Nel cuore dell’antica
terra di Lara, alta sopra il villaggio di Quintanilla de las Viñas e nascosta tra le pieghe
del terreno vi è Santa María, un antico “corpo
sacro” su cui oggi veglia Antonio Velasco, guarda de la ermita. Io e Daniella siamo i soli visitatori (e
a ben pensare lo eravamo anche nelle nostre precedenti visite), quindi possiamo
muoverci con tutta la calma desiderata, assorbendo ogni
positiva vibrazione emanata da queste pietre.
Chi per primo intuì la ricchezza storica
di questa abbandonata ermita - in
gran parte scomparsa a causa del riutilizzo delle sue pietre murali per
costruire nuove abitazioni - fu un giovane sacerdote, don Jesús Vicario Moreno, che tra il 1920 e il
1930 si mosse per attirare l’interesse del Commissario centrale delle Belle
Arti su questo manufatto.
Il primo a raccogliere l’appello fu Bonifacio Zamora, musico e poeta, nativo di queste terre, che arrivò armato di penna e di libretto per gli appunti nell’inverno del 1921.
Per la seconda visita si dovettero attendere sei lunghi anni, ma ne valse la pena: il visitatore, l’archeologo José Luis Monteverde, immediatamente si recò a Burgos per segnalare l’esistenza di questa ermita al cronista ufficiale della Provincia, Luciano Huidobro, la massima autorità di storia e archeologia burgalesa e il giorno seguente, 31 maggio 1927, le stradine di terra battuta che collegavano Burgos a Quintanilla furono per la prima volta percorse da un automezzo, la Whippet di Huidobro, che viaggiava in compagnia di Monteverde, di Matías Martínez, direttore del Museo Archeologico, e del señor Ojeda, tutti accademici. Ad attenderli vi era Jesús Vicario.
Il primo a raccogliere l’appello fu Bonifacio Zamora, musico e poeta, nativo di queste terre, che arrivò armato di penna e di libretto per gli appunti nell’inverno del 1921.
Per la seconda visita si dovettero attendere sei lunghi anni, ma ne valse la pena: il visitatore, l’archeologo José Luis Monteverde, immediatamente si recò a Burgos per segnalare l’esistenza di questa ermita al cronista ufficiale della Provincia, Luciano Huidobro, la massima autorità di storia e archeologia burgalesa e il giorno seguente, 31 maggio 1927, le stradine di terra battuta che collegavano Burgos a Quintanilla furono per la prima volta percorse da un automezzo, la Whippet di Huidobro, che viaggiava in compagnia di Monteverde, di Matías Martínez, direttore del Museo Archeologico, e del señor Ojeda, tutti accademici. Ad attenderli vi era Jesús Vicario.
Rientrati a Burgos, Huidobro e Monteverde attivarono i meccanismi legali utili a salvare quel che
restava dell’antica costruzione, incaricando Jesús Vicario di sovrintendere ai lavori di ripulitura
e ristrutturazione in cambio 3,50 pesetas al giorno (una misera paga: un insegnante ne guadagnava 150 al mese). Da allora le stradine di Quintanilla videro passare sia gli archeologi in
missione ufficiale sia le altre figure attratte dalla novità e ben presto pagine di scritti scientifici presero a trasudare di termini quali visigótico,
albero della vita, arco trionfale, abside, monogramma, sasanide, paleocristiano
e altro.
La “scoperta” dell’ermita di Santa María attirò l’interesse degli archeologi sull’intera terra di
Lara. Nel 1932 la Delegazione delle Belle Arti organizzò una campagna di scavi
in località Lara de los Infantes, riportando alla luce l’antica
cittadella, luogo prediletto dagli antichi romani: monete, fibule e ceramiche
confluirono nei musei. L’anno seguente la campagna di scavi si dedicò al Castro de
Lara, ricco di muraglioni e di case a base quadrata, con tanto di ceramiche, spade,
pugnali - e le immancabili fibule. Nel 1934, gli archeologi salirono alla Muela,
a monte della ermita di Santa María.
I risultati di questo terzo scavo furono eccezionali: venne alla luce un castro
celta con case circolari, ricco di manufatti di ceramica. Nel 1935 a
Miraveche, ai piedi dei monti Obarenes, la nuova campagna di scavi portò alla
luce la necropoli più famosa della cultura post-hallstattica: agli oggetti qui
trovati è stata dedicata una sala del Museo Archeológico Provincial de Burgos.
In seguito, altre campagne di scavo hanno fatto chiarezza sul passato di quest’angolo
di Spagna, riportando alla luce quattordici ville romane - di cui tre nel
territorio tra Quintanilla e la ermita
de Santa María - e i castri celtici di
Covarrubias e di Quintanalara.
Nel 1927, anno dell’arrivo della prima automobile a Quintanilla de las Viñas, le strade bastavano all’uso dei contadini
e dei loro animali. Provvederà l’infaticabile Jesús Vicario, col solo aiuto di suo figlio Ramiro, ad allargare la traccia
e battere il terreno per renderlo adatto al traffico su gomma - e saranno
sempre loro due a costruire la strada per la ermita.
Nel 1970 la Disputación
Provincial de Burgos riconoscerà a don Jesús un Premio de Embellecimiento per il suo lavoro
di manutenzione di Santa María e per la pulizia dello spazio che la
circonda. Nel 1986 a Jesús Vicario
verrà concessa la Medalla al Mérito Turistíco.
Antonio
THIERY
A che punto è la questione mozarabica
Pubblicato in Arte Medievale
Periodico internazionale
di critica dell’arte medievale
II Serie, Anno II, n. 2, 1988, pp. 29-62
Istituto
della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma
Roma
[…] Benché si faccia un gran parlare di
miniatura visigotica, i documenti pittorici, anche nel passaggio tra il IX ed
il X secolo, mettono in evidenza molti elementi simbolici, grandi lettere,
intrecci e labirinti, mentre la “figura umana”, se così si può chiamare, è
relegata ad un ruolo decisamente marginale.
Eppure tra il VII ed il X secolo la
cultura iconica della Penisola Iberica riesce a produrre testimonianze di
grandissimo interesse nell’architettura. San Pedro de la Nave non è
un’eccezione. Basterà ricordare Quintanilla de las Viñas (Burgos), San Juan en
Baños de Cerrato (Palencia), Santa Comba de Bande (Orense), le chiese oviedane
di San Julián de los Prados, San Pedro de Nora, Santa Maria de Bendones, San
Tirso de Oviedo, Santa Cristina de Lena, Santa Maria de Naranco, San Miguel de
Lillo, la portoghese chiesa di San Fructuoso de Montecelios (Braga).
Osservazioni particolari merita la
chiesa di San Julián de Los Prados, l’unica che permetta di ricostruire un
complesso ciclo di pitture murali tra l’VIII ed il X secolo. Ma, invano, al di
là di una singolare sequenza di rappresentazioni architettoniche, cercheremo
immagini “umane.” Evidentemente la complessità religiosa della Penisola
Iberica, la fortissima influenza giudaica prima ed araba dopo, consentono una
comunicazione iconica che, nella pittura, si realizza attraverso un fortissimo
uso di motivi simbolici, come del resto, attraverso gli intrecci, avverrà anche
nelle isole britanniche ([1]).
Scarsamente valutato, anche se ricordato
fin dal 1919, è il Sinodo di Elvira, che al canone XXXVI ([2]) prescrive, già agli inizi
del IV secolo con oltre quattrocento anni di anticipo rispetto alle lotte
iconoclaste: Placuit picturas in ecclesia
esse non debere; ne quod colitur et adoratur, in parietibus depingatur.
Il canone XXXVI di Elvira è fortemente
discusso, perché mancano documenti posteriori che richiamino il divieto. In
realtà basterà guardare con attenzione e complessivamente agli 81 capitoli del
Sinodo di Elvira, (detto più correttamente Concilium
Eliberitanum), per rendersi conto che il canone XXXVI ha una sua precisa
logica nella nascita e nel successivo sviluppo del cristianesimo nella penisola
iberica. Le prescrizioni non hanno nulla di teologico, ma sono una serie di
norme di comportamento, a carattere fortemente protezionistico, per le nascenti
comunità. Ci si deve guardare dai pagani (il capitolo I si riferisce appunto a De his qui post baptismum idolis
immolaverunt), dai giudei (il capitolo I recita: si vero quis clericus vel fidelis cum Judaeis cibum sumpserit, placuit
eum a communione abstinere, ut debeat emendari), da chi si discosta dalle
verità essenziali, che sono delineate dai 19 vescovi che partecipano al
Concilium Eliberitanum (il capitolo LI tratta De haereticis ut ad clerum non promoveatur).
Com’è evidente nelle interpretazioni
riportate ed evidenziate dallo stesso Mansi ([3]): reiectas esse imagines pictas, non sculptas.
Se non troviamo pitture in età
visigotica, troviamo, infatti, come testimoniano le chiese di San Pedro de la
Nave e di Quintanilla de las Viñas, sculture. È chiaro il profondo significato
della pietra viva che, soprattutto se incisa e caratterizzata da elementi
figurativi, comunica precisi messaggi. Ma è trasparente anche l’altissimo
significato comunicativo degli stessi edifici sacri, spesso scavati nella
roccia o cresciuti a ridosso di una grotta, caratterizzati da complessi ritmi
compositivi, che si presentano al fedele come libri aperti, fortemente
simbolici, da leggere in movimento, percorrendo fisicamente gli spazi labirintici
o scrutando con gli occhi i paramenti murari e le volte ([4]).
Il canone di Elvira è motivato dalla
paura del culto idolatrico? Dai rischi di una profanazione che può venire alle
immagini sacre da parte di pagani e giudei? Queste giustificazioni, certamente
valide, non bastano a spiegare la comunicazione iconica della penisola iberica.
È sempre più evidente che compositi significati simbolici sono affidati, nella
pittura, alla linea ed al colore e, nella scultura e nell’architettura, alla
pietra viva.
Nell’iconografia siro-mesopotamica e
giudaico-palestinese non c’è mai spazio per la rappresentazione. Si evidenziano momenti e segni nodali che
simboleggiano l’incarnazione del Cristo, senza la quale non ha motivo di
esistere la fede cristiana. Ecco episodi che valgono per il significato
profetico e simbolico (Daniele nella fossa dei leoni; il sacrificio che Abramo
si appresta a fare). Ecco la parola,
che di per sé è l’incarnazione stessa (il tetramorfo, simbolo degli Evangelisti
e dello stesso Vangelo; gli apostoli Filippo e Tommaso presunti autori dei più
importanti vangeli gnostici). Ecco soprattutto la pietra (capitelli, cancelli)
e l’insieme di pietre (l’edificio sacro) che è il Cristo stesso.
Le figure umane che troveremo nel
periodo mozarabico, nella miniatura, si riferiscono sempre al corpo risorto e
santo, o alle visioni apocalittiche che testimoniano, come vedremo, che la fine
dei tempi è già operante in noi.
L’antica prescrizione del Concilio di
Elvira del 300/306 non è richiamata, perché scrupolosamente seguita. Ho già
ricordato come Isidoro di Siviglia, così attento a definire i modi della comunicazione,
non faccia riferimento alle pitture, né alla “immagini” come noi le intendiamo.
I testi apocrifi e gnostici ([5]) ricordano che Cristo si è
manifestato per mezzo di simboli e immagini. I simboli e le immagini vanno
chiaramente ricercati nella sacra scrittura ([6]); nell’altare che
simboleggia la presenza di Dio ([7]) e che è al tempo stesso
un microcosmo del mondo naturale e dell’universo spirituale; nello stesso
edificio sacro, che è l’immagine
cosmica dell’Universo ([8]).
Giovanni ([9]) vede, nelle sue percezioni
apocalittiche, una croce di luce e
sulla croce “lo stesso Signore che non aveva alcuna forma, ma solo una voce.”
Interessante rilevare che la voce non
solo la si ascolta, ma la si vede. E
la croce è “sapienza dell’armonia, in essa c’è posto per la destra e la
sinistra.”
Nell’Apocalisse di Pietro ([10]), di chiaro ambiente
giudaico, c’è una condanna esplicita dell’immagine
come la cultura latino-greca la intende: “L’Angelo del Signore... farà venire
le anime dei peccatori... tutte quelle che abitano negli idoli di ogni genere,
nelle statue fuse, nei simboli lascivi, nelle pitture.” Questa condanna ricorda
bene un hadith dei Califfi del Bidal
al-Andalus: “Il giorno della Resurrezione, i fabbricanti di immagini saranno
colpiti dalla più grave delle punizioni, e a loro si dirà: date vita a quello
che avete creato.” La colpa dei facitori di immagini è dunque questa: la
creazione di figure illusorie, mentre Dio, Cristo, si fa scoprire attraverso
immagini concrete.
Nell’ambiente siro-mesopotamico e
palestinese si considera l’immagine prodotta nell’ambiente greco ed occidentale
come il residuo statico della sensazione, che porta ad una conoscenza astratta.
M. Jousse parla, non a caso, di
“ipertrofia oculare” dei Greci, che crea una fantasmagoria di “immagini.” Le
“immagini” non esistono ([11]). Ci sono soltanto gesti
accennati o compiuti: gesti corporei, gesti manuali, gesti oculari, gesti
laringo-boccali, gesti papillari, gesti pituitari, ecc. Tutta la nostra vita
intelligente si gestualizza. Noi vediamo, o meglio “intussuscepzioniamo”, non
solo con i nostri occhi, ma con tutto il nostro corpo ([12]). Solo in questa visione
acquista un ruolo preciso la liturgia, soprattutto quella spagnola del medioevo
sirianizzante ([13])
che considera la chiesa, l’edificio fatto di pietra come un essere vivente, con
il quale si entra in interagente rapporto con tutto il corpo.
La chiesa, immagine cosmica dell’Universo ([14]) è in relazione con
l’uomo tutto intero (l’anima ed il corpo destinati alla Resurrezione) che, come
ricorda Gregorio Magno, è quadammodo
omnia, cioè un’immagine cosmica dell’Universo.
“Sono venuto per rendere le cose di
quaggiù simili alle cose di lassù”, si legge nell’Apocrifo di Filippo ([15]) “e le cose esterne
simili alle interne. Sono venuto per unirle.” Non c’è, dunque, contrapposizione
tra naturale (o cosale) e soprannaturale. Il soprannaturale si conosce non
attraverso immagini che rappresentano la divinità o gli episodi della vita del
Cristo (come avviene nel mondo latino-greco) e stimolano i sentimenti, ma attraverso
una ricerca interiore profonda attivata da stimolazioni percettive e non
tramite dipinti narrativi. “Il Regno” dice l’Apocrifo di Tommaso ([16]) “è dentro di voi e fuori
di voi.”
A chiarire il significato di “simboli ed
immagini” nel mondo giudeo-cristiano, africano e, certo, anche spagnolo,
interviene ancora il Vangelo di Filippo ([17]): “Gesù dissimulò
segretamente ogni cosa. Egli, infatti, non si manifestò qual era (realmente),
ma si manifestò come lo si potesse vedere. Così si manifestò a tutti. Si manifestò
grande ai grandi. Si manifestò piccolo ai piccoli... Era grande, ma rese grandi
i suoi discepoli, affinché lo potessero vedere nella sua grandezza.” Gregorio
Magno può scrivere: Sacra eloquia cum
legente crescunt. Sacra lectio talis invenitur qualis fit ipse a quo invenitur
([18]).
È in questo contesto che vanno valutati
gli edifici sacri, il cui ruolo, la cui funzione, come momento conoscitivo e di
raccordo tra il mondo di quaggiù e quello lassù, è fondamentale. “La
divinità... sarà sotto le ali della croce e sotto le sue braccia” ([19]): la chiesa prenderà
spesso la forma di una croce; spesso, nel labirintico gioco della pianta, consentirà di vivere la croce. La chiesa,
qualunque forma abbia, è croce essa stessa. E lì, infatti, che si fa memoriale della morte di Cristo,
rivivendo i momenti fondamentali dell’incarnazione, della morte e resurrezione,
attraverso la “voce”, la “parola” tramandata dalle sacre scritture.
È una simbologia complessa quella
giudeo-cristiana. Ed il capitolo XXXVI del Concilio di Elvira non si può
certamente collegare alla lotta iconoclastica dell’VIII-IX secolo. Basterà
contrapporre a questa visione dell’immagine,
che sono andato sommariamente delineando attraverso la citazione di alcuni
apocrifi, il dettato del II Concilio di Nicea, che interviene nella disputa
iconoclastica ristabilendo l’uso delle immagini nelle chiese dei Gentili. Nelle
Definizioni si legge: “Infatti,
quanto più continuamente essi” (Gesù Cristo, la santa madre di Dio, gli angeli
degni di onore, tutti i santi e pii uomini) “vengono visti nelle immagini,
tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli
che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione” ([20]). La penisola iberica,
fin dall’età romana, ha mostrato un particolare interesse per la produzione di
motivi figurali fortemente simbolici. Ricorderò il mosaico della Villa di
Cuevas di Soria ([21]).
Nell’età visigotica l’interesse
simbolico si sviluppa fortemente, oltre che in chiese già ricordate,
nell’iconostasi e nelle doppie finestre di Santa Cristina di Lena e nella
cupola della crociera della chiesa di San Fructuoso de Montecelios (Barga, Portogallo),
costruita tra il 656 ed il 665. Da un impianto quadrato si passa ad una calotta
semisferica, avendo come momenti fondamentali di passaggio le quattro nicchie
poste agli angoli del quadrato e le quattro finestre che segnano i punti di
connessione tra il quadrato ed il cerchio.
[1] Il tema è stato
affrontato in: A. THIERY. L’Oriente e le
origini delle miniature precarolinge, “Commentari” XVIII (1967), pp.
105-125.
[2] GOMEZ MORENO, Iglesias, p. 326. Cfr. MANSI, Sacrorum conciliorum, II, 11.
[3] Ibidem, II. 33.
[4] I simboli, p. 254.
[5] Vangelo di Filippo, 30; 67 10; 84, 20;
86, 10.
[6] GREGORIO MAGNO,
In Ez., 1, 7, 15-16.
[7] I simboli, pp. 209 e 212.
[8] Ibidem, p. 133.
[9] Atti apocr. Apostoli, del Santo Apostolo ed
Evangelista Giovanni il Teologo, 98, 1-3. (Cfr. MORALDI, Apocrifi, p. 1184).
[10] Apocalisse di Pietro, 6.
[11] JOUSSE, L’antropologia, p. Anno 96.
[12] Lo stesso IV
Concilio di Toledo, al canone XIII prescrive: Componuntur ergo hymni, sicut componuntur missae, sive preces, vel
orationes, sive commendationes, seu manus impositiones: ex quibus si nufla
dicantur in ecclesia, vocant officia omnia ecclesiastica, MANSI X, 623.
[13] Il tema è
ampiamente dibattuto da E. LEVI PROVENCAL, España
musulmana hasta la caída del Califato de Córdoba (711-1031) in Historia de España, dirigida por Ramón
Menendez Pidal, Madrid 1950, tomo IV e V; IV, pp. 89-90.
[14] I simboli, p. 133 e 254 (l’edificio è
spesso assimilato ad un essere vivente e questo “potrebbe spiegare alcune
anomalie architettoniche.” Spesso c’è irregolarità della simmetria, nella parte
sinistra e destra di uno stesso volto; spesso leggeri cambiamenti di direzione
dei muri danno a tutto l’edificio un movimento rotatorio.
[15] Vangelo di Filippo, 67, 30.
[16] Vangelo di Tommaso, 32, 20.
[17] Vangelo di Filippo, 57, 20-30. Anche
Ireneo (P. G., vol. 7, coll. 1031-43)
ed Origene (P. G., vol. 12, coll. 207-208) osservano che gli uomini hanno
riconosciuto Cristo come uomo e gli angeli come angelo.
[18] GREGORIO MAGNO,
In Ez., 1, 7, 15-16.
[19] Vangelo di Filippo, 84, 30.
[20] ALBERIGO (a
cura di), Decisioni dei concili, p.
203. Sul contrasto tra l’immagine segno e l’immagine edificante, cfr. THIERY, La cultura e l’arte.
[21] B. HUGUET, Arte Romana, in Ars Hispaniae, vol. II, p. 154, fig. 162.
Sullo sfondo: il castro di Lara |
Conos de las Mamblas |
Santa Maria de Lara, nord |
Da NO |
Da ONO |
Sepolture |
Da |
Da Sud-ovest |
Lato est, testata |
Lati est (ingresso) e sud |
Lato est (sopra l'ingresso) |
Lato sud |
Lato sud |
Lato est (testata) |
Lato est (monogramma) |
Lato est (monogramma) |
Lato est (monogramma) |
Lato nord |
Lati nord ed est |
Antonio Velasco |
Transetto; accesso chiuso verso ovest |
Transetto e arco absidale |
Doña Lambra |
Difensore della fede |
Doña Lambra |