giovedì 17 ottobre 2019

Arte e Moda. La Leopolda nel 1996


Torna la Leopolda - quest’anno per la sua decima edizione - dal 18 al 20 ottobre, a Firenze, come sempre. Iscriviti qui e sarai tra i primi a ricevere informazioni sull’evento e sulle possibilità di dare una mano a renderla possibile. L’evento del decennale sarà un momento unico, e servirà l’aiuto di tutti per renderlo indimenticabile. Ci vediamo a Firenze!

Con queste parole i Comitati Azione Civile presentano Leopolda 10, una kermesse politico-economica utile a finanziare un altro gruppo politico di stampo padronale.
In realtà, per i vecchi fiorentini che ne hanno memoria, il nome Leopolda riporta alla prima stazione ferroviaria costruita a Firenze - e chi fosse interessato a conoscerne la storia sul web trova buone informazioni.

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La Stazione Leopolda entra nella mia vita nell’ormai lontano 1996, quando decisi di far visita alle installazioni della Biennale di Firenze, un evento ottimamente descritto da Paolo Vaghezzi per La Repubblica del 20 settembre 1996, che qui riprendo.

La moda entra nel museo
La Biennale di Firenze dedicata agli stilisti.
Gli Uffizi, l’Accademia, l’antica stazione Leopolda
diventano teatro delle loro creazioni.
Una manifestazione che divide i critici

“Tagliare è pensare e vedere”. Questa frase di Germano Celant, un vero doppio senso, dovrebbe essere incisa sull’altare dell’arte dove ora si celebrano i riti della moda. L’altare di cui si parla, e dove officiano decine di artisti e di stilisti, è di un’ampiezza spaventosa perché è quello che ha messo a disposizione la Biennale di Firenze: è formato da musei carichi di storia come gli Uffizi e la galleria dell’Accademia, nonché da luoghi restaurati, come l’antica stazione Leopolda, o costruiti per l’ occasione come i sette padiglioni che Arata Isozaki ha innalzato nel prato del Forte di Belvedere, cubi e cilindri di legno, con il giallo, il verde dell’autunno, che si confrontano con il panorama di Firenze e la cupola del Brunelleschi.
È dunque un viaggio infinito quello della Biennale, vivace ed eccitante, zeppo anche di lustrini, di appuntamenti mondani, di stilisti come Armani o Valentino che dichiarano di essere “onorati” per l’accoglienza che gli hanno riservato i musei del capoluogo toscano, un viaggio che ridisegna i rapporti tra Firenze e l’ arte contemporanea, sempre negletta e dimenticata in questa città, a conclusione del quale si dovrebbe trarre una lezione: la moda è ormai entrata a pieno titolo tra i linguaggi dell’espressività contemporanea. Lo sottolinea Celant, che con Luigi Settembrini e Ingrid Sischy è il curatore della Biennale. E comunque, come dice la Sischy, è “una provocazione a tempo determinato perché durerà solo tre mesi”: la manifestazione inizierà domani e si concluderà il 15 dicembre.
La provocazione è sicuramente riuscita perché storici e critici sono divisi dalle tesi della manifestazione e lo saranno ancor di più dopo la visita alle mostre, presentate alla stampa fin da ieri, cariche di luci ma anche di qualche ombra. Le esposizioni sono sette: quattro monografiche e tre tematiche, giocate sull’incontro scontro arte e moda. Una Visitors, occupa l’intero territorio dei musei essendo coinvolte, tra il capoluogo toscano e Prato, ben sedici istituzioni, da palazzo Vecchio al museo del Bigallo. Sì, gli stilisti sono entrati nelle cattedrali della cultura con i loro abiti. Il risultato? Chi ha puntato sull’ironia, come Jean Paul Gaultier alla Specola, o Philip Treacy al museo degli argenti di palazzo Pitti, ha centrato l’obiettivo. Chi invece, come Valentino, s’è scontrato con un mito rinascimentale è rimasto sconfitto. I suoi abiti da sera, diciotto, tutti rosso fuoco, sono ben poca cosa di fronte al David di Michelangelo.
Si è salvato Armani con quattordici abiti dai colori tenui, piazzati all’ inizio del corridoio di levante degli Uffizi, che si confondono tra i dipinti della serie gioviana e le sculture romane della collezione medicea. Ferré invece ha scelto la via dell’architettura, ha lavorato sulla struttura delle antiche crinoline e le ha sospese all’ interno della cappella dei principi delle cappelle medicee. Sembrano macchine misteriose, splendidamente illuminate, dai colori che contrastano con l’austerità della cappella. Hanno provocato uno shock a Licia Bertani, che è la direttrice. Ma, sostiene Gae Aulenti, è un’esperienza unica, esemplare per la sperimentazione. E non sono gli unici luoghi dove è atterrata questa “nave spaziale”, come la definisce Celant, e gli sconfinamenti sono più forti in altre zone. Cominciamo dal Forte di Belvedere. La palazzina offre la storia: gli artisti che si sono ispirati al tema dell’abito, dai costruttivisti russi alla canadese Jana Sterbak, che vuol proporre un abito formato da sottili fette di carne (in difficoltà perché il taglio della bistecca fiorentina è diverso da quello del Canada), a Fontana, a Beuys, al gigantesco strascico di Beverly Semmes.
I padiglioni di Isozaki ospitano la contemporaneità: abiti e installazioni, con qualche piccola provocazione come quella di Damien Hirst che con le borse di Miuccia Prada espone un pony, una capretta tibetana, conigli, galline. Gli animali guardano i visitatori che guardano lo stilista. Ma al Forte i due mondi, quello dell’arte contemporanea e degli stilisti, come è ben chiaro anche nel padiglione Versace-Lichtenstein, restano divisi. Diventano un unico universo, una sola galassia alla stazione Leopolda perché qui non ci sono abiti, ma creazioni, installazioni: una stanza per l’artista e una per lo stilista, che liberato dai problemi industriali ha un proprio linguaggio, che non è quello della passerella.
E l’intervento minimal di Armani, pannelli di stoffa, quasi si confonde con il reggiseno gigante di Acconci, mentre le foto di Cindy Sherman e l’installazione di David Bowie si mischiano con le colonne colorate di Missoni, il cuore labirinto di Moschino o i manichini di legno di Yamamoto, che sembrano scheletri scarnificati. Intorno le quattro monografiche: lo splendido omaggio di palazzo Pitti a Emilio Pucci, le foto di Bruce Weber nel museo Ferragamo, Pistoletto al Pecci di Prato, gli occhiali e gli abiti folli di Elton John nella sala delle Regie Poste degli Uffizi. È questa la Biennale di Firenze di cui, sicuramente, si discuterà ancora a lungo, occasione unica perché al prossimo appuntamento probabilmente cambierà tema.

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Il connubio tra Arte e Moda mi era sembrato interessante e, se positivo, da utilizzare per il mio annuale calendario fotografico, stampato in 1000 copie e distribuito in ogni continente. Una volta a Firenze, mi sono trovato all’interno di ambienti bui, rischiarati da luci artificiali di ogni genere e l’avere un solo corpo macchina e pellicole diapositive 50 Asa mi ha reso tutto più complicato, quindi più interessante.
La scarsità di luce - detesto l’uso del flash, il grande falsario - mi ha costretto a lavorare per lo più con 1 secondo di posa a diaframma 1,4, un’apertura che rende immagini prive di profondità di campo, problema risolto decidendo di volta in volta quale punto mettere a fuoco, lasciando sfocato tutto il resto. Inoltre, la pellicola per luce diurna cattura tutte le dominanti gialle, cyan e verdi tipiche delle luci artificiali; una bella gatta da pelare, ma ho usato il difetto per trarne fotografie veritiere: mostro quello che i miei occhi hanno visto, senza alterazioni.
In tempi recenti ho passato le diapositive in uno scanner e così, grazie alla tecnologia digitale, ho dato una nuova vita alle immagini scattate nella Palazzina del Belvedere, in Palazzo Pitti, negli Uffizi, alla Specola, nelle Cappelle Medicee e alla Leopolda, la dismessa stazione ferroviaria che nel 1996 mi si era presentata come un tunnel buio con postazioni visibili solo grazie a tante luci artificiali, una metafora che mi pone qualche riflessione.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Firenze, ottobre 1996













































































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