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sabato 25 luglio 2015

Quintanilla de las Viñas visto da Antonio Thiery


Nel cuore dell’antica terra di Lara, alta sopra il villaggio di Quintanilla de las Viñas e nascosta tra le pieghe del terreno vi è Santa María, un antico “corpo sacro” su cui oggi veglia Antonio Velasco, guarda de la ermita. Io e Daniella siamo i soli visitatori (e a ben pensare lo eravamo anche nelle nostre precedenti visite), quindi possiamo muoverci con tutta la calma desiderata, assorbendo ogni positiva vibrazione emanata da queste pietre.
Chi per primo intuì la ricchezza storica di questa abbandonata ermita - in gran parte scomparsa a causa del riutilizzo delle sue pietre murali per costruire nuove abitazioni - fu un giovane sacerdote, don Jesús Vicario Moreno, che tra il 1920 e il 1930 si mosse per attirare l’interesse del Commissario centrale delle Belle Arti su questo manufatto.
Il primo a raccogliere l’appello fu Bonifacio Zamora, musico e poeta, nativo di queste terre, che arrivò armato di penna e di libretto per gli appunti nell’inverno del 1921.
Per la seconda visita si dovettero attendere sei lunghi anni, ma ne valse la pena: il visitatore, l’archeologo José Luis Monteverde, immediatamente si recò a Burgos per segnalare l’esistenza di questa ermita al cronista ufficiale della Provincia, Luciano Huidobro, la massima autorità di storia e archeologia burgalesa e il giorno seguente, 31 maggio 1927, le stradine di terra battuta che collegavano Burgos a Quintanilla furono per la prima volta percorse da un automezzo, la Whippet di Huidobro, che viaggiava in compagnia di Monteverde, di Matías Martínez, direttore del Museo Archeologico, e del señor Ojeda, tutti accademici. Ad attenderli vi era Jesús Vicario.




Rientrati a Burgos, Huidobro e Monteverde attivarono i meccanismi legali utili a salvare quel che restava dell’antica costruzione, incaricando Jesús Vicario di sovrintendere ai lavori di ripulitura e ristrutturazione in cambio 3,50 pesetas al giorno (una misera paga: un insegnante ne guadagnava 150 al mese). Da allora le stradine di Quintanilla videro passare sia gli archeologi in missione ufficiale sia le altre figure attratte dalla novità e ben presto pagine di scritti scientifici presero a trasudare di termini quali visigótico, albero della vita, arco trionfale, abside, monogramma, sasanide, paleocristiano e altro.

La “scoperta” dell’ermita di Santa María attirò l’interesse degli archeologi sull’intera terra di Lara. Nel 1932 la Delegazione delle Belle Arti organizzò una campagna di scavi in località Lara de los Infantes, riportando alla luce l’antica cittadella, luogo prediletto dagli antichi romani: monete, fibule e ceramiche confluirono nei musei. L’anno seguente la campagna di scavi si dedicò al Castro de Lara, ricco di muraglioni e di case a base quadrata, con tanto di ceramiche, spade, pugnali - e le immancabili fibule. Nel 1934, gli archeologi salirono alla Muela, a monte della ermita di Santa María. I risultati di questo terzo scavo furono eccezionali: venne alla luce un castro celta con case circolari, ricco di manufatti di ceramica. Nel 1935 a Miraveche, ai piedi dei monti Obarenes, la nuova campagna di scavi portò alla luce la necropoli più famosa della cultura post-hallstattica: agli oggetti qui trovati è stata dedicata una sala del Museo Archeológico Provincial de Burgos.
In seguito, altre campagne di scavo hanno fatto chiarezza sul passato di quest’angolo di Spagna, riportando alla luce quattordici ville romane - di cui tre nel territorio tra Quintanilla e la ermita de Santa María - e i castri celtici di Covarrubias e di Quintanalara.
Nel 1927, anno dell’arrivo della prima automobile a Quintanilla de las Viñas, le strade bastavano all’uso dei contadini e dei loro animali. Provvederà l’infaticabile Jesús Vicario, col solo aiuto di suo figlio Ramiro, ad allargare la traccia e battere il terreno per renderlo adatto al traffico su gomma - e saranno sempre loro due a costruire la strada per la ermita. Nel 1970 la Disputación Provincial de Burgos riconoscerà a don Jesús un Premio de Embellecimiento per il suo lavoro di manutenzione di Santa María e per la pulizia dello spazio che la circonda. Nel 1986 a Jesús Vicario verrà concessa la Medalla al Mérito Turistíco.


Per il testo d’accompagnamento alle immagini ho deciso di usufruire di quanto già scritto a suo tempo da Antonio Thiery, grande conoscitore del mondo visigotico e mozarabico, quindi persona altamente qualificata per introdurci con reale conoscenza di causa in questo mondo di antiche pietre. A lui la parola.

Antonio THIERY
A che punto è la questione mozarabica
Pubblicato in Arte Medievale
Periodico internazionale di critica dell’arte medievale
II Serie, Anno II, n. 2, 1988, pp. 29-62
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma

[…] Benché si faccia un gran parlare di miniatura visigotica, i documenti pittorici, anche nel passaggio tra il IX ed il X secolo, mettono in evidenza molti elementi simbolici, grandi lettere, intrecci e labirinti, mentre la “figura umana”, se così si può chiamare, è relegata ad un ruolo decisamente marginale.
Eppure tra il VII ed il X secolo la cultura iconica della Penisola Iberica riesce a produrre testimonianze di grandissimo interesse nell’architettura. San Pedro de la Nave non è un’eccezione. Basterà ricordare Quintanilla de las Viñas (Burgos), San Juan en Baños de Cerrato (Palencia), Santa Comba de Bande (Orense), le chiese oviedane di San Julián de los Prados, San Pedro de Nora, Santa Maria de Bendones, San Tirso de Oviedo, Santa Cristina de Lena, Santa Maria de Naranco, San Miguel de Lillo, la portoghese chiesa di San Fructuoso de Montecelios (Braga).
Osservazioni particolari merita la chiesa di San Julián de Los Prados, l’unica che permetta di ricostruire un complesso ciclo di pitture murali tra l’VIII ed il X secolo. Ma, invano, al di là di una singolare sequenza di rappresentazioni architettoniche, cercheremo immagini “umane.” Evidentemente la complessità religiosa della Penisola Iberica, la fortissima influenza giudaica prima ed araba dopo, consentono una comunicazione iconica che, nella pittura, si realizza attraverso un fortissimo uso di motivi simbolici, come del resto, attraverso gli intrecci, avverrà anche nelle isole britanniche ([1]).
Scarsamente valutato, anche se ricordato fin dal 1919, è il Sinodo di Elvira, che al canone XXXVI ([2]) prescrive, già agli inizi del IV secolo con oltre quattrocento anni di anticipo rispetto alle lotte iconoclaste: Placuit picturas in ecclesia esse non debere; ne quod colitur et adoratur, in parietibus depingatur.
Il canone XXXVI di Elvira è fortemente discusso, perché mancano documenti posteriori che richiamino il divieto. In realtà basterà guardare con attenzione e complessivamente agli 81 capitoli del Sinodo di Elvira, (detto più correttamente Concilium Eliberitanum), per rendersi conto che il canone XXXVI ha una sua precisa logica nella nascita e nel successivo sviluppo del cristianesimo nella penisola iberica. Le prescrizioni non hanno nulla di teologico, ma sono una serie di norme di comportamento, a carattere fortemente protezionistico, per le nascenti comunità. Ci si deve guardare dai pagani (il capitolo I si riferisce appunto a De his qui post baptismum idolis immolaverunt), dai giudei (il capitolo I recita: si vero quis clericus vel fidelis cum Judaeis cibum sumpserit, placuit eum a communione abstinere, ut debeat emendari), da chi si discosta dalle verità essenziali, che sono delineate dai 19 vescovi che partecipano al Concilium Eliberitanum (il capitolo LI tratta De haereticis ut ad clerum non promoveatur).
Com’è evidente nelle interpretazioni riportate ed evidenziate dallo stesso Mansi ([3]): reiectas esse imagines pictas, non sculptas.
Se non troviamo pitture in età visigotica, troviamo, infatti, come testimoniano le chiese di San Pedro de la Nave e di Quintanilla de las Viñas, sculture. È chiaro il profondo significato della pietra viva che, soprattutto se incisa e caratterizzata da elementi figurativi, comunica precisi messaggi. Ma è trasparente anche l’altissimo significato comunicativo degli stessi edifici sacri, spesso scavati nella roccia o cresciuti a ridosso di una grotta, caratterizzati da complessi ritmi compositivi, che si presentano al fedele come libri aperti, fortemente simbolici, da leggere in movimento, percorrendo fisicamente gli spazi labirintici o scrutando con gli occhi i paramenti murari e le volte ([4]).
Il canone di Elvira è motivato dalla paura del culto idolatrico? Dai rischi di una profanazione che può venire alle immagini sacre da parte di pagani e giudei? Queste giustificazioni, certamente valide, non bastano a spiegare la comunicazione iconica della penisola iberica. È sempre più evidente che compositi significati simbolici sono affidati, nella pittura, alla linea ed al colore e, nella scultura e nell’architettura, alla pietra viva.
Nell’iconografia siro-mesopotamica e giudaico-palestinese non c’è mai spazio per la rappresentazione. Si evidenziano momenti e segni nodali che simboleggiano l’incarnazione del Cristo, senza la quale non ha motivo di esistere la fede cristiana. Ecco episodi che valgono per il significato profetico e simbolico (Daniele nella fossa dei leoni; il sacrificio che Abramo si appresta a fare). Ecco la parola, che di per sé è l’incarnazione stessa (il tetramorfo, simbolo degli Evangelisti e dello stesso Vangelo; gli apostoli Filippo e Tommaso presunti autori dei più importanti vangeli gnostici). Ecco soprattutto la pietra (capitelli, cancelli) e l’insieme di pietre (l’edificio sacro) che è il Cristo stesso.
Le figure umane che troveremo nel periodo mozarabico, nella miniatura, si riferiscono sempre al corpo risorto e santo, o alle visioni apocalittiche che testimoniano, come vedremo, che la fine dei tempi è già operante in noi.
L’antica prescrizione del Concilio di Elvira del 300/306 non è richiamata, perché scrupolosamente seguita. Ho già ricordato come Isidoro di Siviglia, così attento a definire i modi della comunicazione, non faccia riferimento alle pitture, né alla “immagini” come noi le intendiamo.
I testi apocrifi e gnostici ([5]) ricordano che Cristo si è manifestato per mezzo di simboli e immagini. I simboli e le immagini vanno chiaramente ricercati nella sacra scrittura ([6]); nell’altare che simboleggia la presenza di Dio ([7]) e che è al tempo stesso un microcosmo del mondo naturale e dell’universo spirituale; nello stesso edificio sacro, che è l’immagine cosmica dell’Universo ([8]).
Giovanni ([9]) vede, nelle sue percezioni apocalittiche, una croce di luce e sulla croce “lo stesso Signore che non aveva alcuna forma, ma solo una voce.” Interessante rilevare che la voce non solo la si ascolta, ma la si vede. E la croce è “sapienza dell’armonia, in essa c’è posto per la destra e la sinistra.”
Nell’Apocalisse di Pietro ([10]), di chiaro ambiente giudaico, c’è una condanna esplicita dell’immagine come la cultura latino-greca la intende: “L’Angelo del Signore... farà venire le anime dei peccatori... tutte quelle che abitano negli idoli di ogni genere, nelle statue fuse, nei simboli lascivi, nelle pitture.” Questa condanna ricorda bene un hadith dei Califfi del Bidal al-Andalus: “Il giorno della Resurrezione, i fabbricanti di immagini saranno colpiti dalla più grave delle punizioni, e a loro si dirà: date vita a quello che avete creato.” La colpa dei facitori di immagini è dunque questa: la creazione di figure illusorie, mentre Dio, Cristo, si fa scoprire attraverso immagini concrete.
Nell’ambiente siro-mesopotamico e palestinese si considera l’immagine prodotta nell’ambiente greco ed occidentale come il residuo statico della sensazione, che porta ad una conoscenza astratta.
M. Jousse parla, non a caso, di “ipertrofia oculare” dei Greci, che crea una fantasmagoria di “immagini.” Le “immagini” non esistono ([11]). Ci sono soltanto gesti accennati o compiuti: gesti corporei, gesti manuali, gesti oculari, gesti laringo-boccali, gesti papillari, gesti pituitari, ecc. Tutta la nostra vita intelligente si gestualizza. Noi vediamo, o meglio “intussuscepzioniamo”, non solo con i nostri occhi, ma con tutto il nostro corpo ([12]). Solo in questa visione acquista un ruolo preciso la liturgia, soprattutto quella spagnola del medioevo sirianizzante ([13]) che considera la chiesa, l’edificio fatto di pietra come un essere vivente, con il quale si entra in interagente rapporto con tutto il corpo.
 La chiesa, immagine cosmica dell’Universo ([14]) è in relazione con l’uomo tutto intero (l’anima ed il corpo destinati alla Resurrezione) che, come ricorda Gregorio Magno, è quadammodo omnia, cioè un’immagine cosmica dell’Universo.
“Sono venuto per rendere le cose di quaggiù simili alle cose di lassù”, si legge nell’Apocrifo di Filippo ([15]) “e le cose esterne simili alle interne. Sono venuto per unirle.” Non c’è, dunque, contrapposizione tra naturale (o cosale) e soprannaturale. Il soprannaturale si conosce non attraverso immagini che rappresentano la divinità o gli episodi della vita del Cristo (come avviene nel mondo latino-greco) e stimolano i sentimenti, ma attraverso una ricerca interiore profonda attivata da stimolazioni percettive e non tramite dipinti narrativi. “Il Regno” dice l’Apocrifo di Tommaso ([16]) “è dentro di voi e fuori di voi.”
A chiarire il significato di “simboli ed immagini” nel mondo giudeo-cristiano, africano e, certo, anche spagnolo, interviene ancora il Vangelo di Filippo ([17]): “Gesù dissimulò segretamente ogni cosa. Egli, infatti, non si manifestò qual era (realmente), ma si manifestò come lo si potesse vedere. Così si manifestò a tutti. Si manifestò grande ai grandi. Si manifestò piccolo ai piccoli... Era grande, ma rese grandi i suoi discepoli, affinché lo potessero vedere nella sua grandezza.” Gregorio Magno può scrivere: Sacra eloquia cum legente crescunt. Sacra lectio talis invenitur qualis fit ipse a quo invenitur ([18]).
È in questo contesto che vanno valutati gli edifici sacri, il cui ruolo, la cui funzione, come momento conoscitivo e di raccordo tra il mondo di quaggiù e quello lassù, è fondamentale. “La divinità... sarà sotto le ali della croce e sotto le sue braccia” ([19]): la chiesa prenderà spesso la forma di una croce; spesso, nel labirintico gioco della pianta, consentirà di vivere la croce. La chiesa, qualunque forma abbia, è croce essa stessa. E lì, infatti, che si fa memoriale della morte di Cristo, rivivendo i momenti fondamentali dell’incarnazione, della morte e resurrezione, attraverso la “voce”, la “parola” tramandata dalle sacre scritture.
È una simbologia complessa quella giudeo-cristiana. Ed il capitolo XXXVI del Concilio di Elvira non si può certamente collegare alla lotta iconoclastica dell’VIII-IX secolo. Basterà contrapporre a questa visione dell’immagine, che sono andato sommariamente delineando attraverso la citazione di alcuni apocrifi, il dettato del II Concilio di Nicea, che interviene nella disputa iconoclastica ristabilendo l’uso delle immagini nelle chiese dei Gentili. Nelle Definizioni si legge: “Infatti, quanto più continuamente essi” (Gesù Cristo, la santa madre di Dio, gli angeli degni di onore, tutti i santi e pii uomini) “vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione” ([20]). La penisola iberica, fin dall’età romana, ha mostrato un particolare interesse per la produzione di motivi figurali fortemente simbolici. Ricorderò il mosaico della Villa di Cuevas di Soria ([21]).
Nell’età visigotica l’interesse simbolico si sviluppa fortemente, oltre che in chiese già ricordate, nell’iconostasi e nelle doppie finestre di Santa Cristina di Lena e nella cupola della crociera della chiesa di San Fructuoso de Montecelios (Barga, Portogallo), costruita tra il 656 ed il 665. Da un impianto quadrato si passa ad una calotta semisferica, avendo come momenti fondamentali di passaggio le quattro nicchie poste agli angoli del quadrato e le quattro finestre che segnano i punti di connessione tra il quadrato ed il cerchio.





[1] Il tema è stato affrontato in: A. THIERY. L’Oriente e le origini delle miniature precarolinge, “Commentari” XVIII (1967), pp. 105-125.
[2] GOMEZ MORENO, Iglesias, p. 326. Cfr. MANSI, Sacrorum conciliorum, II, 11.
[3] Ibidem, II. 33.
[4] I simboli, p. 254.
[5] Vangelo di Filippo, 30; 67 10; 84, 20; 86, 10.
[6] GREGORIO MAGNO, In Ez., 1, 7, 15-16.
[7] I simboli, pp. 209 e 212.
[8] Ibidem, p. 133.
[9] Atti apocr. Apostoli, del Santo Apostolo ed Evangelista Giovanni il Teologo, 98, 1-3. (Cfr. MORALDI, Apocrifi, p. 1184).
[10] Apocalisse di Pietro, 6.
[11] JOUSSE, L’antropologia, p. Anno 96.
[12] Lo stesso IV Concilio di Toledo, al canone XIII prescrive: Componuntur ergo hymni, sicut componuntur missae, sive preces, vel orationes, sive commendationes, seu manus impositiones: ex quibus si nufla dicantur in ecclesia, vocant officia omnia ecclesiastica, MANSI X, 623.
[13] Il tema è ampiamente dibattuto da E. LEVI PROVENCAL, España musulmana hasta la caída del Califato de Córdoba (711-1031) in Historia de España, dirigida por Ramón Menendez Pidal, Madrid 1950, tomo IV e V; IV, pp. 89-90.
[14] I simboli, p. 133 e 254 (l’edificio è spesso assimilato ad un essere vivente e questo “potrebbe spiegare alcune anomalie architettoniche.” Spesso c’è irregolarità della simmetria, nella parte sinistra e destra di uno stesso volto; spesso leggeri cambiamenti di direzione dei muri danno a tutto l’edificio un movimento rotatorio.
[15] Vangelo di Filippo, 67, 30.
[16] Vangelo di Tommaso, 32, 20.
[17] Vangelo di Filippo, 57, 20-30. Anche Ireneo (P. G., vol. 7, coll. 1031-43) ed Origene (P. G., vol. 12, coll. 207-208) osservano che gli uomini hanno riconosciuto Cristo come uomo e gli angeli come angelo.
[18] GREGORIO MAGNO, In Ez., 1, 7, 15-16.
[19] Vangelo di Filippo, 84, 30.
[20] ALBERIGO (a cura di), Decisioni dei concili, p. 203. Sul contrasto tra l’immagine segno e l’immagine edificante, cfr. THIERY, La cultura e l’arte.
[21] B. HUGUET, Arte Romana, in Ars Hispaniae, vol. II, p. 154, fig. 162.

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Sullo sfondo: il castro di Lara
Conos de las Mamblas 
Santa Maria de Lara, nord
Da NO
Da ONO
Sepolture
Da
 Da Sud-ovest
Lato est, testata
Lati est (ingresso) e sud
Lato est (sopra l'ingresso)
Lato sud
Lato sud
Lato est (testata)
Lato est (monogramma)
Lato est (monogramma)
Lato est (monogramma)
Lato nord
Lati nord ed est
Antonio Velasco
Transetto; accesso chiuso verso ovest
Transetto e arco absidale




Doña Lambra
Difensore della fede
Doña Lambra







mercoledì 21 maggio 2014

Il mozarabico (3)


Alto su di un monticello, l’eremo dedicato a San Baudelio de Berlanga - il popolare martire di Nîmes, in Francia - appare come un triste cubo di pietra. Piove forte, il vento impazza. Scavate nel suolo roccioso, le antiche tombe della necropoli medievale sono piene d’acqua. Puntuale, alle sedici arriva il custode. Oltrepassata l’araba porta a ferro di cavallo (o a serratura) appare l’incredibile: all’altezza del soffitto, un pilastro centrale apre i suoi rami a mo’ di palma, l’albero paradisiaco sacro al Dio del Qur’an ma anche - un tempo - simbolo della croce. Sui vecchi muri restano le rosse tracce degli affreschi che un tempo valsero a questo isolato eremo il titolo di Sixtina de Castilla: un uomo armato di arco e freccia caccia il cervo; un altro, a cavallo, manda i suoi cani ad inseguire due lepri; un falconiere posa in sella ad un donchisciottesco ronzino. Sul tronco della palma vi è raffigurato un uomo, mentre alla sua destra ve n’è un secondo coperto da uno scudo rotondo: “san Baudelio cristiano e san Baudelio musulmano” suggerisce il custode. “Come storico debbo riferire ciò che mi vien detto, ma non ho l’obbligo di crederci” ci insegna Erodoto. Ancora: un dromedario, un elefante, altri due cani in posizione verticale, un orso. E poi soggetti biblici quali le nozze di Cana, il Cristo che cura il cieco, le tre Marie davanti al sepolcro. I dipinti originali, staccati nel 1922 da un esperto appositamente arrivato dall’Italia, hanno raggiunto gli Stati Uniti. “Ora sono a New York, Boston, Cincinnati e Indianapolis” dice il custode. “All’epoca, i venti abitanti del vicino villaggio, poveri contadini, si erano rivolti persino all’Alta Corte spagnola per fermare lo scempio, ma il potere dei soldi ha vinto su tutti”.

A destra dell’ingresso, una foresta di pilastri (replica del fitto bosco esterno, ora scomparso) nasconde l’ingresso di una grotta, il luogo dove i primi anacoreti trovarono la loro pace interiore abbracciandosi con devota fede all’archetipo detto Yahwè dagli ebrei, Dio dai cristiani, al-Ilah dai musulmani, Issa (o Isha) dalla Mesopotamia all’India. A pochi metri, una sorgente d’acqua pura li dissetava. Cinque gradini introducono al cubo dov’è l’altare per il rito cristiano: è la chiesa mediana, già non più sulla terra ma non ancora in cielo. Una ripida e stretta scala porta al terzo livello, alla chiesa celeste: un cubicolo di un metro quadrato invisibile dal basso, dove un eremita può isolarsi rispetto al già ristretto mondo della chiesa stessa. Un eremo nell’eremo: l’utero generativo della madre-chiesa.

Ma il capolavoro dell’anonimo architetto - certamente di cultura islamica - è lì, ancora una volta non facilmente comprensibile: tra le otto nervature della palma (la cifra perfetta dell’ottavo giorno divino) è stata ricavata una nicchia piccolissima (mistero della Presenza, ma anche estrema sintesi dell’esistenza umana), dove - ipotesi altamente suggestiva ma poco realistica - un umano di emaciata corporatura avrebbe potuto entrare per “sciogliersi” nel Creato. Un gesto estremo; un’auto-immolazione di stampo prettamente orientale, certamente più vicina alla scuola dei mistici jaina che non al clero cristiano. Infatti, alla luce dell’arcaica credenza indiana secondo la quale l’ultimo momento della vita ha una rilevanza decisiva sullo stato dell’individuo nella rinascita successiva, e alla luce dell’insegnamento specificatamente jaino-buddhico sulla possibilità di distruggere il karma con una graduale ritrazione dalle attività fisiche e mentali, non appare certo sorprendente che il misticismo orientale ritenga che la morte ideale sia una forma altamente controllata di deperimento progressivo conseguente al digiuno. Questo processo è noto come morte religiosa (sallekhanā), in cui la pratica ascetica centrale - che consiste nella riduzione dell’assunzione di cibo - viene portata alla sua logica conclusione affinché il corpo venga depurato (sallikhita, “eroso”) dai suoi fattori negativi e affinché, all’avvicinarsi della morte, la mente possa focalizzarsi soltanto sulle questioni spirituali.

Si ritorna all’aperto frastornati. Non si fatica a capire che qui la mistica del numero tre è di casa. «Tre non è razionale, conoscibile; non è la mente a capire il Tre, ma il complesso delle facoltà emotive umane - comprendere con il cuore, si dice. Tale livello di comprensione individuale indica il grado di civilizzazione di una persona: è possibile sapere molto e contemporaneamente comprendere poco. Riconoscere la terza forza significa accettare il bisogno fondamentale di armonizzare gli opposti; pertanto, chi è capace di comprendere la terza forza non è facilmente sviabile dal dogmatismo: sa, infatti, che in questo mondo il vero ed il falso sono relativi, e anche quando sembrano assoluti, come nei sistemi logici, è lo stesso sistema logico ad essere relativo, un’astrazione di una realtà più ampia e complessa» ha scritto J. A. West. Qui, tutto ciò lo si comprende.