospetto di tendenze repubblicane esplicitate più volte col rifiuto di gridare Viva il re! Lasciata Parigi il 22 gennaio 1822, un primo incidente ha luogo ad Orléans dove, in una bagarre con dei mercenari svizzeri, Bories riceve diversi colpi di baionetta. A Saint-Maure i “nostri” sergenti entrano in contatto con il generale Berton che, per parte sua, sta preparando una sollevazione a Thouars. A Poitiers un insospettito ufficiale cerca di far parlare Bories, senza successo. A Niot il sergente maggiore ha la mala idea di offrire a dei liberali del luogo un ricco pranzo al caffè di Bellegarde, pagando di tasca sua il salato conto di 52 lire, cosa che attira il sospetto del suo colonnello, che lo fa sorvegliare.
Una volta a La Rochelle i quattro sottufficiali prendono a frequentarsi coi numerosi Carbonari del luogo, siano essi civili o militari ...e fin qui siamo sempre nel campo delle parole. I fatti arrivano il 23 febbraio 1822, quando il generale Berton solleva Thouars e tenta di prendere Saumur, ma i pochi congiurati convenuti,disorganizzati e mal diretti dall’indeciso Berton, vengono bloccati. Berton è arrestato e subito giustiziato.
Ovviamente anche i quattro sergenti non hanno aderito alla sommossa di Berton, avendo ben altri affari da sbrigare: Raoulx, Goubin e Pommier si sono fidanzati con tre giovani di La Rochelle, mentre il loro superiore, Bories, ha fatto innamorare una signorina dell’alta società, Olympia de Mareuge, con la quale si incontra in segreto nel villaggio di Lafond. Pedinati, i due amanti si fanno sorprendere dal fratello di lei, che sfida in duello Bories. Battuto e ferito, al fratello di Olympia non resta che giurare tremenda vendetta.
In seguito a questi fatti, i vertici militari decidono che è tempo d’intervenire sui quattro. Il primo ad essere arrestato è Goubin, per indisciplina. Poi tocca a Pommier, sorpreso travestito da contadino in cerca dei cospiratori di Thouars. Qui entra in scena un certo Goupillon, anche lui un sergente iscritto alla carboneria, il quale si fa prendere dalla paura e racconta tutto quel che sa al suo colonnello, nomi degli associati inclusi. L’ufficiale fa perquisire i pagliericci dei sergenti trovandovi dei pugnali di Solingen - la città tedesca al tempo famosa per le sue lame d’acciaio vendute a qualsivoglia gruppo di rivoluzionari europei, quindi una conferma. Il colonnello decide di non procedere, lasciando i sospetti liberi di muoversi …e di essere pedinati in attesa del passo falso decisivo.
L’occasione propizia la fornisce una grande assemblea organizzata dai Carbonari nel cuore di una foresta, con tanto di raduno attorno alla pietra druidica (un dolmen) su cui depongono le armi e il denaro raccolto ...e un prete a benedire il tutto. Scatta la vendetta del fratello di Olympia, che avendo letto le carte di Bories conservate da sua sorella, segnala alla polizia il luogo del raduno. Catturati nei pressi del dolmen, per i quattro sergenti si aprono le porte della torre della Lanterna, la prigione di La Rochelle oggi nota come la torre dei quattro sergenti.
Gli ufficiali sottopongono i prigionieri ad uno stretto interrogatorio, offrendo la libertà in cambio dei nomi dei capi della carboneria francese. Ma i tre sergenti sono pesci piccoli, all’oscuro di chi tira le fila, mentre così non è per Bories, l’unico che ha incontrato alcuni dei suoi superiori. Ma lui non è un tipo che parla, nemmeno sotto tortura.
Tradotti a Parigi, i quattro dapprima vengono tenuti in isolamento alla Force, poi riuniti alla Conciergerie, occasione sfruttata da Bories per recuperare il suo ascendente sui sottoposti: chiede loro di ritrattare le confessioni e di sacrificarsi per salvare l’intera organizzazione.
Il processo ai Carbonari si celebra in Corte d’Assise il 21 agosto, con 25 militari alla sbarra. Tra il pubblico vi è anche Olympia, che ha potuto visitare il suo amato in prigione: concessioni mirate, intese a indurre Bories alla confessione. Dopo la sfilata dei testimoni a carico, il procuratore de Marchangy pronuncia la sua requisitoria. Gracile, nervoso, ambizioso, membro della Congregazione e in rapporti di familiarità col futuro Carlo X, questo magistrato fa l’apologia della monarchia assoluta e chiede per gli imputati la pena di morte. La difesa dei quattro è affidata a madame Mérilhou, segretamente affiliata alla Carboneria dove occupa un posto di alto rango. Nella sua arringa si premura di mettere l’accento non sul complotto bensì sul coraggio del sergente maggiore Bories, ferito a Waterloo. Il simbolismo ha preso il sopravvento sui fatti.
Alla fine della requisitoria Bories prende la parola; si addossa ogni colpa e offre la sua testa in cambio della vita dei suoi compagni. Invano. Il tribunale ha ricevuto ordini chiari e precisi: colpirne quattro per educarne mille. Per loro vi è la ghigliottina, con esecuzione della pena entro il più breve tempo possibile, come principi umanitari richiedono.
A questo punto entrano in azione i pezzi da 90 della carboneria parigina. La Fayette, il colonnello Fabvier, i pittori Ary Scheffer e Horace Vernet cercano di corrompere il direttore della prigione ma si muovono goffamente, tant’è che l’allertato elemosiniere De Bicetre smaschera immediatamente il tentativo. Contemporaneamente, alcuni deputati si recano da Luigi XVIII per implorare la grazia.
- A che ora devono essere giustiziati i condannati? chiede il sovrano.
- Alle quattro, sire.
- Ah, bene! Concederò la grazia alle cinque…

Dopo il taglio dei capelli e lo spoglio degli abiti in eccedenza ai quattro non resta che salire sulla carretta che dal carcere della Bicêtre li porta alla place de Grève, da tempo immemorabile il luogo abituale delle esecuzioni a morte (oggi scomparsa, occupava parte dell’attuale place de l’Hôtel de Ville). Ai piedi del catafalco viene loro concesso di darsi l’ultimo bacio, poi uno dopo l’altro offrono la testa al rasoio nazionale. Si aggiunga un dramma nel dramma: incapace di resistere al dolore per la morte dell’amato Bories, la giovane Olympia si getta nella Senna, morendo annegata. Prima del cadere della notte i quattro decapitati sono al cimitero di Montparnasse e qui sepolti sotto una lapide su cui si legge: 21 Settembre 1822, alle 5 di sera. La stessa notte un amico pianta nella terra smossa una bandiera francese listata a lutto - e ogni giorno mani anonime ricoprono di fiori questa sepoltura.

Fin da subito la morte dei quattro sergenti diventa un caso che riempie le pagine dei quotidiani, a cui s’aggiungono i cantastorie ambulanti e la letteratura romantica - e neppure Honoré de Balzac si sottrae, evocando i fatti ne La Peau de chagrin, ne Les Emplyés ou la Femme supérieure e ne La Rabouilleuse. I manifesti e i foglietti coi volti e la storia dei quattro giovani martiri per la libertà si vendono ovunque e la scena dell’addio dei condannati ai piedi della ghigliottina vien fatta oggetto di culto politico anti-monarchico.
Il tempo passa, i re scappano. Otto anni dopo, il 21 settembre 1830, in place de Grève 4000 cittadini celebrano un solenne ricordo dei quattro sergenti, figure ormai parte del mito popolare. Nel 1846 l’originaria pietra tombale viene rimossa e sostituita da una colonna decorata di un medaglione sul quale David d’Angers ha scolpito i tratti dei quattro sergenti. Una nuova grande cerimonia in loro onore si ha nel 1848, quando il viale prospicente assume il nome di «Allée des Sergents de La Rochelle».
La vendetta è un piatto freddo: circa 50 anni dopo, approfittando dei moti della Comune, viene assassinato l’ormai ottantenne ex sergente Goupillon, colui che a suo tempo aveva denunciato i quattro commilitoni in cambio della sua salvezza.
Poi su tutto cade l’oblio e si dove aspettare il maggio 1968 per rivedere fiori e cerimonie commemorative sulla tomba dei quattro ghigliottinati. Poi ancora oblio.

BIBLIOGRAFIA consultata
- Rivoluzionefrancese. Storia dei dieci anni 1830-1840, di Luigi Blanc. Tomo I. Lugano, Tipografia della Svizzera Italiana, 1844.
- L’aventure des quatre sergents deLa Rochelle (1822), par Léonce Grasilier. Editions Rupella, La Rochelle, 1929.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
2 ottobre 2017