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lunedì 13 novembre 2017

Picasso. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925


Dopo Napoli, la mostra Picasso. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925 è approdata a Roma, suddivisa tra le Scuderie del Quirinale e Palazzo Barberini. Nelle Scuderie si possono ammirare dipinti, disegni e articoli di contorno riferentesi alla permanenza di Picasso e Cocteau a Roma - dove avevano raggiunto il gruppo dei Ballets Russes di Diaghilev - , nel Salone delle parate di Palazzo Barberini è “calato” il sipario di Parade, un dipinto di 172 metri quadrati.

A mio avviso, il miglior testo che racconta il periodo di vita artistico e privato di Picasso immediatamente successivo alla morte di Eva (dicembre 1915) resta Picasso e il teatro di Douglas Cooper (1967), dove le pagine da 7 a 34 sono interamente dedicate all’approccio e alla successiva realizzazione di Parade.
In questo blog di non-recensioni ho optato per un altro scritto estratto da Parigi era viva. La capitale dell’arte nel ventesimo secolo di Gualtieri di San Lazzaro, Arnoldo Mondadori Editore 1966, al cui termine trovate i miei scatti romani.

pp. 286-291

Pio XII avrebbe voluto un suo quadro per il Museo Vaticano e un comitato s’era formato a Roma per acquistarlo e regalarlo al Pontefice, il quale aveva fatto sapere che avrebbe gradito il ritratto d’una ragazza, con i capelli annodati sulla nuca e ricadenti sulle spalle, come una coda di cavallo; Sua Santità doveva averne visto la riproduzione in qualche rivista.
Di quella ragazza, Picasso aveva fatto diversi ritratti. Silvio, cui il comitato romano si era rivolto, credette opportuno di parlarne con Kahnweiler. «Picasso ne ha infatti conservato uno» gli disse il vecchio mercante «ma vorrà cederlo al Vaticano? Tentate di parlargliene alla prima occasione, ma non dimenticate ch’egli è più ricco di voi e di me. D’altra parte, sapendo di ritrovarsi, nella stessa sala, con pittori di cui non ha nessuna stima, è difficile presentargli la cosa come se potesse procurargli un particolare onore.»
Silvio era persuaso che Picasso avrebbe volentieri ceduto al capriccio del Papa. Non, evidentemente, per quella diecina di milioni che il comitato gli avrebbe versato. Ch’egli fosse più ricco di Silvio e di Kahnweiler, non c’era dubbio, e Silvio a stento aveva trattenuto le risa, quando il mercante aveva cortesemente accoppiato il suo nome al proprio. Ricco? Uno degli uomini più ricchi del mondo, era senza dubbio Picasso. Non era, però, la sua, la ricchezza dei ricchi, ma quella conquistata pazientemente da un povero. Per i ricchi, la fortuna è un mezzo di dominazione e di godimento, per i poveri è soltanto un fine, un tabù miracoloso, magico, il quale non osano toccare, temendo di vederselo sfumare nelle mani. Nonostante la sua immensa fortuna, Picasso viveva poveramente. In tasca non aveva mai un soldo, e la borsetta della signora Picasso era anch’essa disperatamente vuota. Purtroppo la morte del Papa impedì a Silvio di mettere il grande artista alla prova.
No, non era ricco Picasso. Persino Silvio, non si sentiva più povero del creso Picasso: le sigarette che gli capitava di offrire, costavano di più, se non altro, delle gauloises di Picasso. E aveva senza dubbio, nella sua vita, regalato più libri e litografie e numeri della rivista ad artisti e conoscenti, che Picasso non avesse distribuito fra gli amici tele e disegni, salvo le cinque o sei persone, come Dora Maar, André Verdet e il sarto Sapone, per i quali era stato più che un amico, la provvidenza.
Silvio notò, girando l’occhio intorno, che tutti quei nasi di cartone e i cappelli da cow-boy (anche lui gli aveva regalato qualche anno prima un cappello di paglia che un amico aveva portato dalla Cina), tutta la messa in scena burlesca d’una volta era scomparsa. Picasso non vedeva più di frequente nemmeno il sarto Sapone, che una volta riusciva a metterlo di buon umore. Forse non aveva rinunziato a provarsi di essere ancora giovane; di avere sempre quattordici anni, ma il sentimento tragico ch’era di lui, come in tutti gli uomini del Mediterraneo, ora aveva il sopravvento.
Non aveva mai osato esplorare, come Mirò, il proprio inconscio, per tema di scoprirvi degli abissi paurosi. S’era imposto dei limiti, per non perdere la ragione, violando le frontiere della propria natura. Silvio pensò che i collezionisti da alcuni anni non dicevano più: «È il più vivo dei giovani pittori». Dicevano, piuttosto: «Lascerà alcune migliaia di tele. Che fine faranno?». Alle sculture - che erano le sue opere più sbalorditive - non pensava nessuno.
Il discorso intanto s’era spostato sulla ceramica. «Ho potuto, come dicono, rinnovare la ceramica» diceva Picasso «perché non era il mio mestiere. Non ho avuto bisogno, come per la pittura, di dimenticare tutto quello che avevo imparato nelle accademie. Impara l’arte e mettila da parte, dicevano gli antichi. È quello che gli artigiani non hanno mai il coraggio di fare: imparano l’arte, ma non la mettono da parte. La spendono subito, provocando l’inflazione e quindi la miseria generale.»
“Avesse soltanto rinnovato la ceramica” pensava Silvio. “Ha tutto sconvolto e ricreato; ha distrutto e ricostruito l’oggetto, è riuscito a fare amare le sue figure a quattro nasi e a sei bocche. Kahnweiler aveva ragione di dirmi che è molto più facile per il pubblico accettare l’arte astratta che non le deformazioni imposte da Picasso alla figura umana. Quanto alla sua adesione al comunismo, sarebbe più giusto considerarla un’alleanza, senza chiedersi chi, dei due, ha più ricevuto che dato. Nulla è mai riuscito ad abbatterlo.” E Silvio ricordava il loro primo incontro, durante l’occupazione: “Io, personalmente, non posso considerarmi un vinto. Non sono un uomo d’arme, ma un artista. Sono pronto a sfidare tutti gli artisti tedeschi, e a stravincerli.” Parlava davvero, allora, come un fanciullo di quattordici anni.
«Naturalmente, non mi sono mai detto: voglio rinnovare la ceramica. Era fatale che ciò accadesse perché non ero un vero ceramista» diceva Picasso.
«Se Cristoforo Colombo fosse stato un vero ammiraglio» disse Silvio «non avrebbe scoperto l’America. Sarebbe arrivato nelle Indie facendo, come Vasco de Gama, il periplo dell’Africa.»
Tutti risero, di nuovo. Poi Picasso disse, lentamente: «E per la Spagna sarebbe stata una vera fortuna. Perché della scoperta dell’America, la Spagna non si è ancora rimessa. Che cosa succederà ora, alla morte di Franco?» «Scapperanno tutti, intendo quelli che dividono il potere con lui. Non assisteranno nemmeno ai suoi funerali. I preti, però, resteranno» disse ancora Silvio, che due mesi prima era stato a Barcellona, dove aveva esposto il libro di Mirò e di Ionesco: Quelques fleurs pour des amis. Solo Picasso, questa volta, non rise.
Sulla soglia, Silvio chiese al maestro quando e come avrebbe potuto fare fotografare i quadri ch’egli aveva ritrovato. «Per ora» disse Picasso, freddamente «non desidero pubblicarli.»
Non era il caso d’insistere, anche perché, tutto sommato, nulla quelle tele, senza dubbio interessanti, avrebbero aggiunto alla sua gloria o a quella di Silvio.
Alla gloria di Picasso, ora, bastava il fotografo Quinn, che durante la breve visita avevano visto aggirarsi intorno alla villa, come un’ombra alla ricerca del proprio corpo. Silvio l’aveva trovato, qualche anno prima, alla Californie, quando, dalla Russia, dove era stato autorizzato a fotografare le opere dei musei, era giunto a Cannes e s’era presentato a Picasso, ch’era rimasto impressionato dalla sua grande automobile americana, non indegna di un miliardario, e un poco forse anche dalla sua prestanza fisica, di giovane atleta.
Due o tre volte aveva interrotto, allora, il discorso, per dire:
«Avete visto la macchina di Quinn? Sembra un vascello.» (Anche Picasso aveva ricevuto in dono dall’America in quei giorni una Chrysler che il figlio Paolo doveva andare a sdoganare a Le Havre e quell’avvenimento aveva provocato alla Californie l’agitazione dei giorni felici.) Silvio pensò che Jean Dubuffet, il fotografo Edward Quinn, nonostante la sua macchina vascello e la sua indiscutibile perizia professionale, non l’avrebbe tollerato più di sei mesi. Picasso l’aveva invece adottato come un figlio. Il più grande artista del mondo da dieci anni posava per il fotografo Quinn, volontariamente o a sua insaputa, spiato, studiato, analizzato e perseguitato come un animale raro, come l’ultimo, insostituibile esemplare di una razza di cui l’umanità desiderava conservare un ricordo imperituro. Il grande Picasso - si disse ancora Silvio - è più fiero di lasciare ai posteri il ricordo del proprio torace, invero­similmente giovanile - nonostante l’età veneranda - che non la propria opera.
Cardazzo, dieci anni prima, aveva ritrovato, a Milano, il sipario di Parade, dodici metri di altezza per sei o sette di larghezza, di cui il proprietario, un argentino, si proponeva di ritagliare e di conservare solo il pannello centrale, non avendo nessuna intenzione di costruire un palazzo per poterlo esporre intero. Silvio s’era affrettato ad avvertire Kahnweiler. Pensava che Picasso sarebbe stato contento di riaverlo, in cambio di una tela di modeste proporzioni, che l’argentino non avrebbe certo rifiutata. Ma il Kahnweiler, ancora una volta, fu di parer contrario: «Picasso se ne frega» disse «voi lo conoscete...» Se Silvio l’avesse conosciuto come lo conosceva il suo mercante, quell’idea, evidentemente, l’avrebbe subito scartata. Picasso poteva fregarsene, ma Silvio sentiva il dovere di salvare dalla distruzione uno dei più gloriosi cimeli dei Balletti russi. Di Parade, il balletto immaginato da Jean Cocteau per la musica di Erik Satie, rappresentato a Roma, al teatro dell’Argentina, nel 1917, e al teatro dello Chatelet a Parigi, lo stesso anno, al pubblico non era piaciuto che il sipario di Picasso. L’argentino, intanto, al quale Cardazzo aveva scritto, aveva fatto sapere di essere disposto a venderlo per una somma che, pur non essendo eccessiva, era tuttavia troppo alta per i poveri musei di Francia. Silvio, che non s’era ancora rimesso dell’ultima tremenda operazione, era, allora, da sei mesi, degente in una clinica della riviera ligure. Si mise in contatto con il signor Lloyd, acquirente, allora, di opere d’arte per i musei del Regno Unito e del Commonwealth britannico; il signor Lloyd venne a Milano, vide il sipario, ma con profondo rincrescimento, sostenne che non esisteva una galleria pubblica abbastanza grande per esporto. Disperato, come se si trattasse di salvare una vita umana, Silvio scrisse a Pierre Courthion pregandolo di esporre la situazione al conservatore Jean Cassou. Qualche tempo dopo, a Milano, una fredda e nevosa mattina di marzo, Silvio s’incontrava con Bernard Dorival. Cardazzo ottenne dalla “Scala”, per la seconda volta, il favore di issare il sipario sulla scena del grande teatro milanese, per poterlo mostrare al giovane conservatore del museo nazionale di Parigi. Il giorno dopo, l’immenso telone veniva spedito in Francia per essere sottoposto alla commissione del Louvre. Era già arrivato, quando un telegramma di Rockfeller, dall’America, lo chiedeva, a qualsiasi prezzo, per il Modern Art Museum di New York.
Ai primi di giugno, Silvio poté finalmente rientrare a Parigi.
«Dove pensate di metterlo?» chiese a un funzionario del museo, che incontrò alla vernice d’una mostra. «L’essenziale» disse il funzionario «è di averlo assicurato alla Francia. Jean Cassou si propone del resto di ringraziarvi “ufficialmente” per la vostra tempestiva segnalazione.» Anni dopo, Silvio rivide il sipario di Parade a Londra, alla grande retrospettiva di Picasso ordinata da Roland Penrose alla Tate Gallery. E ricordò il rammarico, apparentemente sincero, del signor Lloyd, quando aveva affermato che non c’era nel Regno Unito e nel Commonwealth un museo abbastanza grande per esporlo.
Ma di tutto ciò, con Picasso, che se ne fregava, non aveva mai parlato.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
7 novembre 2017

























martedì 26 agosto 2014

La liberazione di Parigi, versione Cocteau



Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Mursia 1993, pp. 358-363
Titolo originale: Journal 1942-1945
1989 Éditions Gallimard

25 agosto 1944 - Liberazione di Parigi
Mi ero ripromesso di non scrivere niente prima del grande giorno che abbia­mo appena vissuto.
C’era stata l’attesa. C’era stato il panico dei collaborazionisti preceduto da segni di morte. Quella di Fernandez[1] (arresto cardiaco), il suicidio di Drieu La Rochelle (viene salvato),[2] la morte di Saint-Exupéry[3] (aviazione inglese) e la notizia ancora dubbia su Malraux, fucilato dalla Milizia.[4] La fuga di Bonnard, di Brinon, di «Je suis partout», battezzato «Je suis parti», il treno con la famiglia Luchaire, le mogli e le figlie dell’ambiente filotedesco. (Il treno era partito per la Germania con quarant’otto ore di ritardo. Doveva essere convogliato da Fontenoy. È stato convogliato da gangster di Marsiglia, Costantini,[5] se non sbaglio.)
C’era stato il segreto formarsi dei gruppi delle F.F.I.[6] che occupavano i teatri ufficiali, l’Union des artistes, il C.O.I.C., ecc., dato che i comunisti avevano occupato tutti i posti ufficiali e tutti i monumenti pubblici dopo battaglie rapide e decisive. C’era stato lo spettacolo delle bandiere alle finestre e i giornali nuovi che escono durante le operazioni militari tedesche. (I tedeschi occupavano gli Invalides, l’École militaire, la Concorde, il Senato, il Luxembourg, dieci nuclei di resistenza zeppi di munizioni, di truppe S.S. e di esplosivi.) C’era stata l’apertura delle porte di Drancy, di Fresnes, e della Santé, grazie all’incessante mediazione del ministro di Svezia.
C’era stato il cambiamento di stile alla radio, le buone e le false notizie, l’America e l’Inghilterra che festeggiavano la nostra completa liberazione, mentre Parigi si batteva ancora. C’erano state le barricate, le raffiche di mitragliatrice, i miliziani nascosti che sparavano dalle finestre o dai tetti. L’altro ieri, andando a pranzo alla Concorde da Sert nel bel mezzo della difesa tedesca, attraversavamo, Marais, io e Moulouk, una avenue de l’Opéra completamente deserta e assai sospetta. All’angolo con rue des Petits-champs, una raffica di fucile-mitragliatore ci fa voltare. A un metro da noi, l’unico passante visibile incespica e un enorme fiotto di sangue schizza dalla sua schiena. Cade. Perché lui e non noi? È impressionante sapere che forse eravamo presi di mira da un occhio misterioso e che l’abbiamo scampata bella. Il capitano Delrue[7] dirà poi: «Eravate proprio voi ad essere presi di mira. A cento metri, un fucile mitragliatore è sbandato. Avete sentito fischiare la pallottola? No. Vuol dire che sparavano su di voi». I parigini non danno segno di paura. Nonostante il pericolo dei cecchini e delle macchine che sbucano e spazzano la strada, le donne passeggiano come al 14 luglio. Splendida idea di questa folla libera che partecipa al dramma, rischiando di ostacolare le operazioni. (I primi carri armati di Leclerc sparavano in boulevard des Invalides, carichi di donne e bambini che vi si aggrappavano.) C’erano state le visite e le telefonate degli uni e degli altri (come va dalle vostre parti?), ecc. Il telefono non ha mai smesso di suonare. C’era stato perfino l’imbarazzo dei piccoli comitati dei teatri che volevano fare la parte del tribunale rivoluzionario e mettevano le crocette davanti ai nomi delle vedette.
Finalmente l’altro ieri, a mezzogiorno, c’è stata la telefonata di Jacques Fano, l’addetto stampa del generale Leclerc, che annunciava che il generale sarebbe arrivato in giornata. Abbiamo saputo poi che il cerimoniale tra francesi e americani (i francesi diffidano del metodo americano di demolire tutto) aveva fatto ritardare le truppe. I francesi sapevano soltanto che la città si difendeva ancora molto e sarebbe stata a corto di munizioni. Furono informati con esattezza da due gendarmi che andarono in bicicletta ad Antony. La Resistenza non aveva avuto ordini. I comunisti hanno scatenato la sommossa senza aspettare gli ordini. La Resistenza di destra non ha partecipato. Da ciò il ritardo delle truppe che aspettavano. Le truppe hanno fatto duecento chilometri per andare in soccorso delle F.F.I.
Non appena abbiamo saputo che i primi americani arrivavano a Notre-Dame, corsi a dirlo ai Puget.[8] Avevo appena dato la notizia che le campane di Notre-Dame e di Notre-Dame-des-Victoires cominciarono a diffonderla ovunque. Spettacolo sublime: il Palais-Royal illuminato dalle finestre spalancate. Campane, risate, canti. La radio, ancora male organizzata, di nascosto, sotto l’occhio dei tedeschi, trasmette testimonianze di giovani sfiniti, che balbettano per la stanchezza e l’emozione. Il servizio è interrotto continuamente da porte che sbattono. Sono gli inviati delle ultime novità della strada che entrano ed escono, e le voci si confondono con quelle dei reporter ufficiali.
Il giorno dopo, aiutata dai carri armati, l’insurrezione diventa decisiva. In tutti i quartieri ci si batte sulle barricate. Il primo giorno avevo lasciato Roger Stéphane[9] davanti al Municipio, dopo aver visto issare la bandiera francese sulle torri di Notre-Dame, tra una folla che vendeva e comprava distintivi tricolori. Stéphane, in tre giorni, ha combattuto al Municipio, è stato ferito al braccio e nominato capitano della Resistenza (comandante del Municipio). Io non finisco di correre a destra e a sinistra. Cercando di arrivare dai Labourdette, arrivo in place Notre-Dame, dove è difficile muoversi. La folla vuol vedere i prigionieri che vengono condotti in questura. Purtroppo li insultano e i soldati non possono impedire che la collera del popolo si scateni alla cieca. Mi allontano da questo spettacolo che non mi piace e mi rimprovero di non essere abbastanza semplice da trovarlo legittimo. Sul selciato di Notre-Dame scorgo improvvisamente Moulouk, solo, seduto, abbandonato come nelle Due orfanelle. Paul forse l’aveva perso al Municipio. Per lui è molto naturale ritrovarmi e lo porto dai Labourdette.[10]
Vado a vedere De Gaulle che arriva al Municipio. Arriva su una piccola macchina scoperta, con grande semplicità. Compare alla finestra sull’estrema destra, perché il Municipio non ha balconi né finestre tra le colonne. La folla lo distingue male. Sale sul parapetto della finestra e fa dei grandi gesti familiari con le braccia. Applausi. Lo stile è perfetto, antidittatoriale e mi fa pensare alla frase che mi ha detto una volta Lyautey: «Non sono un militare. Sono un soldato». Difficoltà di non essere né legittimato né dittatore, né nominato dal suffragio universale. Difficoltà di arrivare da fuori, solo, sostenuto soltanto da un sogno.
De Gaulle è altissimo, molto magro, in lui tutto si vede: il naso, gli occhi, le orecchie, i gesti. È un divo. Un pezzo grosso. Non c’è dubbio. Porta la divisa kaki con due stelle.
Nulla di più strano di questa città in festa e che si batte. A Parigi, le cose vanno a fasi, a mode: la guerra dei tetti. Le donne rasate, ecc... Fantomas, Belfagor e i film hanno educato una generazione violenta. I nostri amici vanno in giro con fucili o mitra. Ci si separa, ci si ritrova, ci si riperde. Paul, il mio segretario, che rifiuta di portare bracciali e armi, si intrufola in tutti gli attacchi ai monumenti ed entra per primo all’hôtel Crillon e all’Ambasciata americana. Il Crillon, crivellato dalle granate, resta in piedi, tranne una co­lonna (la gente la chiama la quinta colonna).
La guerra dei tetti si fa sempre più subdola. Sparano ovunque. (Era una di quelle cicogne funeste[11] che l’altro giorno ci aveva presi di mira in avenue de l’Opera.) Sparano dai tetti del Palais-Royal. Quelli che rispondono sparano a caso nei vetri.
Il giorno dopo,[12] mattinata di sole e di bandiere. L’aria leggera, la folla leggera. Si rivedono dei volti. Non se ne vedevano più. Andiamo da Maxim’s a mettere le bandiere e a prenderne per la casa. Nel pomeriggio assistiamo a una sfilata da una finestra dell’hôtel Crillon. De Gaulle cammina tra i carri armati e i ragazzi del popolo che si tengono per mano. E il simbolo del suo programma. Una folla immensa (quasi tutte le donne vestite di bianco, blu e rosso) brulica in piace de la Concorde fin sulle statue.
Improvvisamente si scatena il dramma. I tiratori dei tetti cominciano. I carri armati allineati davanti all’hotel rispondono e bombardano. La mia sigaretta è spezzata a metà in bocca. Jeannot e Paul rifiutano di andare via dalla camera sulla facciata. Si buttano a terra, si rialzano e lasciano spuntare la testa dal balcone. Vengono scambiati per cecchini e i carri armati rispondono. Nello stesso momento, a Notre-Dame sparavano sul generale De Gaulle e su alcuni punti del corteo.
Come mai non erano state ispezionate le torri di Notre-Dame da cui i misteriosi cecchini sparavano da tre giorni? Il custode delle torri, interrogato, risponderà: «Le torri sono delle catacombe» (sic). Parigi è attraversata da macchine F.F.I. con la croce di Lorena; sono state più o meno requisite e sono cariche di giovani con bracciali e rivoltelle. E così vedo sbarcare a casa Goddet (capitano) e il figlio dei Capgras.
Le false notizie circolano in fretta come queste automobili pericolose: le teste di tutte le attrici sono state rasate a zero. Hanno arrestato tutti gli scrittori, ecc. Arresto di Sacha Guitry,[13] condotto al municipio della VII circoscrizione parigina, poi alla polizia giudiziaria, poi alla prigione della Santé!
Titayna[14] e Desmarets[15] sono stati arrestati.
Le donne rasate, tutte nude, trascinate con una catena al collo, insultate, picchiate da altre donne che di certo hanno fatto di peggio. Spettacolo vergognoso.
Donne innocenti e rasate vengono condotte al Municipio. Non hanno il coraggio di rimetterle fuori. Le ospita Roger. Vi resteranno sino a quando i capelli saranno ricresciuti.
Immagino un prigioniero che ritorna con i capelli lunghi e trova la moglie con i capelli a spazzola.
Parigi ribolle, fermenta, prepara gli esplosivi. Lo slancio viene meno e lascia il posto ai piccoli rancori, ai garbugli, ai numerosissimi asti individuali.
Prima ondata. I nostri compagni, tanto liberi nell’oppressione, si trovano oppressi in libertà. La loro resistenza segreta diventa un regime sottomesso a leggi, bolli sui manifesti. Tra poco si metteranno di nuovo a lavorare segretamente contro un ordine che li paralizza. Verrà un’altra ondata e li sommergerà. Éluard - perfetto nella sua nobiltà, ma con una gioia infantile per il trionfo della sua causa - mi dice: «Hemingway ha mandato una macchina e lei è stato a fargli visita al Ritz. Non doveva andarci. Ha scritto contro la Spagna. Se i comunisti sapessero che è andato a trovarlo, se la prenderebbero con lei».[16] Non ho quindi tanto torto a temere un rimprovero di «collaborazione americana».
Dai miei conciliaboli con gli uni e con gli altri, risulta che l’unica posizione nobile è l’estremo riserbo, il silenzio, le vecchie e fedeli amicizie.

Da Picasso. È il re, e giustissimo. Dopo la tempesta, lo trovo nei suoi magnifici antri da leone. Sta finendo una testa di donna sul libro che gli scrittori della Resistenza offrono al generale De Gaulle. «Le cose non cambiano mai» mormora strizzando un occhio, «il nostro regno non è di questo mondo.» Parla sottovoce, perché la minima cosa detta viene ripresa, ripetuta, volta a nostro danno. «Dare un colpo di spugna» fra tutte le frasi è quella che viene perdonata più difficilmente. Ed è giusto. Troppi hanno sofferto, troppi hanno subito le torture tedesche.
La Milizia sparava dai tetti. Le F.F.I. sparano alle gambe. Ieri, trentuno agosto, Fargue mi telefona che è appena uscito un omaggio di fedeltà al regime, firmato dai sette membri rimasti francesi dell’Académie Mallarmé. I nostri nomi non ci sono.[17]
Mondor, Charpentier cedono. Dicono che non è colpa loro, e accusano il giornale di aver travisato il testo. Suppongo che, improvvisamente imbarazzati dall’enormità di questo gesto criminale che equivale, in negativo, a una denuncia, tentino di circondare questo verdetto di un ridicolo mistero. Il giorno dopo[18] hanno aggiunto il mio nome e quello di Fargue.

Ho preso una decisione. Ho detto a Jacques Fano, venuto a cena con me ieri, e ad Éluard, stamattina, che non farò mai neanche un passo, non farò neppure una telefonata e metterò tra le mani di Éluard e di Sartre il mio nome, che stanno cercando di disonorare.
Cosa mi viene rimproverato? Di essere amico di Arno Breker. Certo, conosco Breker da molto tempo. Ha continuamente messo a disposizione di Hitler il suo potere, a servizio della Francia. Ha salvato moltissimi prigionieri, perorato la nostra causa, ha impedito che ci trattassero come la Polonia. Non mi aspettavo niente da quell’articolo su Breker, perché ho sempre rifiutato che intervenisse per interrompere la campagna stampa che mi ha infangato. Giraudoux doveva il silenzio a Ribbentrop. Spesso mi consigliava di imporre il silenzio stampa mediante Breker. Breker si era offerto di farlo. Avevo rifiutato rispondendo che la fierezza me l’impediva e che mi rallegravo di essere in­fangato dalla stampa collaborazionista.
Per di più trovavo nobile parlare di un amico nemico come di un amico alleato. Attualmente l’articolo sovrasta tutto. Nessuno tiene conto degli insulti, della rovina dei Parents terribles e delle bombe lacrimogene in sala, della censura della Machine à écrire, del mio rifiuto di salutare la bandiera della L.V.F. e dell’aggressione che per poco non mi ha reso cieco. Conta solo Breker, l’articolo su Breker, l’amicizia con Breker, il solo atto che riuscirà a farmi impiccare.
Meraviglia di un’amicizia nata da un lungo odio. Éluard si accanisce a difendere la mia causa e, nonostante la lettera così dura dopo l’articolo su Breker, pensa che pochi dei nostri amici avrebbero avuto il coraggio di non togliersi il cappello in mezzo ai membri del P.P.F. Ecco a che punto siamo. La coerenza profonda di un individuo non lo discolpa, importa solo mettere dei fatti sulla bilancia.
Perché dovrebbe cambiare il destino di un poeta? Il mio regno non è di questo mondo e il mondo ce l’ha con me perché seguo male le regole. Soffrirò sempre per la stessa ingiustizia. Scateneranno sempre gli scandali, che detesto, accusandomi di desiderarli ed esserne l’istigatore. Di certo il mio angelo mi protegge facendomi commettere degli sbagli che mi salvano dall’azione diretta e dalla vertigine dell’attualità![19]
Ed eccoci al 31 agosto. Le piccole Gip[20] degli americani trasportano le donne, come le carrozze delle giostre. I nostri amici organizzano dei cocktail. Al Ritz liberato, gli ufficiali americani pranzano con donne da marciapiede. Una grande gioia che si doveva provare non riesce a superare, dentro di me, strati di imbarazzo e tristezza. Hanno guastato la gioia. I parigini credono che la guerra sia finita. Incomincia. Sarà feroce. Due notti fa, i tedeschi hanno bombardato Parigi con le bombe al fosforo e hanno incendiato la Halle aux vins.[21] Ce lo ha raccontato Picasso, più vicino di noi al disastro.[22] Bruciava tutto, alberi, pietre, acqua, in un incredibile silenzio. Tutta la città era illuminata da una luce d’alba, e il calore minerale, sconosciuto, del fosforo accompagnava questo grande bagliore immobile, piatto, color rosa tea.
Nel Palais-Royal c’era l’ombra degli alberi immobili e questo bagliore al suolo. E durava. Non cambiava intensità. Durava tutta la notte. Il disordine organizzato degli americani si oppone allo stile della disciplina tedesca, la sconvolge, la disorienta. I combattimenti terminano nello sbandamento, ma le perdite, ancora ieri, alle porte di Parigi sono state pesantissime.






[1] Ramon Fernandez (1894-1944), romanziere (Le Pari, 1932), saggista (Marcel Proust, 1943, e Balzac, 1944), membro influente della «N.R.F.» e delle edizioni Gallimard. Apparteneva al Co­mitato politico del P.P.F. doriotista e collaborava al «Cri du Peuple».
[2] Riproverà, con esito positivo, il 15 marzo 1945.
[3] Il 31 luglio, durante un volo di ricognizione tra la Corsica e le Alpi.
[4] Ferito e fatto prigioniero il 22 luglio, viene imprigionato a Tolosa.
[5] A proposito di Pierre Costantini (nato nel 1899), cfr. Pascale Ory, Les Collaborateurs, 1940-1945, Parigi, Ed. du Seuil, collana «Points», 1976, pp. 96-98. Fondò la Lega francese di epurazio­ne (nel 1941), un piccolo gruppo che si alleò con il P.P.F.
[6] Le F.F.I. sono le «Forces francaises de l’Intérieur». (N.d.T.)
[7] Ufficiale della divisione Leclerc, Jacques Delrue determinò l’arruolamento di Jean Marais nella seconda divisione blindata.
[8] Vicinissimi: abitavano in rue de Montpensier.
[9] Pseudonimo di Roger Woorms, nato nel 1919. R. Stéphane, che conosceva Jean Cocteau già da qualche anno, non ha ancora pubblicato nulla. Giornalista e produttore televisivo, realizzerà nel 1963 un eccellente Portrait-Souvenir dedicato a Cocteau.
[10] I genitori di Elina Labourdette (nata nel 1919; fu protagonista della Dames du Bois de Boulogne); abitava in rue Chanoinesse.
[11] La cicogna era una specie di aeroplano da ricognizione. (N.d.R.)
[12] II 26 agosto.
[13] Il 23 agosto.
[14] Romanziere (La Japonaise, 1931) e giornalista; Jean Cocteau l’aveva incontrato alla fine del suo giro del mondo (Mon premier voyage, p. 366). Scriveva sui giornali collaborazionisti tra cui «La France au travail».
[15] «Desmarets liberato questa sera» (nota di Jean Cocteau).
[16] Giunto a Parigi il 25 agosto, con l’avanguardia della 2a Divisione blindata, nonostante la proibizione del generale Leclerc fattagli a Rambouillet, Ernest Hemingway (1899-1961), corri­spondente di guerra, si stabilisce al Ritz e riprende contatto con i suoi amici. Sul «rapimento» di Cocteau, possiamo citare la testimonianza di R. Lannes: «Quando arriviamo da Cocteau, ve­diamo la polizia che irrompe e lo stesso Cocteau sequestrato dentro una macchina assai misterio­sa. Abbiamo un momento di grande emozione, ma, una volta tornato a casa, Marie-Laure de Noailles mi telefona dicendo che ha incontrato Jean che giocava al soldatino su un carro americano in compagnia dei divi del cinema» (frammento del 27 agosto 1944).
[17] In un foglio del diario, datato 31 agosto, Lannes designa quali responsabili di questa «manovra perfettamente ignobile, gli elementi più ridicoli dell’Académie Mallarmé: gli Charpentier e i Fontainas che hanno fatto firmare a Valéry e a Mondor un manifesto detto dei “cinque rimasti francesi”».
[18] Questa frase sembra un’aggiunta, messa di traverso sulla pagina di sinistra. Ne «Le Figaro» del 2 settembre, il comunicato dell’Académie Mallarmé porta infatti i nomi di Jean Cocteau e di L.-P. Fargue. Il testo è riportato nella biografia di J.-J. Khim, E. Sprigge e H.C. Béhar, p. 290.
[19] Nel manoscritto è stata cancellata una riga: «Mauriac nelle lettere, Salacrou nel teatro, mi perseguitano».
[20] Oltre a testimoniare uno sforzo immediato di assimilazione, questa grafia - meglio di Jeep - permette di conoscere la sigla originale «G.P.», iniziali di general purpose, cioè «macchina tuttofare».
[21] Nella notte tra il 26 e il 27, la Luftwaffe aveva bombardato Parigi. Oltre alla Halle aux vins, era stato duramente colpito l’ospedale Bichat.
[22] Nelle ultime settimane dell’Occupazione, Picasso, per prudenza, aveva lasciato l’atelier della rue des Grands-Augustins, per sistemarsi da Marie-Thérèse Walter, sua ex amante e madre di Maïa, che abitava in boulevard Henri IV.