sabato 31 maggio 2014

Il Mani, Patrick Leigh Fermor e Bruce Chatwin


IL MANI. Per la gente del Peloponneso Mani è il nome dello stretto dito di terra che separa Kalamata e Gythio da Capo Tenaron. Alta sul mare domina la catena montuosa del Taygetos; per secoli, le sue impervie forre hanno offerto ai manioti riparo dai barbari arrivati dal mare. È terra arida, da capre, e il poco spazio disponibile ha costretto a vivere in stretta coabitazione, un’ottima ragione per scatenare feroci lotte tra clan, a turno assediati all’interno delle case-torri che affratellano queste terre alla caucasica Svanezia.
I primitivi abitati del Mani si sono sviluppati in collina e Kardamyli - località tanto vecchia da essere citata da Omero - non fa eccezione. Oggi l’antica cittadella è rappresentata dal complesso eretto a cavallo tra il 17° e il 18° secolo dal kapitanios Panayotis Troupakis: un palazzo, la chiesa di Agios Spiridon e la piazza fortificata. Poco lontano due tombe - di cui una con ossa umane in vista - e la fonte dell’acqua.
Estremo sud del Mani “interno” - nonché seconda punta continentale più meridionale d’Europa - Capo Tenaron (Capo Matapan, per gli italiani) propone le sue gemme: il minuscolo tempio di Poseidone e un mitico ingresso all’oltretomba.

PATRICK LEIGH FERMOR. La carriera di “viaggiatore” di Patrick Leigh Fermor comincia il 9 dicembre 1933, quando lui - nato l’11 febbraio 1915 - è ancora nel diciottesimo anno d’età. Messo in spalla lo zaino che fu di Mark Ogilvie-Grant - compagno di viaggio di Robert Byron nel viaggio sul Monte Athos - e vestito un vecchio cappotto militare, dal Corno d’Olanda (Hoek van Holland) s’incammina verso Costantinopoli (come si chiamava allora) per “cambiare scenario, lasciare Londra e l’Inghilterra e attraversare l’Europa come un vagabondo - o, come dissi tra me e me, come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante, un cavaliere povero o leroe di L’amore e il chiostro!”.
Se la prende comoda. A casa ritorna nel gennaio del 1937, dopo aver attraversato l’Olanda, la Germania che iniziava a innamorarsi di Hitler, la pianura ungherese, la Moldavia, i Carpazi, calpestato le strade della capitale turca e frequentato i monasteri del Monte Athos (gennaio-febbraio 1935).
Nel ’39 è tempo di guerra. Avendo studiato greco antico, l’Intelligence britannica arruola Leigh Fermor col grado di ufficiale di collegamento dislocato presso il quartier generale greco. Paracadutato a Creta, con l’aiuto di William Stanley Moss e di alcuni partigiani di Anogia, il maggiore Fermor (Michalis per i suoi amici greci) organizza un colpo di mano che ha dell’incredibile: vestito da soldato tedesco si mette in mezzo alla strada e poco prima di Knossòs blocca l’auto del Generalmajor Kreipe, il comandante tedesco della divisione Sebastopol. Con questa coraggiosa e incruenta cattura, Leigh Fermor entra nel cuore dei greci, popolo che a guerra conclusa non esita a conferirgli importanti onorificenze. Londra gli riserva il titolo di baronetto.
A suo modo, anche Hollywood decide di ricordare le gesta di Fermor a Creta: nel 1957 esce sugli schermi Night Ambush (Colpo di mano a Creta in Italia), con Dirk Bogarde nella parte di PLF, un film tratto da Ill Met By Moonlight, libro scritto dal citato Moss e pubblicato nel 1950 da George G. Harrap. Per la sua prima edizione italiana si deve aspettare il 2018, quando esce da Adelphi col titolo Brutti incontri al chiaro di luna, sottotitolo: Il rapimento del generale Kreipe.
Nel dopoguerra, Leigh Fermor riprende a vagabondare, stavolta in compagnia di sua moglie Joan. Sono di questo periodo le sue escursioni nel Mani - in parte a piedi e in parte su caicchi - e fra le isole dei Caraibi.
Tra un viaggio e l’altro trova il tempo di raccontare le sue esperienze in libri ormai considerati dei classici della letteratura. Al pubblico italiano Fermor arriva col contagocce: da Garzanti esce nel 1957 L’albero del viaggiatore (orrendamente tradotto) e poi basta fino al 2004, anno in cui Adelphi pubblica Mani. Viaggi nel Peloponneso (uscito in lingua originale nel 1958), riepilogo di una serie di viaggi fra terra e mare, realtà e storia, miti e leggende.
Cinque anni dopo da Adelphi esce Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli. Da Hoek van Holland al medio Danubio, traduzione di A Time of Gifts (1977). Il continuo di questo viaggio, Between the Woods and the Water (1986) Adelphi lo pubblica nel 2013 col titolo: Tra i boschi e l’acqua. A piedi fino a Costantinopoli. Dal medio Danubio alle Porte di ferro. La trilogia si conclude nell’aprile del 2015, quando Adelphi pubblica La strada interrotta. Dalle Porte di ferro al Monte Athos (titolo originale: The Broken Road. From the Iron Gates to Mount Athos), con una interessante Introduzione di Colin Thubron e Artemis Cooper datata primavera 2013.
Buon ultimo, nel giugno 2021 da Adelphi esce Rumelia. Viaggi nella Grecia del Nord, traduzione italiana di Roumeli. Travels in Northern Greece del 1966.

BRUCE CHATWIN. A Nizza, il 18 gennaio 1989 la morte ci ha privato della stringata prosa di Bruce Chatwin. L’accattivante descrizione di alcuni dei suoi viaggi - con grande utilizzo della fantasia e tanto, tanto lavoro in sede editoriale, come raccontato dal suo editor Susannah Clapp in Con Chatwin, Adelphi 1998 (da leggere) - l’ha fatto diventare, suo malgrado, l’icona dell’homo viator dedito alla ricerca e conoscenza, vagante per il mondo con zaino, scarponi, penna e moleskine da riempire con appunti e disegni.
Scrive: “la vera casa dell’uomo non è la casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”. Si sposta attraverso i continenti “con irrequieta erranza e con l’orrore del domicilio”. Per Chatwin i viaggi “non arricchiscono la mente, ma la creano”. Poi, nel privato, si riempie di debiti per acquistare case in campagna e appartamenti in città.
Diventa famoso col libro In Patagonia, uscito in Inghilterra il 14 ottobre 1977. Il libro successivo, Il viceré di Ouidah, appare il 23 ottobre 1980, anno orribile per Chatwin: stancatasi del ménage omosessuale del marito, Elizabeth, la moglie americana, lo caccia di casa, rifiutandogli, perché cattolica, il divorzio. Si aggiunga: le mani bucate di Bruce rendono necessaria la vendita di Holwell Farm, la casa acquistata nel 1966 grazie all’aiuto dei genitori di lui, di lei e di tanti debiti con le banche. Ci riescono nel 1981, in cambio di 170 mila sterline: Diedi a Bruce 50.000 dollari ricavati dalla vendita per comperare il suo appartamento di Eaton Place (Londra) dice Elizabeth. Lei opta per una nuova casa di campagna - Homer End, Ipdsen, Oxford - dove andare vivere con le sue amate pecore mentre lui, staccato un grosso assegno al suo architetto John Pawson perché gli sistemi l’appartamento londinese, vola in Kenya con Donald Richards, il suo compagno.
Sulla collina nera, il libro successivo, esce nell’autunno del 1982 e a novembre vince il premio Withbread per la categoria romanzo d’esordio. Decisione discutibile: i giudici non avevano considerato In Patagonia e Il viceré d’Ouidah opere narrative. Subito dopo Chatwin entra al St. Thomas’s Hospital per un intervento chirurgico, dovuto forse alle emorroidi o connesso al suo “orrendo disturbo di pancia” che da tempo l’affligge. Ne esce fortemente debilitato e per recuperare le forze il più lontano possibile dall’odiata Inghilterra il 19 dicembre raduna i fogli di Alternativa nomade e parte per l’Australia.
Sempre alla ricerca di un luogo tranquillo dove continuare la stesura del libro australiano, nel mese di gennaio del 1984 sverna nel sud, in Grecia. L’appartamento che Charles Haldeman, un amico americano, aveva a La Canea non è più disponibile (mentre Charles era ad Atene, a La Canea il suo ragazzo, un bellissimo giovane cretese, presa un’accetta aveva spaccato la testa ad Allen Bole, un omosessuale americano amico di Chatwin) quindi è necessario spostarsi altrove. Non molto distante, nel Peloponneso, abitano Patrick e Joan Leigh Fermor, ed è da loro che Bruce cerca e trova gratuita ospitalità.
In verità, nell’84 a Kardamyli Bruce ci rimane per poche settimane - a febbraio è già in Sud Africa, a Pretoria, ospite di Bob Brain. Ben più lunga è la sua permanenza nell’anno successivo. Come sempre arriva verso la fine di gennaio e per due mesi è ospite nella casa dei Fermor. Buoni sì, ma non coglioni recita un vecchio adagio - o per meglio dire, come sbottò un nobile spagnolo, amante di Bruce: ha la fama di grande viaggiatore, ma quando ti si piazza in casa poi non lo mandi più via - nel mese di aprile Chatwin trasloca all’Hotel Theano, una struttura distante alcune centinaia di metri da casa Fermor. Nella sua stanza circondata da ulivi e cipressi e da cui sente la risacca del mare ogni giorno scrive fino alle 14, quando depone la penna per incamminarsi sulle pendici del Taygetos in compagnia di Paddy. Di norma Bruce evita di camminare con persone incapaci di tenere il suo passo veloce, ma non è così con Fermor, di cui vuole sempre restare al fianco perché da lui desidera imparare, scrivendo sui taccuini ogni citazione uscita dalla bocca del collega scrittore - e una di queste, salvitur ambulando (lo si risolve camminando), diventa un suo dogma. Di queste lezioni ambulanti ne farà buon uso in Le Vie dei Canti, il titolo del libro australiano uscito il 25 giugno 1987.
Ed è durante una di queste gite che i due, esplorando delle gole calcaree, s’imbattono in una sghimbescia chiesa bizantina costruita su di uno sperone roccioso. Tutt’intorno vecchi ulivi non lesinano l’ombra. Bruce se ne innamora - “il più bel posto che si possa immaginare” scrive - e decide di farlo suo. Ci è rimasto per sempre.

EPILOGO. Positivo all’HIV, Bruce trascorre gli anni successivi tra ricoveri ospedalieri e cure a domicilio, costretto su di una sedia a rotelle e amorevolmente assistito da Elizabeth, con cui si era riappacificato complice un trekking nel Khumbu. Siamo alla fine. Scrive Nicholas Shakespeare, il biografo di Bruce: Chatwin peggiorò rapidamente. Domenica 15 gennaio, ultimo giorno in cui rimase cosciente, trascorse la maggior parte del tempo disteso sulla terrazza. … A notte fonda iniziò a emettere un terribile suono. Gli dissi: “Bruce, Bruce, gira la testa”, ma non era più cosciente. Era entrato in coma. Non riprese più conoscenza. Fu trasportato in ambulanza in un ospedale pubblico di Nizza (i Chatwin alloggiavano nello Château de Seillans, un forte dell’XI secolo di proprietà della scrittrice Shirley Conran, amica di Bruce), dove morì all’1:30 di mercoledì 18 gennaio, quattro mesi prima di compiere 49 anni.
Il 20 gennaio Elizabeth lo fece cremare a Nizza. Feci dire una messa greca al forno crematorio, una messa nella mia chiesa di Watlington e una messa commemorativa nella cattedrale greca ortodossa di Santa Sofia, a Bayswater, cui parteciparono tutti.

Tempo dopo Elizabeth ritorna dai Fermor portandosi appresso l’urna delle ceneri, chiedendo a Patrick il favore di andarle a seppellire in quell’angolo del Peloponneso da lui tanto amato. L’amico scava con una pala e versa le ceneri ai piedi di un ulivo. Poi ricopre il tutto con la terra. Nessun segno esterno disturba l’eterno riposo di Bruce. Sono poche le persone che conoscono l’albero-monumento di Chatwin e a loro compete eseguire una volontà del defunto: venire qui per un allegro picnic e versare un bicchiere di retsina sopra le sue ceneri.

NEL MANI, 50 ANNI DOPO I FERMOR
di Daniella Forestan

2005. Dopo aver letto Mani. Viaggi nel Peloponneso, Giancarlo decide di andare a ripercorrere gli itinerari dei Fermor. E così, mentre io vago solitaria in Spagna sul Camino Francés, lui parte alla volta del Peloponneso dove, libro alla mano, segue passo dopo passo le vicende narrate.
In quegli stessi giorni Fermor si trova nella sua casa maniota. Ben sapendo che Leigh Fermor è nato nel 1915 - dunque novantenne - e informato che è suo desiderio non venire disturbato dagli idioti che per il solo fatto d’aver comprato un suo libro si ritengono autorizzati a piombargli in casa senza chiedere il permesso, un tardo pomeriggio Giancarlo bussa con discrezione alla porta. Ne esce la governante che subito chiarisce: “In questo momento Fermor sta leggendo, e quando lui legge non riceve nessuno”. Scusandosi ancora per l’irruzione, Giancarlo trova lo spazio per presentare il motivo che l’ha spinto nel Mani: seguire le tracce dei Fermor per trarne una delle sue seguitissime conferenze. La signora, burbera ma intelligente, risponde: “Aspetti qui che informo Fermor”. Ritorna sorridente: “Fermor l’aspetta nel suo studio”. Inizia così una loro bella amicizia.

2007. Stavolta a Kardamyli ci sono anch’io. Alloggiamo in una casa presa in affitto, base di partenza per nuove escursioni sul Taygetos.
Leigh Fermor, informato della nostra presenza nel Mani, non manca di chiamarmi sul cellulare per invitarci a pranzo nella sua casa sepolta dal verde e affacciata sul mare: “Quando io e Joan decidemmo di costruire questa casa, qui vi erano solo sterpaglie, tutte strappate con le nostre mani”, m’informa.
Dopo gli aperitivi - e finito il rosso di Breganze - è il momento del dialogo. Gentile e premuroso, Paddy non smette di regalarmi precisi dettagli della sua vita avventurosa, con soste per cantare vecchie canzoni italiane da lui imparate in tempo di guerra. Pezzo forte resta Il capitan della compagnia, da noi eseguito con alcolica maestria. Prima di lasciarci, chiede se siamo già stati da Bruce. No, non l’abbiamo ancora fatto, ma ora abbiamo un motivo in più.

Scarponi ai piedi, di buon mattino attraversiamo Kardamyli seguendo antiche strade in mezzo agli orti e tra alberi di limoni profumati. Il temporale della notte ha lasciato nell’aria un aroma speciale.
Prima di Pano Kardamyli abbiamo salutato un pescatore intento a stendere i polpi da poco pescati: sembrano enormi ragni appesi ai fili. Una donna vestita di nero con in testa il tradizionale cappello di paglia a larghe tese appare e scompare tra cascate di clematis viola. Usciti dal folto della vegetazione scorgiamo le torri fortificate della cittadella, raggruppate intorno alla chiesa di Agios Spiridon e al suo campanile.
La nostra mèta è di certo entusiasmante: stiamo andando a salutare Chatwin, nel posto che Paddy ha rivelato a Giancarlo. La bottiglia di vino è nello zaino.
Per raggiungerlo bisogna innalzarsi non poco su ripidi pendii, in mezzo ad una lussureggiante vegetazione e avvolti da profumi dimenticati di erbe aromatiche.
Lasciata alle spalle la vecchia Kardamyli, il sentiero lambisce quelle che la leggenda vuole siano state le tombe di Castore e Polluce, i fratelli di Elena di Troia.
Mentre saliamo il silenzio e la solitudine ci portano a recuperare una dimensione di vita perduta. In questo paesaggio affacciato sul Mediterraneo i contrasti geografici sono impressionanti. Siamo sulle pendici del Taygetos, montagna che srotola verso l’azzurro mare tappeti di flora dalle svariate sfumature di colori.
Da Agia Sofia la vista spazia sul mare blu cobalto e sui crinali del monte, dove i cipressi, leggeri punti esclamativi - “matitine” le chiamava Chatwin - disegnano profili verde scuro dietro cui si nascondono i radi abitati di queste valli remote. Una sorgente d’acqua ci disseta e i frutti dei gelsi, dolci e succosi, ci ridanno forza.
Dopo un breve pianoro il sentiero si perde, ma l’intuito alpinistico di Giancarlo trova subito una “direttissima”. Una traccia s’inerpica verticale tra erbe odorose ma sempre più pungenti; più sopra, a loro subentra una foresta di odiose ortiche. Il mio spirito romantico vacilla non poco.
Sembra di non arrivare mai, ma ecco spuntare il tetto di una casa, poi un’altra... Isolata sul suo sperone roccioso appare la chiesetta attorniata dagli ulivi: come già detto, sotto uno di questi, senza lapide né segno alcuno, sono state sparse le ceneri di Bruce Chatwin.
Ci sediamo a ridosso della sghimbescia struttura bizantina. Mangiamo pane e frutta e beviamo retsina, condividendola con Bruce, che sentiamo presente in questo luogo da lui tanto amato.
Non molto lontano una donna raccoglie erbe che definisce miracolose. Non ci va di dubitarne. Ammiriamo il volo di un rapace, il cui grido rompe il silenzio.
Torniamo al mare per un’altra via, non dimenticando di passare da Paddy per informarlo della missione compiuta.


Patrick Leigh Fermor ci ha lasciati il 10 giugno 2010, all’età di 96 anni. Sulla lapide tombale di Joan aveva fatto incidere il desiderata d’origine greca: Ti sia lieve la terra. Sulla sua, lettere in greco antico affermano che lui, Patrick Leigh Fermor, Era più greco di un greco.

© testo e foto di Giancarlo Mauri
Nota: per ovvie ragioni nessuna fotografia è associabile
al reale luogo di sepoltura delle ceneri
di Bruce Chatwin

Kardamyli

Kardamyli

Kardamyli

Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

Pano Kardamyli

La casa di Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Fermor nel suo studio


Patrick Leigh Fermor e Giancarlo Mauri

Patrick Leigh Fermor e Giancarlo Mauri

Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Fermor e Daniella Forestan


Le inventate tombe di Castore e Polluce



Agia Sofia






Nel Mani interno

Capo Tenaron


mercoledì 21 maggio 2014

Letterati bugiardi, pettegoli …e un po’ ruffiani


Con “Milano ne' suoi monumenti” Carlo Romussi vince il premio bandito nel 1872 dalla Società Pedagogica Italiana per “un’opera che illustrasse popolarmente i monumenti di Milano”. Il libro, 408 pagine, esce nel 1873 pei tipi della Libreria Editrice G. Brigala di Milano e il suo primo capitolo, una prefazione, così recita:

I.
Monumenti.

I monumenti sono un libro sempre aperto sulle cui pa­gine secolari ognuno può leggere la veritiera istoria de’ suoi padri; perché mentre gli scrittori anche più coscien­ziosi van quasi sempre soggetti all’influenza di un partito o di un’idea preconcetta, i monumenti, imparziali testi­moni, ci rappresentano le età trascorse colla civiltà, le virtù, i vizi e perfino il pensiero degli uomini che innalzarono le loro moli. [Nota 1: Dirà alcuno: E che? non vi son forse monumenti bugiardi? il trofeo di granito che esisteva fino a pochi anni sono, fuor di Porta Ticinese e che attribuiva a Don Pedro Enriquez de Azevedo conte di Fuentes, la gloria di aver messo in comunica­zione, per mezzo del naviglio di Pavia, il Verbano ed il Lario col Po, non era bugiardo? il conte di Fuentes, che l’aveva in­nalzato a se stesso, non compì mai quell’opera che voleva ri­cordare ai posteri. Ma rispondiamo che quello era un monu­mento veridico dell’età sua, poiché nessuno prestava fede all’in­tenzione di chi l’aveva innalzato, ma ad ognuno ricordava la miseria di un’epoca in cui la boria dei dominatori spagnuoli, che aveva ogni cosa corrotto, credeva poter corrompere perfino la storia dei vinti.]
A chiunque si accinga a discorrere dei monumenti di una città, si affacciano due vie opposte: la prima è d’esa­minare partitamente ciascuno di essi secondo la rispettiva posizione topografica: l’altra di parlarne seguendo in­vece la traccia delle storiche vicende. Il primo metodo offre monografie che possono essere di grande utilità, specialmente per i dotti; ma l’altro raccoglie ed affratella i monumenti in una sola origine e li fissa nella mente con una sequela di patrie memorie, ora liete ora tristi, ma pur sempre care all’animo fervente di cittadino amore. Questa seconda via mantiene continuata la narrazione, stabilisce più viva la corrispondenza fra chi legge e chi scrive, fa apparire più manifesto come un solo linguag­gio parlino arte e patria e sia uno solo il loro culto, fonte delle più generose inspirazioni e delle più nobili virtù.
Quanto benediremmo la nostra fatica se queste povere pagine giovassero in qualche modo a frenare la smania demolitrice che ci rapisce ogni giorno tanti ricordi dei maggiori: e facendo meglio conoscere ai nostri concitta­dini la natia città nel suo passato, ogni monumento, per quanto guasto dal tempo e dagli uomini, ogni sasso, per quanto annerito, suscitasse un pensiero nella mente, un sussulto nel cuore: parlasse alla mente, ammaestrandoci col ricordo delle trascorse età: al cuore perché sono le opere dei padri nostri e le dobbiamo venerare con un senso di riverenza, come fossero la croce che li ricorda, ma insieme di nobile orgoglio, perché sono la prova più bella della loro potenza ed operosità.
La storia non ci tramandò il nome degli artefici di mol­te di quelle opere grandiose: chi le imaginò? chi tradusse il pensiero in azione? lo si ignora; forse popolani oscuri al par di noi che però consumarono la vita a ren­der bella e forte la patria: che soffrirono fors’anco guerre di emuli, stenti e dolori per tramandare ai nipoti eredità di opere che non passano. Ma noi impareremo pur sem­pre da essi: e se non sortimmo dalla fortuna illustre nascita o splendidi censi, se altro non possediamo che le braccia e le divine gioie del lavoro, cessiamo dal guar­dare con invidia i prediletti della sorte: anche noi siamo ricchi e nobili, perché nostri sono questi monumenti: qui troviamo i nostri stemmi gentilizi, le glorie avite.
Studiamoli adunque per non sentirci ripetere quelle amare, ma giuste parole che l’illustre Tomaseo ci rivolgeva: «I forastieri vengono a saperne più di noi dei nostri monumenti: a essere loro più di noi, nello spirito, eredi di quella gloria: essi cittadini e noi stranieri in patria: essi padroni del pensiero italiano, e noi da me­no che schiavi, bruti che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando.»

Un libro tira l’altro, come le buone ciliegie colte dall’albero. E qui, seguendo il filone aperto dalla nota [1] c’è da farne indigestione….

Si potrebbe iniziare degustando la funzione delle note al testo, un lavoro ottimamente svolto da Anthony Grafton e pubblicato in Italia col titolo “La nota a piè di pagina. Una storia curiosa” dalle Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2000. Nel risguardo di copertina si legge:

Nel capitolo iniziale de La nota a piè di pagina Anthony Grafton offre vari divertenti esempi dei molti modi in cui, nel suo specifico campo di studio: la storia, l’uso apparentemente neutro delle note a piè di pagina costituisca in realtà una raffinata risorsa per le ambizioni individuali, la rivalità o le divergenze di impostazione culturale. Alcuni storici le considerano l’occasione per esibire credenziali. Per altri, esse offrono l’opportunità di pugnalare i colleghi - anche soltanto grazie a un freddo, poco appariscente aggettivo (come in Francia) o per omissione (come in Italia) o utilizzando “cfr.”, che Grafton definisce “sottile ma micidiale.”

Tra i tanti, di certo un maestro nell’uso del “pugnale” è stato il politico e storico lecchese Mario Cermenati, le cui note a piè di pagina sono imperdibili: non poche volte vi si legge “ringrazio per il suo pregevole lavoro l’esimio Tal dei Tali”, frase subito seguita dal sistematico smantellamento del citato “pregevole lavoro”. Innalzare il valore del nemico per rendere più importante la propria (presunta) vittoria è un vecchio trucco, sempre d’attualità, soprattutto tra i politicanti di bassa lega…
Nel passato molti “eroi” di turno hanno lasciato tracce del proprio passaggio sulla Terra facendo scolpire nel marmo false vittorie. Oggi sappiamo che un faraone d’Egitto lasciò scolpito d’aver vinto una battaglia da lui persa… Per approndimenti rinvio a Ceram C.W., Il libro delle rupi. Alla scoperta del regno degli Ittiti, Einaudi, 1974, libro da me amato: dopo averlo letto presi armi e bagagli (le macchine fotografiche, libri e la famiglia) e a bordo di una R5 partii dalla natìa Martesana (terra che separa la Brianza dal milanese) per approdare, via Atene - Istanbul - Ankara, ai confini con l’Iran, in visita ai resti delle allora dimenticate città degli Hittiti e dell’affascinante tempio rupestre di Yazilikayà, sulle cui pareti sono scolpite le principali divinità hittite, con tanto di nome e di simboli, inclusi i 12 seguaci del Dio principale; 12 come i profeti maggiori, 12 come i profeti minori, 12 come gli apostoli, 12 come i mesi dell’anno, etc. etc.

In tempi più recenti la falsità ha raggiunto livelli mondiali grazie all’uso della stampa. In casa, giusto per limitare gli esempi, ho le Enneadi di Plotino ma anche i sermoni del Buddha in due volumi, eppure tutti sappiamo che né Plotino né il Buddha (e nemmeno il Cristo, Maometto, il tirthankara Jaina e tutti gli altri "fondatori" di religioni) hanno scritto una sola parola. Che fossero analfabeti? I “loro” testi non sono che invenzioni postume, diventate verità colata per convenienza economica e politica delle parti interessate. Stesso discorso si può fare coi quattro vangeli attribuiti a Marco, Luca, Matteo e Giovanni, di certo non scritti dai quattro “apostoli”. In materia rinvio a Verità e menzogne della Chiesa cattolica. Come è stata manipolata la Bibbia, un saggio di Pepe Rodriguez pubblicato in Italia da Editori Riuniti, a.d. 2000.
Che la truffa piaccia “a bruti che a piè di quei monumenti stanno stupidi ruminando” (parole di Niccolò Tomaseo, nota 2 al capitolo I del libro di Romussi) lo dimostra il successo planetario di un libro probabilmente non scritto ma firmato da Dan Brown, autore di altri volumi di scarso appeal divenuti bestsellers solo dopo il successo de Il codice da Vinci, lavoro da inserire nella lotta per il potere “religioso” negli Usa ai tempi dell’imbelle presidente George Walker Bush, un alcolizzato finito nelle mani di un ambizioso prete della Chiesa cristiana evangelica.
In questo periodo sono impegnato nella trascrizione in formato Word del fascicolo 103 - inserito nel volume 10 delle Famiglie celebri di Italia di Pompeo Litta - dal titolo Torriani di Valsassina, Dottor Giulio Ferrario Editore, Milano, 1850, in folio (47 cm), 12 tavole di testo, 3 tavole incise. La Tavola IV è interamente dedicata a GUIDO, quarto e ultimo signore di Milano, e ai suoi eredi. Di un suo figlio così scrive il conte Litta:

LAMORALE. È un personaggio verosimilmente ideale. Sono alcuni d’opinione che da esso derivi la famiglia di Torquato Tasso, la quale aveva preso cognome dal soggiorno che essa aveva negli antichi tempi nella contrada detta il Cornello in Valle Brembana. Giace il Cornello in confine della Valsassina, e colà vi è il monte del Tasso così detto dall’abbondanza dei tassi. Ruggero di questa famiglia nel 1493 introdusse le poste nella Germania, e da ciò i cavalli di posta portano in fronte la pelle del tasso, e la famiglia Tasso porta la cornetta da postiglione nello stemma. Ruggero per questo servizio, dall’imperatore Massimiliano ebbe in titolo feudale il generalato delle poste dell’impero. Da lui derivò una famiglia ricchissima e potente, che si propagò nella Spagna, nelle Fiandre, in Napoli ed altri luoghi, ove gli imperatori avevano il diritto di tenere uffizio indipendente di posta, come allora si usava. In Germania i Tasso presentarono un memoriale all’imperatore Ferdinando III, col quale vollero provare di discendere dai Della Torre, o Torriani già signori di Milano, e domandavano di essere repristinati nel loro primitivo cognome. L’imperatore nel 1650, 4 dicembre diè loro un diploma, con cui li riconobbe tali e li intitolò quali essi desideravano, e obbligò i magistrati e i tribunali a fare altrettanto. Dopo il diploma i Tasso in Germania si fecero chiamare Thurn et Taxis di Valsassina. A tutto ciò prestarono assenso i conti Della Torre o Torriani del Friuli, i quali uniti in congresso in Udine, esaminarono e accettarono le prove loro presentate dai conti Tassis di Germania. Questo è il fatto, ed io a suo tempo pubblicherò la loro famiglia Tasso, la quale è, quanto sembra, affatto indipendente della famiglia Torriani. Il ramo della famiglia Tasso, da cui derivano i principi Thurn e Taxis di Germania, è da non molti anni in Bergamo estinto. I rami della casa de’ Torriani o Della Torre, che stanno in Germania si chiamano conti di Thurn.

Ecco: grazie a ricche elargizioni di prebende, Lamorale - “un personaggio verosimilmente ideale” - è diventato il riconosciuto capostipite di almeno due rami dinastici: i bergamaschi Tasso e i tedeschi Thurn und Taxis, gli inventori delle poste moderne e dei taxi, che da loro prendono il nome. Essendo in Germania, vien facile la battuta: quel che per noi è “giusta mercede”, per i teutonici diventa “giusta mercedes”. Versione Taxis.
Visto che ho citato due pezzi da novanta, Pompeo Litta e Niccolò Tommaseo, così scrive di loro un terzo nobile letterato, lo scapigliato Carlo Alberto Pisani Dossi, nelle sue gustosissime Note azzurre (edite e riedite da Adelphi):

Il conte Pompeo Litta, dilettante pittore, che fa, come dice la S.ra Confalonieri, delle magnifiche cornici a’ suoi quadri, invita un giorno a pranzo Cesare Confalonieri - per dargli pane raffermo, cacio avanzato nelle trappole, manzo buono a far scarpe - vino senz’uva, e quattro zaccherelle (mandorle spaccherelle) e 6 noci. Sulla porta intanto della sala da pranzo leggevasi scritto a grandi caratteri. «E se talor la vita partì amara - Pensa a Bokara» (dove il Litta col Meazza e il Gavazzi rimase un anno prigioniero del kan, molto kan) - E Confalonieri battendo sulla spalla del conte Pompeo… Dovresti cambiar, sai, l’iscrizione - e metterci: e se amara talor partì la vita - Pensa al pranzo del Litta.

La frase: “dilettante pittore, che fa delle magnifiche cornici a’ suoi quadri” da sola completa il discorso sulle note a piè di pagina: frasi buttate lì per dire (in questo caso): le cornici sono la veste grafica, i quadri sono i contenuti delle pubblicazioni del Litta…
E del Tommaseo? che dice di lui il Dossi nelle sue Note azzurre?

Tommaseo, egregio puttaniere. Manzoni udendo tale una sera imbrodolare di lodi il dalmatino, saltò su a dire «l’è ora de finilla con sto Tommaseo, ch’el gha on pè in sagrestia e vun in casin». Tommaseo, già attempato, entrando nell’usato bordello, chiedeva alla fantesca «c’è la candela?» Poiché il serafico poetuccio, l’autore di tanti libri di pedagogia, per eccitarsi al sagrificio venereo avea bisogno di una candela di sego nell’ano. E Tommaseo chiamava poi le mammelle «le ali dell’uccello».

Dopo aver letto quest’ultimo aneddoto, a Venezia tanti turisti mi hanno visto ridacchiare ogni volta che passo da Piazza Santo Stefano, rallegrata dalla statua del Tommaseo seduto su di una “paccata” di libri e questi, visti da una particolare angolazione, hanno fatto sì che per i veneziani doc “il dalmatino” diventasse “el cagalibri”… perché quei libri sembrano uscire dal posto dove il celebre Niccolò gradiva sentir entrare la candela…

Troppo bella la letteratura: ci si diverte, frequentandola.

© testo e foto di Giancarlo Mauri


Mario Cermenati

Niccolò Tommaseo

Pompeo Litta


prima edizione (purgata), 1964

riedizione integrale, 2010

Il segreto del Nanda Devi


India, Garhwal Himal, ottobre 1998. Zaino in spalla io e Daniella seguiamo le tracce del cosiddetto The Curzon Trail, una serie di sentieri non inquinati dalle segnalazioni “ad uso baùco” che attraversa la regione di Chamoli. Partiti da Gwaldam, ci siamo dapprima inerpicati fino al villaggio di Wan, punto di partenza per il Rup Kund (Roopkund per gli inglesi), un piccolo lago le cui sponde sono ornate di scheletri, resti umani su cui aleggia un cupo mistero. Dopo Homkund e Sutol ecco il Kuari Pass, il tetto del trail. A destra, un sentiero permette di raggiungere Lata, l’ultimo villaggio prima della Rishi Ganga Valley, la gola d’accesso al Nanda Devi Base camp. Ma nel 1998 ragioni ecologistiche - la protezione della delicatissima flora - impedivano di entrare in questa valle - il cui accesso, peraltro, è abbastanza complicato da richiedere l’assicurazione con le corde e/o la messa in opera di corde fisse. Le restrittive regole valgono anche per noi, quindi non ci resta che continuare verso Nord e chiudere il nostro viaggio pedestre a Joshimath.

23 dicembre 2002. Squilla il telefono. Marco Albino Ferrari, nel segnalarmi che un paio di pagine vuote gli impediscono di chiudere il numero 2 di Meridiani Montagne, mi offre la polpetta avvelenata: “entro stasera, riesci a mandarmi un pezzo interessante?”. Tentenno, poi cedo. E lì comincia il mio dramma pre-natalizio: cosa scrivere d’interessante che riempia due pagine “entro stasera”? Word è aperto ma le ore passano e la sindrome della pagina bianca gongola beata. Cercando tra le carte che ho sulla scrivania mi viene incontro il catalogo di un’agenzia di trekking inglese, che il postino mi ha recapitato oggi stesso. Apro il cellophan e da “vecchio” alpinista subito trovo l’appiglio che mi mancava: alcune pagine enfatizzano il trekking nella Rishi Ganga Valley portato a termine da un gruppo di personalità, tra cui non pochi militari. Alla fine leggo: l’Ente indiano preposto al Turismo ha detto SI, e la nostra Agenzia ha l’esclusiva. Le iscrizioni sono aperte - e come diceva l'imbonitore del Circo, venghino signori venghino… più gente entra e più bestie si vedono.
Ho deciso: scriverò del Nanda Devi affair. Spulcio tra le decine e decine di libri portati dall’India: niente di niente …e la pagina resta bianca. Non mi rimane che mettermi a cercare su internet e qui m’imbatto in alcuni siti californiani che trattano del Nanda Devi. Ma sono un malfidente: mai prendere per vero quel che si legge, quindi l’incrocio delle informazioni è d’obbligo. Il tempo passa e la premura non è mai una buona alleata: pur di chiudere nei tempi pattuiti quella sera ho inviato lo scritto di cui ancor oggi più mi vergogno: una boiata pazzesca.
Il giorno dopo, 24 dicembre, mi viene in aiuto Matteo Serafin, il redattore che segue la mia via crucis. Con delicatezza Matteo mi sottolinea alcuni madornali errori e inserisce nel mio testo un’informazione da lui scovata su internet (Joydeep Sircar). La giornata suppletiva (“entro stasera” mi era stato detto ieri….) e l’arrivo del rinforzo esterno mi ha ricaricato le batterie, permettendomi di firmare l’agognato “articolo interessante”, pubblicato su Meridiani Montagne BRENTA, febbraio 2003, che qui sotto riporto per intero. Occhio però: interessante non è sinonimo di “non vero”: in seguito (anche in India) ho avuto modo di approfondire l’argomento e tutto quanto ho scritto in quei due frenetici giorni ha trovato ovunque un riscontro positivo.

Il segreto del Nanda Devi

Dopo una salita “esplorativa” sul Nanda Devi che ha coinvolto ben quaranta militari-alpinisti indiani, tra settembre e ottobre dell’anno 2000 un primo gruppo di turisti ha potuto entrare all’interno dell’omonimo Santuario. In tutto 15 europei, tra cui John Shipton (il figlio di Eric), George Band (Everest, 1953) e Ian McNaught-Davis (presidente UIAA). A rappresentare l’India vi era Narinder “Bull” Kumar (il primo indiano salito in vetta all’Everest, 1960, e sul Kangchenjunga). Dopo questa benedizione ufficiale, i giochi sono stati riaperti e da allora in poi altri gruppi di trekkers organizzati hanno potuto tranquillamente valicare la Rishi Ganga, per l’occasione attrezzata con corde fisse.
Il Santuario del Nanda Devi (Garhwal Himalaya, India) è un gigantesco anfiteatro creato da una sequenza di imponenti pareti. Unica eccezione è il punto dove le acque della Rishi Ganga hanno scavato la loro via di uscita, creando una forra profonda. In questo anello di montagne vi sono dodici picchi con altezza superiore ai 6500 metri, tra cui il Changabang, il Dunagiri, il Trisuli e il Nanda Kot. Al centro, su tutti domina il Nanda Devi, il cui nome riporta al culto delle arcaiche Dee Madri. Dopo alcuni insuccessi, nel 1934 gli inglesi Eric Earle Shipton e Harold William “Bill” Tilman riescono ad entrare nel Santuario, forzando la non facile gola della Rishi Ganga. Un loro tentativo di salita al Nanda Devi si ferma a 6250 metri di quota. Nel 1936 Eric Shipton ritorna all’attacco con Noel Odell, e nel pomeriggio del 29 agosto i due sono sulla cima del tetto dell’India, 7816 metri, la più alta quota mai raggiunta fino ad allora da esseri umani.
In seguito, altre cordate cercheranno con maggiore o minore fortuna di ripetere l’ascensione. Nel 1964, è la volta di una spedizione indiana guidata da M.S. Kohli. Fatto strano per l’ambiente alpinistico, questo gruppo si muove senza tanti clamori pubblicitari. Una salutare lezione di discrezione, si potrebbe pensare (forse perché rientrano sconfitti a causa del maltempo?). Gli stessi ritentano la salita l’anno dopo: un altro fiasco.
Negli anni 70, ragioni “politiche” inducono il Governo indiano a chiudere l’accesso al gruppo del Nanda Devi: troppo vicino al confine cinese, dice la signora Indira Gandhi, al tempo in carica come Primo ministro. Nel 1982 si ha una svolta “ecologista”: per Delhi, il fragile equilibrio del Santuario è stato compromesso dal passaggio dei turisti (rari, tutto sommato). Ora, per salvare flora e fauna, tutto il territorio del Santuario diventa “area di massima protezione”, quindi proibita a tutti, sia ai turisti sia agli alpinisti. Le porte della Rishi Ganga si richiudono e Nanda Devi può riprendere a dormire sotto le coltri delle sue nevi eterne.
Ma sarà proprio vero? Chi conosce bene il mondo indiano non può non storcere il naso: ecologismo esasperato al Nanda Devi, deforestazione selvaggia ed inquinamento “no-limits” in tutto il resto del subcontinente. Dov’è l’inghippo? Basta cercare negli archivi, ed ecco che si scopre che già nel 1978 la rivista Outside di San Francisco aveva pubblicato l’articolo The Nanda Devi Caper, e il cappero spinoso a cui il titolo allude è ormai un segreto di Pulcinella: le due spedizioni alpinistiche “indiane” a metà degli anni 60 sono state finanziate dalla CIA, con famosi alpinisti americani (quali Galen Powell) segretamente coinvolti nella “Operazione Montagne Blu”. Obiettivo: installare sulla vetta una postazione a propulsione nucleare per spiare le basi missilistiche cinesi in Tibet.
L’articolo viene in seguito ripreso dai più importanti periodici, tra cui Alpine Journal e The Indipendent. Persino lo storico delle montagne Joydeep Sircar riporta questa notizia nel suo Himalayan Handbook. A metà degli anni 80, in India il pubblico ministero Morarji Desai è costretto ad aprire un’inchiesta, anche perché da più parti si segnala da tempo una improvvisa e forte presenza radioattiva nelle acque del Gange.
In mancanza di una versione ufficiale dei fatti, dalle mezze frasi degli alpinisti coinvolti si può trarre questa conclusione: per le apparecchiature da lasciare sul Nanda Devi era prevista la propulsione nucleare, fornita da numerosi cilindri (33 cm di diametro) contenenti ciascuno 1362 grammi di plutonio 238. A causa del maltempo, questi sono stati deposti in alcuni crepacci, in attesa di un miglioramento climatico, ma le valanghe hanno sepolto i contenitori, considerati dispersi. In seguito, questi cilindri si sarebbero rotti sotto la pressione del ghiacciaio, disperdendo il loro contenuto dapprima nelle acque della Rishi Ganga e poi nel Gange. Da qui si arguisce la vera ragione per cui il Santuario è stato chiuso per diciotto anni: era stato fatto oggetto di un pericolosissimo inquinamento radioattivo. Altro che capre e cavoli da proteggere dai turisti!
Epilogo: dalla lettura del catalogo di Himalaya Kingdom, l’agenzia di trekking inglese che ha in esclusiva l’area interessata, adesso sembra che i fiori del Santuario del Nanda Devi non siano poi così tanto preziosi come ci volevano far credere. Siccome al cambio ufficiale i soldi dei turisti stranieri valgono molto di più, ora si possono anche calpestare. Dietro pagamento di 3465 lire sterline. Anticipate, obviously.

NOTA postuma: la cattedrale del Nanda Devi è stata di nuovo chiusa al turismo. Forse non ci sono più fiorellini da calpestare, oppure è il plutonio 238 che si è risvegliato? Ah saperlo...

© testo di Giancarlo Mauri
Le fotografie che seguono sono tratte dal libro
Lascension du Nanda Devi - di H.W. Tilman
Questa prima edizione ha un madornale errore in copertina:
a voi il piacere di trovare il granchio rosa




















Ignoranza ben coltivata


Ho sfogliato il “Mundus subterraneus” di Athanasius Kircher, édito in anastatica da Forni, Bologna. Un’opera affascinante, questa, di cui ho una copia della editio princeps (1578). Non cartacea, purtroppo, ma in formato digitale, che mi è costata 107.526 kB di memoria, visto che la scannerizzazione e l’invio mi è stato offerto da una università statunitense. In Italia, invece, se non sei un docente e osi chiedere per ragioni di studio le fotocopie di un articolo a una biblioteca universitaria, questa ti obbliga all’intermediazione di una biblioteca scolastica o civica e al pagamento anticipato delle spese. Diversi modi di intendere la propagazione della cultura: per gli ignoranti è sempre “cosa nostra”. Il tutto avallato dal politicante di turno: “Con la cultura non si mangia” disse uno di loro. Basta chiarire cosa lui intendeva dire con quel “non si mangia”…

Kircher è entrato di prepotenza nella mia vita fin da quando ho preso a occuparmi di Steensen-Stenone: i due si scrivevano lettere su temi religiosi e scientifici - difficili questi ultimi da trattare, essendo il primo un Gesuita l’altro prossimo all’abito vescovile, dunque persone attente a non uscire dai limiti imposti dagli interessi curiali: tutto lo scibile era già scritto nei “libri sacri” del popolo ebraico, rivisitato e scorretto col nome di Vecchio Testamento. Secoli e secoli dopo Eratostene la Terra doveva restare quadrata e il Cielo non poteva essere esplorato col cannocchiale, demoniaco oggetto che avrebbe potuto svelare che lassù, sopra le nuvole, forse non albergavano divinità.
A tal proposito, si legge in Collection de Documents Inédits sur l’Histoire de France publiés par le soins du Ministre de l’Instruction Publique. Tome 2. Paris, Imprimerie Nationale, 1883, p. 395 : “Le 28 avril [1665], Chapelain entretient Huet de l’apparition d’une nouvelle comète: «Je ne l’ay point encore veűe à cause d’un rhume qui me travaille depuis douze jours. On vous aura sans doute envoyé une lettre de Mr Auzout accompagnée de remarques sur le discours italien du sieur Campani touchant les longues lunettes qu’il a faittes et touchant ses descouvertes nouvelles dans les disques de Saturne et de Jupiter. Elle me fust prestée avant hier par Mr de Salo et la lecture m’en a satisfait au delà de mon attente. Ce signor Campani tombe d’accord de l’anneau de Saturne trouvé par Mr Huggens et Mr Auzout défend du décret de l’Inquisition le mouvement de la terre et l’immobilité du Soleil, mais avec beaucoup de respect et de modestie chrestienne.»”

Ai limiti curiali si aggiunse la datazione formulata dall’arcivescovo irlandese James Ussher, uomo che tra il 1650 e il 1654 aveva dato alle stampe una mastodontica cronologia (The Whole Works) che arrivava a definire l’anno, il mese e il giorno in cui il Dio proprio delle tribù ebraiche aveva creato il Cosmo, la Terra, gli alberi, gli animali, Adamo (“a sua immagine e somiglianza”, dunque di fattezze arabo-palestinesi). Solo più tardi il Grande Architetto pensò alla controparte femminile (per i fiori e gli animali, invece, aveva già provveduto). Di quest’opera, stampata in latino ma col doppio titolo in inglese, utile è il volume VIII, quello che illustra attimo dopo attimo i giorni della Creazione, che Ussher stabilisce essere accaduti nell’anno 4004 avanti Cristo. Alle pp. 13 e 14 si legge: «In principio creavit Deus cœlum et terram, quod temporis principium, juxta nostra chronologiam, incidit in noctis illius initium, quæ vigesimum tertium diem Octobris præcessit, in anno periodi Julianæ 710», che una sua nota equipara all’anno 4004 a.C. Aggiunge: «Septimo die, Octobris vigesimo nono, feria septima, cum perfecisset Deus opus suum quod fecerat, quievit ab omni opera; et dici septimo benedicens, Sabbatum instituit et consecravit». Questa datazione, stampata su ogni copia della King James Bible dal 1701 in poi, ha ancora un suo seguito tra i creatoristi più intransigenti.

In seguito, per meglio divulgare quest’opera enciclopedica, lo stesso Ussher ridusse il testo ad un solo volume, pubblicato col titolo The Annals The World. London. Printed by E. Tyler, for F. Crook, and G. Bedell, 1658. Già dalle prime pagine, che qui riprendo dal libro senza aggiunte né omissioni, si impara quanto segue:

The Annals of the Old Testament from the Beginning of the World
The First Age of the World

1a AM, 710 JP, 4004 BC
1. In the beginning God created the heaven and the earth. Ge 1:1 This beginning of time, according to our chronology, happened at the start of the evening preceding the 23rd day of October in the year of the Julian calendar, 710.
2. On the first day Ge 1:1-5 of the world, on Sunday, October 23rd, God created the highest heaven and the angels. When he finished, as it were, the roof of this building, he started with the foundation of this wonderful fabric of the world. He fashioned this lower most globe, consisting of the deep and of the earth. Therefore all the choir of angels sang together and magnified his name. Job 38:7 When the earth was without form and void and darkness covered the face of the deep, God created light on the very middle of the first day. God divided this from the darkness and called the one “day” and the other “night”.
3. On the second day Ge 1:6-8 (Monday, October 24th) after the firmament or heaven was finished, the waters above were separated from the waters here below enclosing the earth.
4. On the third day Ge 1:9-13 (Tuesday, October 25th) when these waters below ran together into one place, the dry land appeared. From this collection of the waters God made a sea, sending out from here the rivers, which were to return there again. Ec 1:7 He caused the earth to bud and bring forth all kinds of herbs and plants with seeds and fruits. Most importantly, he enriched the garden of Eden with plants, for among them grew the tree of life and the tree of knowledge of good and evil. Ge 2:8,9
5. On the fourth day (Wednesday, October 26th) the sun, the moon and the rest of the stars were created.
6. On the fifth day (Thursday, October 27th) fish and flying birds were created and commanded to multiply and fill the sea and the earth.
7. On the sixth day (Friday, October 28th) the living crcatures of the earth were created as well as the creeping creatures. Last of all, man was created after the imagc of God, which consisted principally in the divine knowledge of the mind, Col 3:10 in the natural and proper sanctity of his will. Eph 4:24 When all living creatures by the divine power were brought before him, Adam gave them their names. Among all of these, he found no one to help him like himself. Lest he should be destitute of a suitable companion, God took a rib out of his side while he slept and fashioned it into a woman. He gave her to him for a wife, establishing by it the law of marriage between them. He blessed them and bade them to be fruitful and multiply. God gave them dominion over all living creatures. God provided a large portion of food and sustenance for them to live on. To conclude, because sin had not yet entered into the world, God saw every thing that he had made, and, behold, it was very good. And the evening and the morning were the sixth day. Ge 1:31
8. Now on the seventh day, (Saturday, October 29th) when God had fìnished his work which he intended, he then rested from all labour. He blessed the seventh day and ordained and consecrated the sabbath Ge 2:2,3 because he rested on it Ex 31:17 and refreshed himself. Nor as yet (for ought appears) had sin entered into the world. Nor was there any punishment given by God, either upon mankind, or upon angels. Hence is was, that this day was set forth for a sign, as well as for our sanctifìcation in this world Ex 31:13 of that eternal sabbath, to be enjoyed in the world to come. In it we expect a full deliverance from sin and its dregs and all its punishments. Heb 4:4,9,10

Tradotto in parole povere, Ussher stabilisce “scientificamente” che l’intera Creazione è iniziata domenica (!!!) 23 ottobre per terminare sabato 28 ottobre dell'anno 4004 avanti Cristo. Dunque il compleanno di Adamo (e dell’umanità) cade il  27 ottobre, venerdì, lo stesso giorno della settimana in cui viene fatto morire il Messia - Xristòs in lingua greca - fatto scendere in Terra. Infatti, nella tradizione cristiana, Paolo (Lettera ai Romani) contrappone l’ebraico Adamo a Gesù: con il primo uomo sono entrati nel mondo il peccato e la morte, con il Redentore la grazia e la vita.

Anche, ma non solo, da questi limiti accettati e imposti dalla Chiesa nascono i numerosi abbagli attribuiti a uomini di fede e scienza quali erano Kircher e Stenone: se il Dio proprio del popolo ebraico aveva creato la Terra, affidandola in custodia alla “sua immagine e somiglianza” nel 4004 a.C., come potevano esistere reperti ossei, vegetali e minerali - ma anche graffiti, dipinti e manufatti - più vecchi di quella datazione? Di fronte a questi muri invalicabili, il terrore imponeva agli scienziati di chinare il capo. Perché Stenone aveva ben compreso - e Leonardo, vagamente, prima ancora - che i pesci fossili da lui trovati sui monti toscani non erano il risultato di un fantasioso “diluvio universale”, bensì la prova di sconvolgimenti terrestri molto più antichi dei limiti ussheriani... Ma le fiamme del rogo erano pronte a ricordare che certe cose era meglio non divulgarle alle masse. Al limite si potevano raccontare a poche ma altolocate persone, quelle che già sapevano. Il popolo era e doveva restare povero e ignorante: solo così si poteva farlo lavorare gratis e nel contempo tenerlo timorato.
L’affare Galilei era ben vivo nei ricordi del tempo. Meglio ancora, a ricordare i limiti imposti alla propagazione della conoscenza (e quindi alla pericolosissima arte della riflessione, bandita dalle scuole di ogni ordine e grado) vi era il rogo su cui era arso Giordano Bruno il 17 febbraio 1600, ma stavolta era di giovedì.

Conoscere i retroscena aiuta a comprendere i molti errori di questi grandi uomini di scienza, “bruciati” dai tempi in cui vivevano. Tempi che sembrano non finire mai: Forni ha pubblicato la prima anastatica dell’opera di Kircher nell’anno 2004. Sull’onda del successo di vendita, nell’anno 2011 lo stesso editore ha deciso di mettere sul mercato una seconda edizione. Una ristampa, questa, non più appesantita dai costi di riproduzione. E allora perché imporla a 230 euro? Forse per tener lontane le masse dal “sapere”, oggi come nel Seicento?

© testo di Giancarlo Mauri